“Le memorie di Ivan Karamazov” con Umberto Orsini: un gioco vertiginoso di rispecchiamenti e sdoppiamenti

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Le memorie di Ivan Karamazov con Umberto Orsini: un gioco vertiginoso di rispecchiamenti e sdoppiamenti

@ Rinaldo Caddeo, 16 maggio 2024

Se c’è un personaggio, tra i molteplici e contraddittori personaggi di Dostoevskij, che racchiude in sé il dramma irrisolto delle antinomie dostoevskiane, questi è Ivan Karamazov. E se c’è un attore che ha rappresentato Ivan Karamazov, grazie a Sandro Bolchi (e alla RAI di una volta) prima, e grazie al teatro adesso, quello è Umberto Orsini.

Conclusione del sillogismo ipotetico: Umberto Orsini uguale Ivan, uguale Dostoevskij. Conclusione assurda ma vera. Assurda perché Dostoevskij è l’autore e Orsini l’attore. Vera, invece, perché l’attore si cala a tal punto nel personaggio, con queste Memorie di Ivan Karamazov, che un alter ego, un sosia incessante trasforma Ivan nell’attore Orsini che si guarda allo specchio e parla al personaggio, che lo guarda dall’altra parte dello specchio, lo incita, lo provoca, lo condiziona, diventa il suo autore, mentre lui gli parla. Un altro, un nuovo Ivan. In che senso? Algido, inamidato, i tratti del volto netti, lisci, la pelle e i capelli bianchissimi, misuratissimo, sprezzante, a volte sarcastico, nello sceneggiato televisivo emergeva più il lato euclideo di Ivan di quello folle.

Qui, al Teatro dell’Elfo, il viso prosciugato dal tempo, segnato dalle rughe, una recitazione magnetica, visionaria, vibrante, a volte quasi gridata, stridula o strascicata, emerge l’Ivan del sottosuolo, degli sdoppiamenti e delle invocazioni, delle invettive e delle preghiere, delle allucinazioni e del delirio.

Scartafacci, vecchi libroni polverosi, sparsi qua e là. Una sedia di legno. A destra, la ruota di un carro appoggiata a un mucchio di logora mobilia, una falce (tipo quella della Morte ne Il settimo sigillo di Bergman), una vecchia slitta di legno. In mezzo l’alto scranno del giudice semi-diroccato. A sinistra un boccaporto da cui escono fumacchi infernali. Dalle quinte spirano folate intermittenti di vento e di neve, grida, risate. In che spazio scenico ci troviamo?  Un tribunale sì, ma un tribunale vuoto e in rovina. È quello che resta nella memoria? Il tribunale di una mente forsennata e/o la mente di un tribunale esausto?

A un certo punto compare anche uno strano marchingegno pieno di altoparlanti sbilenchi, da cui promana l’antica voce di Ivan/Orsini junior che si sovrappone a quella nuova di Orsini senior. L’aggeggio si ritira tra fumi di un cortocircuito procurato dalla reazione rabbiosa di Ivan/Orsini senior.

Siamo in quel tribunale dove, nel romanzo, il fratello maggiore, Dimitri, è stato condannato per parricidio e dove giunti quasi alla fine de I Fratelli Karamazov, incontriamo per l’ultima volta un Ivan sconvolto, giudicato da tutti, sia il pubblico sia i testimoni sia i giudici, impazzito, poiché invano si autoaccusa di parricidio, parlando di complotti e di un testimone con la coda, senza essere creduto da nessuno?

È lo stesso tribunale? È trascorso un secolo e mezzo!

Possiamo rispondere di sì, però, in virtù di una verità paradossale, metafisica e fisica insieme, espressa, all’inizio, da Ivan stesso: «La vita degli uomini e delle cose comincia dalla loro scomparsa».

Il testo della pièce comincia e finisce con la parabola evangelica del chicco di grano: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. È una parabola che si collega alla condizione incompleta e incompiuta di Ivan che viene abbandonato dal suo autore, a metà strada tra gli opposti (la vita e la morte, l’amore e l’odio, la follia e la ragione). A differenza de I sei personaggi di Pirandello, Ivan non cerca, però, un autore quanto una morte, quella morte feconda a cui allude la parabola evangelica. E che cosa è quella morte se non il teatro stesso, la sua rappresentazione?

Il tribunale, questo tribunale di questo palcoscenico, certo, è un luogo spettrale, cadente ma è qui, in questo tribunale/palcoscenico che si verifica il rito di passaggio, il giudizio di Dio senza un dio, l’espiazione e il riscatto dal nulla, la confessione senza confessore. Ci siamo noi, spettatori, ad assistere e certificare che abbiamo ascoltato in silenzio, abbagliati, stregati, spronati dalla potenza evocativa dei gesti e della voce di Umberto Orsini.

