Nel Paese dei Ciechi, ovvero le tenebre della simmetria secondo Wells
@ Lucia Tempestini, 7 marzo 2024
Senza neanche far mostra di particolari capacità deduttive, si può attribuire all’unanimismo – di sinistra, di centro e di destra – l’origine del cancro che va burbanzosamente devastando la corteccia cerebrale dei conglomerati umani annidati in ogni interstizio dell’annaspante Pianeta Azzurro – perso in mezzo alla freddezza stellare con il suo affannato bagaglio di hilarotragoedia, ovvero di gravitas esilarante -, con danni irreversibili a memoria, attenzione, percezione, immaginazione, consapevolezza, pensiero, linguaggio e coscienza.
Se poi volessimo una dimostrazione di questa tesi, scantonando ponderosi trattati di storia, filosofia, diritto, politologia ecc., basterebbe leggere un racconto, tagliente e lirico, di Wells: Nel paese dei ciechi, pubblicato nel 1904 su Strand Magazine.
Veniamo alla storia. Núñez, un giovane proveniente da Bogotà, per una successione di concause precipita lungo la parete interna di una montagna trascinato dalla corsa della valanga che l’ha avvolto, fino ad arrivare in fondo a una valle brumosa al centro della quale sorge un villaggio dalle caratteristiche misteriose. Le case sono quadrate e prive di finestre, dall’intonaco irregolare e dai colori spenti. Vi abita un popolo di ciechi, che vive coltivando la terra e allevando lama. Molto tempo prima i loro progenitori avevano cominciato a perdere la vista e, di generazione in generazione, questa etnia apparentemente mite era sprofondata nella cecità fisica e mnemonica, dimenticando persino l’esistenza della possibilità di vedere il rosseggiare dei ghiacciai sotto il sole declinante o i brevi segnali delle innumerevoli stelle che punteggiano la volta celeste.
Pare all’inizio un’idilliaca Shangri-La andina, tuttavia Núñez prova una crescente ripugnanza per la mutazione genetica subita dai Ciechi: la facoltà ferina di percepire ogni minimo movimento altrui, le palpebre rosse e infossate. Hanno pelle liscia, gesti mollicci, voci flautate, nulla sembra turbarli se non la ribellione alla loro misera visione del mondo, alla tiepidezza ottusa e arrogante che si manifesta nella dedizione all’ordine e nell’elaborazione di una concezione menomata del mondo.
Convinti che una calotta di pietra liscia sovrasti e racchiuda le montagne e il villaggio, si appiattiscono sulle asfittiche minuzie quotidiane dimentichi di ogni anelito e desiderio, presumendo che tutto ciò significhi praticare una forma suprema di saggezza.
Non comprendono le parole disperate, piene di colori, di vita, di orizzonti sconfinati, di concetti a loro ignoti, con cui lo straniero si ostina a voler raffigurare le forme del mondo, così come non capiscono le palpebre sporgenti, mobili, ornate di lunghe ciglia di Núñez. Lo considerano anzi un folle, un ribelle, un malvagio, perché non uniformandosi alla dottrina unanimemente accettata diventa elemento perturbante, quindi capro espiatorio perfetto, anomalia da estirpare.
Dopo un’aperta ribellione arrivano a braccarlo avanzando velocemente a semicerchio, con la schiena curva per meglio fiutarne le tracce, prendendo l’aspetto di un superorganismo bestiale perfettamente organizzato per uccidere. Il giovane si salva simulando un’abiura e accettando la schiavitù e lo status di creatura deforme e inferiore.
Quando si innamora di Medina, una ragazza del villaggio, i Vecchi, per acconsentire al matrimonio, gli impongono di lasciarsi enucleare gli occhi e diventare così uno di loro.
In un primo momento, preso dalla passione, Núñez accetta il patto, ma la notte prima del rito crudele fugge risalendo le pareti rocciose. Per poi discendere i valichi fino a Bogotà, fino al mare, all’arco azzurro immenso del cielo, non ingabbiato dai monti, abisso su abissi in cui si librano vorticando le stelle. Lontano dal villaggio di pietra e di tenebre costruito in fondo a un pozzo di foschia e ignoranza, lontano dalla tentazione di sacrificare la parte più nobile di sé e insieme ad essa l’immaginazione e l’identità. Lontano dalla nefandezza di un piccolo amore ricattatorio, dalla paranoia di un’etnia che soffoca l’intero universo circoscrivendolo entro vialetti ordinati e simmetrici.
Via, verso lo spalancato orizzonte, a riveder le stelle.