Agata Motta- L’intervista. Gianfranco Perriera, “Una cara eredità”

 

 

 

 

L’intervista

 

GIANFRANCO PERRIERA, UNA CARA EREDITA’

Di scena al Teatro Biondo di Palermo  con “Il polverone”

 

Anche quest’anno il teatro Biondo propone un ricordo dello scomparso  Michele Perriera (la scorsa stagione Claudio Collovà aveva diretto il bellissimo lavoro I nostri tempi) e lo fa attraverso i suoi testi e le sue parole risorti tra le mani del figlio Gianfranco che porta in scena al Bellini “Il polverone”. Lo spettacolo, prodotto dallo Stabile palermitano, è costituito da tre atti unici (Dove hai lasciato la sua barca?, Il polverone, Ti ricordi?) tratti dagli Atti del bradipo e tra loro collegati da brani de Romanzo d’amore e Con quelle idee da canguro.

La famiglia di Michele Perriera  – con i figli Gianfranco e Giuditta e la moglie Lisa Ricca – ha sempre lavorato compattamente insieme, in un processo continuo di confronti e scambi reciproci. Non si può, dunque, parlare, nel caso di Gianfranco, di un vero e proprio passaggio del testimone, quanto piuttosto di una crescita e di una maturazione accanto ad un Maestro indiscusso del teatro italiano. Pensavamo fosse antipatico, se non addirittura irritante, chiedere a Gianfranco di tornare ancora su quelle esperienze, di ricordare il padre, come ha già fatto chissà quante volte in questi due anni e più dalla sua scomparsa, e invece no, lui si presta volentieri, anzi si abbandona quasi al flusso dei ricordi e delle riflessioni.

Racconta di avere avuto la fortuna di crescere all’interno di un gioco appassionante ed appassionato (che come tutte le migliori passioni contiene una certa dose di sofferenza, naturalmente): quello di essersi trovato, sin da bambino, alle prese con un mondo fatto di ispirazione e di profonda attenzione per il sapere e l’arte, nelle sue svariate forme, ma con una qualche predilezione per quelle più complesse, meno ovvie. Ricorda di essere cresciuto in una casa che straboccava di libri, con un padre che dedicava numerose ore della giornata alle più svariate attività culturali, di aver trascorso, insieme con la sorella Giuditta, molto tempo con nonna Esterina, che era stata una pianista di un certo talento prima che il marito, una volta impalmatala, le dicesse che per lei era giunto il tempo di ritirarsi a “farsi a quasietta”. Insomma, per i due fratelli non poteva esserci cosa più normale che finire incantati dalla “tradizione familiare” e dal suo amore per la scena. Così per molti anni, assieme a tante persone, entrambi sono stati coinvolti in una ricca trama di scambi e di relazioni che – precisa Gianfranco – ci sia di mezzo o meno l’arte, sono quelli che rendono la vita più lieve e sorprendente, che redimono dalla mortale ripetizione dell’identico.

Qual è l’eredità più tangibile ricevuta da suo padre sul piano umano e su quello professionale? E in cosa lei pensa di essersi, invece, del tutto affrancato al fine di intraprendere un percorso originale?

