Un’inguaribile solitudine. “La tenerezza”, un film di Gianni Amelio

Per rendere omaggio all’interpretazione di Renato Carpentieri, che gli è appena valsa il David di Donatello Miglior Attore, riproponiamo la recensione di “La tenerezza” scritta da Sauro Borelli.

 

Un’inguaribile solitudine. “La tenerezza”, un film di Gianni Amelio

Fin dal suo primo film, Colpire al cuore (1982), Gianni Amelio si è misurato – mettendo a confronto serrato l’intellettuale Dario (Jean Louis Trintignant) e l’infido figlio adolescente Emilio (Fausto Rossi) – con vicende, emozioni drammaticamente vibranti quale, per l’occasione, l’insorgenza terroristica e i suoi intricati aspetti contingenti, come appunto il faticato rapporto tra padre e figlio. In tanti altri suoi film, in effetti, questo particolare scorcio evocativo assume all’interno di storie più vaste un suo preciso peso espressivo. Ma, La tenerezza, undicesimo lungometraggio del cineasta calabrese, si proporziona sullo schermo – desunto dall’intenso romanzo di Lorenzo Marone La tentazione di essere felici – in termini e modi esemplarmente originali. Ovvero, padri e figli compaiono sin dall’avvio del racconto come i poli di caratterizzazioni malate e, giusto in forza di una patologica attitudine, destinate prima ad infrangersi l’una contro l’altra, poi a sublimarsi in una cognizione del dolore assidua, inesorabile.

La tenerezza è, immerso per giunta in una Napoli del centro storico tutta corrusca come è nei grandi palazzi, nel caos quotidiano, in una ambientazione fisica, psicologica tetra, claustrofobica, ove i passanti, le ore della giornata si intersecano, si accavallano in un moto perpetuo inarrestabile soltanto di quando in quando placato nei luoghi astratti, sterilizzati di ospedali, uffici pubblici, spazi desolati e deserti, di una vitalità artefatta, senza significato. Ed è proprio tale décor prevaricante che si dispiega la presenza-assenza di Lorenzo Bonsignore (un irsuto, scorbutico Renato Carpentieri di portentosa verità), un malandato avvocato ormai inattivo che nel palazzo già di sua proprietà e ora soltanto abitato in una sua parte sopravvive tra le angustie della salute precaria e l’incombere tutto anaffettivo di una figlia e di un figlio (bravissimi in questi negativi ruoli Giovanna Mezzogiorno e Arturo Muselli), Elena e Saverio e gli ossessivi ricordi di un’esistenza ormai dissipata, dopo la morte della moglie (a causa dello stesso avvocato) e la colpevole consapevolezza di un adulterio anch’esso naufragato. In definitiva, il classico nido di vipere susseguente all’idea dispotica, egocentrica del protagonista sul mondo, sull’umanità. Fino al punto di una abdicazione senza riscatto di giorni e giorni disperati.

Allorché, però, lo sconfortato Lorenzo, per un casuale evento contingente (l’impensabile arrivo nel contiguo appartamento dell’avvocato di una giovane coppia con i loro bambini, un maschietto e una femminuccia) si ritrova, sua malgrado, a mitigare con un più arrendevole comportamento frequentando i nuovi venuti provenienti dal nord – lei (Micaela Ramazzotti), lui (Elio Germano) – instaurando con costoro, in ispecie con la giovane sorridente moglie curiosa di tutto, di tutti un modus vivendi quantomeno cordiale. Anche se lo scontroso avvocato ha, quale interlocutore privilegiato, uno spigliato nipotino (figlio della melanconica Elena) cui in momenti e abbandoni ricorrenti insegna a trasgredire tutte le norme della più conformistica educazione. Lorenzo, insomma, non sa (non vuole) piegarsi ad alcuna rassegnata condizione di risentito pensionato. E cercando anche vagamente una redenzione dai suoi trascorsi di uomo poco dabbene persino con sé stesso, l’anziano avvocato a volte colpito da rischiosi colpi al cuore, si intenerisce passo passo con la sorte poco amena dei due giovani sposi accasati ad un passo dal suo appartamento. La cosa all’apparenza sembra approdare ad una consuetudine abbastanza normale, pur se la giovane moglie e il suo turbato marito palesano le stimmate di una inquietudine non detta, un “male oscuro”, che di lì a poco esploderà in una tragica evenienza: il marito, segnato da una pulsione omicida, spara alla moglie, ai figlioletti, a sé stesso. E, dramma anche più fosco, la giovane moglie sopravvive, ma incastrata nel coma di una condizione vegetativa.

A questo punto, i destini di Lorenzo, dell’inappagata figlia Elena, del figlio assolutamente indifferente Saverio, persino del nipote già prediletto assumono per l’avvocato senza più alcuna prospettiva esistenziale una irrilevanza totale per far posto alla sua dominante ragione di assistere l’estremo della fine ultima della giovane, irrecuperabile vicina di casa. A tale svolta della disgraziata vicenda, nemmeno il tentativo della figlia Elena di recuperare alla vita il padre e l’incontro miserevole con l’ex amante del passato, possono ripristinare, anche fugacemente, un equilibrio normale nella vita di Lorenzo. Al più, un piccolo gesto di tenerezza – quando appunto Elena prende dolcemente la mano del padre rinserrato in una catatonica serenità – la storia si illumina quietamente della pacificatrice sapienza del cuore.

Significativa a questo proposito l’ammissione di Gianni Amelio su quale e quanta sia la componente autobiografica:  trascendendo la sostanza dell’originario romanzo La tentazione di essere felici, il regista pone tanto di suo- in questa sua singolare Tenerezza- specie quando così spiega: “Pensavo che per una volta il personaggio principale potesse in qualche modo somigliarmi… Mi sono detto: c’è un uomo della mia età e allora fammelo raccontare. Così ho riscritto quel ruolo seguendo una serie di sentimenti e di idiosincrasie tutti miei. Il fatto che io sia brusco nei rapporti affettivi quando mi accorgo che diventano pesanti. Se qualcuno cerca di aiutarmi, scatta in me l’orgoglio, non accetto premura. Perché si ha premura dei bambini e degli anziani… Non posso essere un bimbo, quindi mi fa orrore appartenere all’altra categoria”. Di qui, dunque, Gianni Amelio può dire, analogamente a Flaubert, “Lorenzo c’est moi”, un uomo inguaribilmente solo.