L’origine della scrittura al femminile: “Nomi di piume, Vite straordinarie di scrittori donne” di Muriel Pavoni
@ Rinaldo Caddeo, 24 giugno 2024
Il libro prende in esame la vita di venti scrittrici italiane del ‘900, più una, come suggerisce la Postfazione, immaginaria. Chi è?
Il volume è suddiviso in otto sezioni che indicano le problematiche entro cui sono state distribuite le diverse scrittrici: Il problema del mestiere e dell’ambizione, Il problema del corpo e della bellezza, La sottovalutazione come genere letterario, Il problema del valore, Il problema della solitudine della scrittrice, L’intralcio della famiglia, Il problema della censura, Scrittura e malattia: grandi alleate.
Sono problematiche universali che possono riguardare sia scrittori sia scrittrici ma che investono in pieno la condizione femminile, quindi la scrittura al femminile. È nel loro orizzonte che si staglia la narrazione di Muriel Pavoni.
Ogni capitolo si suddivide in due parti. Una prima parte, breve, in terza persona, espone oggettivamente una vicenda biografica collegata alla problematica in cui la scrittrice è stata inserita. Una seconda parte, molto più lunga, in forma di lettera, o di dialogo tra due o più persone, o di confessione autobiografica, o di pagina di diario, ci offre una tranche de vie, immersa in una tematica di scrittura ovvero di creazione, oscillando tra documentazione e fantasia, come Pavoni stessa avverte. L’autrice è calata nel personaggio. Spesso in prima persona, a volte in terza o addirittura in seconda persona, descrive una fase tipica, o delimita un momento decisivo, un culmine o una svolta, della vita del personaggio/autore. Sono percorsi di vita con un epilogo paradossale, pungente, a volte aforistico, che riguardano il più delle volte lo scrivere, la letteratura, in particolare il rapporto tra condizioni di vita e scrittura.
Nel suo insieme il libro risulta un’enciclopedia di ritratti femminili, non senza riferimenti a figure maschili ricorrenti come quelle di Alberto Moravia, Massimo Bontempelli, Arnoldo Mondadori. Ne risulta una mappatura, sintetica e precisa, per quanto volutamente incompleta, della letteratura italiana del ‘900 al femminile. Uno sguardo che scandaglia volti, case, stanze, come fossero paesaggi dell’anima. Una voce che dà parola a una molteplicità e complessità di situazioni, di relazioni e di condizioni, spesso di perdita, di sofferenza, di emarginazione, di mancanza, che si fanno istanze di una nuova letteratura, parole lucide di una condizione umana che diviene scrittura necessaria, utile e importante per gli altri, come indicava Manzoni.
Romanzo speciale che si potrebbe ricondurre, in larga misura, a una narrazione non-fiction. L’autrice non inventa (tranne un caso, che delucideremo alla fine) ma svela e ricostruisce scene, incontri, momenti/motivi cruciali.
Nel caso della Deledda l’incontro, deludente, con un critico letterario giunto dal continente, è il motivo di una riflessione sul dilemma tra modernità e tradizione. Per Natalia Ginzburg il problema è il tempo: immersa nel presente non riesce a tagliare i ponti con un doloroso passato. Nel caso di Elsa Morante è descritto un periodo di convivenza tra Morante e Ginzburg dove emerge il suo carattere aperto ma egocentrico, tenero ma inflessibile, sincero ma disperato, il suo approccio totalizzante alla scrittura, la sua vita quotidiana visitata da fantasmi e presagi. In Paola Masino, compagna di Massimo Bontempelli, emerge la sua inettitudine di massaia ovvero di padrona di casa, (una grande e gelida casa veneziana), pari al suo genio creativo di scrittrice. Non sa o non vuole imporsi sul personale di servizio che se ne approfitta e fa i propri comodi. Preferisce fare direttamente lei i mestieri che far fare a chi dovrebbe fare. È visitata da incubi in cui la casa, appoggiata sulle sue spalle, è sul punto di crollare e sgretolarsi. Le rimane una palafitta a cui aggrapparsi. Ha perso la voglia di scrivere. Il foglio bianco la fissa come la superficie di un gelido specchio. L’intellettuale è Massimo Bontempelli, lei si sente solo l’autrice di romanzetti giovanili dallo stile manierato. In fine, toccato il fondo, c’è un sussulto, una specie di ribellione. Dopo aver origliato i pettegolezzi della servitù, decide di riprendersi in mano la vita, di fare un giro in gondola, di scrivere un racconto.