Definito Faust russo (Lunačarskij), uomo senza fede, a caccia di una fede, Ivan è l’Amleto e l’Edipo dei nostri giorni. Come scriveva Freud in Dostoevskij e il parricidio, le tre opere più importanti delle letteratura di tutti i tempi: Edipo re, Amleto, I fratelli Karamazov, trattano dello stesso argomento, il parricidio. L’Edipo del mito non ha intenzioni omicide nei confronti del padre, lo uccide involontariamente. Nella tragedia di Sofocle, travolto dalla scoperta della verità e divorato dalla colpa, si acceca. Amleto si finge pazzo e sbugiarda l’assassino con una messa in scena teatrale e solo dopo essere stato ucciso, un attimo prima di morire, uccide Claudio.

“I fratelli Karamazov”, sceneggiato Rai 1969

Ivan vorrebbe uccidere il padre ma non lo uccide di persona. Non impedisce che altri (Smerdjakov, il fratellastro) lo uccida. Davanti al giudice, nel romanzo di Dostoevskij, prima di autoaccusarsi, dichiara: «chi non desidera che suo padre muoia?». La notte prima di andare in tribunale, Ivan incontra un alter ego diabolico, un’allucinazione che lo invita ad impiccarsi e lo accusa di essere un pavido. Gli punta il dito contro, lo dipinge come un fantoccio nelle sue mani e non quel grande intellettuale che ha pensato e vorrebbe mettere per iscritto Il Grande Inquisitore.

La tessitura testuale della pièce di Orsini-Micheletti è un mosaico di pagine del romanzo di Dostoevskij. C’è Il dialogo con il fratello Alësa, in presenza del fratellastro Smerdjakov, dove, stuzzicato dalle domande del padre, fornisce risposte secche, uguali e contrarie, a quelle del fratello minore: Dio non esiste, non esiste l’immortalità. Esiste solo il diavolo. Ci sono le pagine in cui dichiara che se Dio non esiste, nulla è immorale e tutto è permesso, che poi sarà ciò che, accusandolo di essere il mandante del delitto, gli rinfaccerà il fratellastro quando gli confesserà di essere stato lui, Smerdjakov, (poco prima di impiccarsi), ad aver ucciso il padre. C’è anche l’Ivan che ama la vita, la natura, la bellezza: le foglioline vischiose che spuntano a primavera, il cielo azzurro, l’aspetto fisico, il comportamento, le parole delle persone, almeno, di certe persone.

Ma soprattutto c’è quel romanzo nel romanzo che è Il Grande Inquisitore che Ivan/Orsini recita, in larga parte, davanti a un grande specchio, cioè davanti a se stesso.

Che cos’è Il Grande Inquisitore nel romanzo di Dostoevskij?

È una specie di dramma sacro di cui Ivan presenta l’impianto e la trama al fratello minore, Alësa. Siamo in Spagna, nel ‘500, negli anni peggiori dell’Inquisizione. Imperversano gli autodafé. Cristo scende tra gli uomini nelle strade della città il giorno dopo un rogo sontuoso di eretici alla presenza del popolo, del re, della corte e del Grande Inquisitore.

Cristo non apre bocca, cerca di non dare nell’occhio, ma tutti lo riconoscono. La gente si affolla intorno a lui, bacia la terra su cui cammina, tutti cantano osanna, gridano: è Lui! Lui sorride, ridona la vista a un cieco, resuscita, sollecitato dalla madre, una bambina morta di sette anni dalla sua piccola bara, nel corso di un funerale davanti alla cattedrale di Siviglia. La gente è sgomenta, grida, singhiozza. Il novantenne cardinale Inquisitore passa di lì. Ha visto tutto. È accigliato. Punta il dito contro Cristo. Le guardie lo arrestano. Lo portano via e lo sbattono in galera. Qui, di notte, lo raggiunge l’Inquisitore. Gli assicura la condanna al rogo per il giorno dopo e gli tiene un lungo sermone in cui lo accusa di aver portato il caos tra il popolo, suscitando inutili illusioni, la più importante e pericolosa delle quali è la libertà. La libertà è fonte di inquietudine e di infelicità. Lui, la Chiesa, l’ordine costituito, hanno l’incarico di ridonare pace e serenità al popolo, estirpando questa illusione. Infine l’Inquisitore tace. Aspetta una risposta. Teme una requisitoria. Cristo non ha detto e non dice una parola. Si avvicina al vecchio e lo bacia sulla bocca. Il vecchio è disgustato, ha un fremito di orrore. Apre la porta e gli ingiunge di andarsene e di non tornare mai più. Cristo si allontana, solo soletto, per le vie buie della città.

Alësa, terminato il racconto del fratello, bacia Ivan sulla bocca (nel romanzo). Ivan sorride e accusa, sardonicamente, il fratello di plagio.

Alësa è Cristo e Ivan il Grande Inquisitore? Certamente sì, ma nel gioco infinito degli sdoppiamenti, innescato da questo spettacolo, non si può escludere a priori il contrario.

Le memorie di Ivan Karamazov

con Umberto Orsini.
Regia: Luca Micheletti

Al Teatro Elfo Puccini di Milano dal 14 al 19 maggio 2024

 

Author: Rinaldo Caddeo

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