Di qualsiasi cosa ci si occupi, è la sensibilità nell’ascoltare l’altro da sé che ci rende più gentili e più sognatori. E’ proprio di questa attenzione all’altro da sé, soprattutto a ciò che sta oltre le pieghe superficiali della cosiddetta realtà, che mi sento particolarmente debitore a mio padre. A proposito dell’eredità mi si lasci però dire una ovvietà. Molto prima che un maestro, Michele era mio  padre: il padre con cui giocavo a pallone o a carte, con cui divagavo del più o del meno, con cui ridevo di quisquilie, con cui mi accapigliavo per i campioni  sportivi non condivisi o per i libri che non amavamo allo stesso modo. Dette queste ovvietà e premesso che l’essere figlio  di una persona nota e così carismatica ti obbliga a sostenere qualche peso in più sulle spalle, ma ti dà anche qualche vantaggio (non ultimo il fatto che dire “non sono d’accordo, papà” suona meno stridente di “non sono d’accordo, maestro), è evidente che la lunga frequenza con il suo modo di intendere l’arte e la scrittura in particolare sia stata la base della mia formazione.  Non posso non pensare alla sua meticolosa cura dei particolari, alla sua capacità visionaria, al suo non accontentarsi della soluzione più comoda, alla forte impronta etica della sua opera, al desiderio che ha sempre avuto che arte e cultura un modo mite e insieme senza concessioni di rendere il mondo più abitabile. Assumersi la responsabilità di un proprio stile senza pretendere che esso sia quello che tutti dovrebbero adorare e ripetere spero sia ciò che in particolare abbia maturato con lui, insieme alla convinzione che cultura e arte diano sempre un qualche spessore alla nostra coscienza. Quanto alla mia originalità rispetto a lui, mi sembra giusto lasciare ad altri la risposta. Ho sempre considerato ogni individuo irripetibile, frutto di cromosomi incrociati, di epoche diverse, di scelte e di incontri personali.  Non bisogna aver paura delle tradizioni e del passato che sempre in qualche modo pone delle condizioni: ignorare l’origine o mostrarle i muscoli per ostentarle la propria diversità, spesso fa sì che l’origine ti piombi alle spalle con un volto di iena  che magari, “in origine”, non aveva. Non mi sento impegnato a diversificarmi da lui, quando dirigo uno spettacolo o scrivo qualcosa sono invece intento a dar corpo ai miei pensieri, alle mie ansie e ai miei desideri, e al modo in cui interagiscono con i pensieri, le ansie e i desideri del mondo.

Dirigere i lavori di Michele Perriera  è un compito arduo per chiunque, considerato il modo demiurgico di intendere la regia che gli era proprio. Forse per un figlio raccogliere la sfida deve presentare ulteriori grovigli interiori ed interpretativi. Come si è mosso?

I nostri sono tempi in cui i testi fortemente strutturati tendono a ritenersi ardui o sorpassati. La nostra è l’epoca degli happening e delle creazioni collettive, della morte dell’autore e delle istallazioni che non lasciano traccia di sé. Tutte operazioni che hanno dato luogo a creazioni di straordinario valore. Come anche a diverse sciocchezze. Il teatro contemporaneo, in particolare, si dimostra particolarmente restio alle opere chiuse.  Per quanto mi riguarda, invece, considero un’opera strutturata uno stimolo alla creazione. Un modo perché la mia libertà creativa sia  chiamata ogni volta a mettersi in discussione proprio dall’incontro con un altro che non è interamente a mia disposizione. Per fare un esempio concreto, uno dei testi di questa messinscena (Ti ricordi?) è sulla carta costituito da una serie di didascalie che fungono da indicazioni per una pantomima scenica di un singolo attore. Io ho scelto di far recitare in scena da tre attrici le didascalie e di affidare la “pantomima” a due attori.  E’ il percorso interpretativo in cui ho incontrato i testi che mi ha condotto in tale direzione.

Quale filo conduttore lega i tre atti unici?

Una donna si prende cura di un misterioso giovane ferito ad una spalla che solo lei riesce a vedere e si rifiuta di abbandonarlo al suo destino di morte. Una seconda donna si aggira sperduta tra le macerie di una città investita da un polverone giallo per ritrovare quello che fu forse il suo ragazzo. Una terza donna, invece, si lascia catturare all’interno di un video, disposta a lasciare incastonare nel suo il cervello di un altro. Sono piccole storie, dal carattere visionario, che raccontano della condizione della nostra anima, della nostra coscienza. Se l’epoca pare raccomandare l’oblio, la sparizione, il rancore e l’indifferenza, queste tre donne ne sono la disarmata denuncia.

Nello spettacolo compaiono un poeta e un angelo: la poesia e il divino come riferimenti salvifici per un’umanità che si distacca sempre più dalla bellezza e dalla redenzione?