Con Lalla Romano c’è la descrizione di un sogno di volo accompagnato da un’esperienza straniante di smarrimento. Romano esordisce come narratrice con Metamorfosi, (1951), una raccolta di racconti di sogni.
Nel caso di Anna Banti, sposa di tanto marito (Roberto Longhi), critica d’arte anch’ella, ne segue le orme: visita chiese, musei, mostre. Vive la vita della moglie–assistente, ombra del Maestro. Entra in crisi. Scova, (a costo di celare, all’inizio, la propria identità dietro pseudonimi e fotografie di signore di mezza età per non compromettere la reputazione del marito), in una selva selvaggia di frustrazioni, un sentiero di perlustrazione di sé e della propria storia che la porta alla scrittura creativa.
Pavoni dimostra un’attitudine speciale a mimetizzarsi nella cifra specifica della scrittrice di cui tratta. Riesce a tradurre aridi dati biografici in una ricostruzione, palmo a palmo, di una soggettiva di ambienti, di caratteri che penetra e imbeve con i conflitti, con le ossessioni, le fragilità, le solitudini, le scaramanzie delle persone, dato che le scrittrici di cui tratta (c’è anche un premio Nobel) sono in primo luogo delle persone, uguali alle altre persone, con le debolezze, le miserie e le risorse, delle persone comuni. Donne che hanno scoperto la scrittura e in essa hanno ricostruito, spesso dolorosamente, il senso della propria vita.
Pavoni entra in una mente e riesce a coniugare meravigliosamente la mentalità con lo stile. Un esempio per tutti, anzi, per tutte: Anna Maria Ortese. C’è un dialogo stralunato, molto ortesiano, di tre pagine con un gatto malconcio incontrato in un calle veneziano. Ecco, con questo povero gatto, rispondendo alle sue domande, la scrittrice riesce per la prima volta a parlare di sé, a raccontare la sua vita: «Da bambina tutto era straordinario, vasto, inesplicabile, il mondo era abitato da spiriti. A quell’età scrivere poesie era facile, bastava avere sensibilità e un po’ d’orecchio. Poi sono passata alla prosa, che era difficilissima, ma in quegli anni scrivere mi appariva la cosa più facile del mondo.»
Uno stile diretto, chiaro, semplice, quotidiano, quello di Muriel Pavoni, ma accurato, minuzioso nello scandaglio psicologico e nel rintracciare le caratteristiche specifiche, nel reperire l’origine, nascosta spesso dietro una cortina fumogena o dentro un labirinto di depistaggi, dell’atto creativo.
Chi è la scrittrice immaginaria?
Si tratta di Milena Vuorpi: anagramma di Muriel Pavoni. La sua storia conclude il volume. È una storia paradossale e imbevuta di garbata ironia. È l’unica scrittrice ad aver vinto il Premio Strega con un’opera postuma, Il balordo. Sua madre le raccontava la fiaba di Cappuccetto rosso in chiave erotica. Milena, ostinata e visionaria, s’innamora perdutamente di un omone brutto ma interessante, in quel di Milano, quartiere Brera, bar Jamaica, che, all’inizio non ne vuol saper di lei e la respinge. Ma lei non molla. La sua storia, inventata, si rivela rappresentazione tragica e verosimile di un Luciano Bianciardi alla fine.
Muriel Pavoni, Nomi di piume, Vite straordinarie di scrittori donne, Robin Edizioni, Torino 2023.