A fare da collante ai tre testi, ad accompagnarne la sequenza che si dà senza soluzione di continuità, ho scelto le figure di un poeta e di un angelo senza ali (le parole che tali personaggi pronunciano sono tutte rigorosamente “di Michele”, tratte da svariati testi e da me ricucite a comporre le scene in cui i suddetti personaggi compaiono). Prima di mettermi al lavoro avevo immaginato cieco il poeta. Ma poi, riflettendo su un tempo così dominato dalle immagini, ho pensato che la cecità – in senso metaforico ovviamente –  lo avrebbe fin troppo difeso dalla capacità seduttiva del mondo contemporaneo. Sì, poesia e divino si danno come ipotesi di redenzione. Purché si tenga conto della loro fragilità. Non a caso l’angelo è senza ali. Come volare in un’epoca così sbiadita e così spietata?  Siamo umani per la nostra capacità di fare cose apparentemente non immediatamente utili: ricordarci dei nostri cari scomparsi, sognare redenzioni possibili, raccontare storie, immaginare iperurani. E’ il nostro essere testimoni dell’assenza della verità, della giustizia che ci rende così intensi. E così fragili. E proprio la fragilità, una fragilità responsabile, creda possa essere il modo di resistere alla arroganza effimera che il mondo attuale – dagli schermi come dal sedicente reale – pare imporci.

ll senso di attesa e di recupero memoriale presenti nello spettacolo – il futuro da una parte e il passato dall’altra – indicano un voluto scollamento dal presente, un manifesto disagio dell’essere adesso in questo mondo?

Benché non vada troppo di moda, è la malinconia una qualità che ritengo non debba mai mancare ad una creazione artistica. La malinconia di un buon futuro, dove morti e vivi possano fare una gran festa insieme, come recita una delle battute dello spettacolo. E’ proprio della malinconia quel modo delicato di pensare che nel mondo c’è sempre qualche ingiustizia da sanare, c’è sempre un umiliato e un offeso che avremmo dovuto non umiliare e non offendere. Se l’arte non esprime il disagio per il presente, non fa dunque pienamente il suo dovere. Credo.

Alle donne sono spesso affidati, in sede drammaturgica, gli snodi più delicati e difficili; in esse si veicola la forza residua, la speranza mai dismessa, la paziente opera di ricostruzione. Chi sono le tre donne dello spettacolo? Cosa otterranno?

Premesso che anche le donne possono essere terribili (ci sono state fidanzate di Hitler e donne disposte a tutto per il successo, ci sono state madri che hanno ucciso i propri figli, torturato ad Abu Ghraib, e donne capo mafia), non è il genere che di per sé rende migliori. Se fosse così, daremmo luogo ad un nuovo razzismo. E’ vero d’altro canto che la mascolinità è stata l’immagine in cui ha finito per consistere il potere, è vero che la minore forza fisica ha fatto sì che le donne fossero soggette alle più indegne violenze, ed è vero che millenni di storia l’hanno obbligata ad una condizione di sottomissione o di sostegno. Per queste ragioni possiamo pensare alle donne come incarnazione delle speranze di chi vuole un mondo meno efferato e più disponibile all’ascolto dell’altro. Purché si sappia resistere alla tentazione di ribadire gli atteggiamenti di chi tanto a lungo ha esercitato il potere. Quanto alle tre donne dello spettacolo, esse sono la rappresentazione della nostra anima (o di quel pezzetto che ancora ne sopravvive), della sua tenera ostinazione a non precipitare nella dimenticanza, ma anche della sua rischiosa tendenza a capitolare. Non è ad uno spettacolo che possiamo demandare le soluzioni. Ad esso possiamo chiedere le domande che non lascino naufragare le nostre aspirazioni migliori. Cosa otterranno le tre donne, dunque? Che si ascoltino le loro storie. Ancora una volta. E’ già qualcosa. Per non soccombere ad un vuoto silenzio.

Cosa resterà indenne, se qualcosa resterà, dopo il passaggio del polverone che tutto strapazza e scortica?

Quando una persona cara viene a mancare, anche i suoi oggetti più futili, quelli più incongrui e fastidiosi, danno luogo a qualche rimemorazione, raccontano qualche storia. Beh, qualcosa del genere resterà dopo il passaggio del polverone che pare precipitarci in una sabbiosa e livida indolenza. Se qualcuno leggerà nella polvere le tracce di un’assenza, ecco che un nuovo inizio sarà possibile.

Lo spettacolo, che vede in scena Serena Barone, Roberto Bugio, Aurora Falcone, Giuditta Ferriera ed Elena Pistillo, sarà replicato al Bellini fino al 26 maggio. Le scene e i costumi sono di Dario Taormina, le luci di Pietro Sperduti.

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