Perdita, mancanza, nostalgia, ma anche desiderio di riscatto e istanze di libertà. L’interpretazione barocca dell’ultimo Don Carlo alla Scala

Perdita, mancanza, nostalgia, ma anche desiderio di riscatto e istanze di libertà. L’interpretazione barocca dell’ultimo Don Carlo alla Scala

@Rinaldo Caddeo, 11 novembre 2023

Don Carlo, nella storia, è l’Infante, l’erede al trono del Regno dove non tramonta mai il sole, che va dai Paesi Bassi, dall’Italia e dalla Spagna, alle Americhe. Nipote di Carlo V, figlio di Filippo II, Don Carlo muore a 23 anni, nel 1568, a causa di un complesso di patologie sia fisiche sia psichiche.

Nel melodramma di Giuseppe Verdi, tratto dall’omonima tragedia di Friedrich Schiller, diventa quello che nella storia non è stato: un eroe romantico.

Per due motivi: 1) l’amore contraccambiato ma impossibile di Elisabetta di Valois, figlia del re di Francia Enrico II, moglie di Filippo II.

2) L’amore per la libertà e la lotta alla tirannide che lo porterà, nel corso di uno scenografico autodafè, a sguainare la spada contro il padre, Filippo II. Questo gesto che rappresenta uno dei climax più vistosi dell’opera verdiana, mette in scena, qualche decennio prima di Freud, il complesso di Edipo. In questo caso si tratta del figlio primogenito maschio che sfida il padre, che è l’uomo più potente del mondo. Lo fa in nome della libertà del popolo fiammingo che il padre/padrone/tiranno conculca. Elisabetta, a differenza di Giocasta per Edipo, non è sua madre ma è (amata) matrigna. Prima era stata promessa a Carlo e poi gli era stata tolta per darla al padre, in nome della ragion di Stato. Tanto è vero che Elisabetta, che ama Carlo, accetta di sposare Filippo per salvare la pace tra Spagna e Francia. Almeno così lei dice nel primo Don Carlo di Giuseppe Verdi.

Opera complessa sia per la genesi sia per il numero di personaggi e di vicende rappresentate o evocate, ci sono tre versioni principali del Don Carlo.

La prima, Grand Opéra in cinque atti, libretto in francese di Joseph Méry e Camille du Locle. Prima rappresentazione: Parigi, Opéra, 11 marzo 1867. La seconda, Opera in quattro atti, su libretto tradotto dal francese in italiano da Achille de Lauzières con la revisione di Angelo Zanardini. Prima rappresentazione: Milano, La Scala, 10 gennaio 1884.  La terza, sempre in italiano, più lunga della seconda avendo recuperato il primo atto. Ed è la seconda, più compatta, più concisa, quella andata in scena a Milano il 7 dicembre 2023.

A mio parere, è un’opera meno dispersiva di altre di Verdi. C’è un legante paradossale sia tematico sia musicale che dividendo, lacerando, interrompendo, con echi, bagliori, riverberi, anche con pause di silenzio, tiene insieme, come argine di un flusso sotterraneo che convoglia cori, recitativi, arie, concertati, duetti, terzetti, quartetti. È il tema della perdita.  Perdita che si traduce in un senso profondo e straniante di manque, di mancanza, che secerne nostalgia. Perdita, inoltre, che innesca o esaspera il conflitto.

Il conflitto è il motore immobile di ogni melodramma. Nel Don Carlo però si tratta di una conflittualità multipla che si gioca su molti piani: conflitto tra padre e figlio, tra moglie e marito, tra trono e altare, tra popolo e re, tra libertà e sottomissione.

C’è un clima di sospensione che lega insieme la notte e il giorno, il sonno e la veglia, gli oppressi e gli oppressori, la morte e la vita. Non mancano intrighi, suppliche, minacce. In mezzo alla nebbia dei sospetti, delle invidie, delle rinunce, delle reticenze, covano e qualche volta esplodono i sentimenti, gli stati d’animo: l’amore, l’odio, la gelosia, l’amicizia. Ma è la manque, che genera solitudine, nostalgia, insonnia, disperazione, derivanti da questa perdita che scava l’anima o se preferiamo la psiche, a volte la divora, sia di Don Carlo («Io l’ho perduta! Oh potenza suprema» Atto I, scena I), sia di Elisabetta («spariro i dì che lieto era il mio cor» Atto I, inizio scena II), sia di Filippo («Ella giammai m’amò!… No, quel cor chiuso è a me,/ Amor per me non ha […] Ove son?… Quei doppier/ Presso a finir… L’aurora imbianca il mio veron!/ Già spunta il dì! Passar veggo i miei giorni lenti/ Il sonno oh Dio! Sparì da’ miei occhi languenti!/ Dormirò sol nel manto mio regal/ Quan­­do la mia giornata è giunta a sera;» Atto III scena I).

La nostalgia, certamente, non è uno stato d’animo nuovo nel melodramma in generale e nei melodrammi di Verdi in particolare, basti solo pensare al Va’, pensiero nel Nabucco. Nel Don Carlo è un fattore individuale diffuso, però, distribuito tra un numero importante di personaggi, spesso legato a un dolore immedicabile, senza prospettiva, che attende o invoca la morte ovvero l’aldilà come unica liberazione. Ma il Don Carlo non è un’opera monocorde. Nel primo Atto la Canzone del velo, con un ritmo gitano di seguidilla, rappresenta una rara parantesi di sensualità e di allegria collettiva, sia pur venata di inquietudine, data l’estraneazione di Elisabetta. Spes contra spem, in questo paesaggio della disperazione, contro tutte le circostanze che sembrano escludere ogni speranza, c’è una speranza disperata, innescata dalla perdita stessa, che produce solidarietà e rinfocola l’amore e l’amicizia.

È l’amicizia tra il Marchese di Posa (Rodrigo) e l’Infante (Carlo) che attraversa tutta l’opera. Nel I Atto Rodrigo propone a Don Carlo una sorta di sublimazione del colpevole amor: partire per la Fiandra e imparare a diventare re di una gente oppressa. Carlo accoglie e condivide con fraterno, ingenuo entusiasmo l’impresa proposta da Rodrigo. Entusiasmo che si traduce nell’inebriante duetto all’unisono: «Dio, che nell’alma infondere/ Amor volesti e speme,/ Desio nel core accendere/ Tu dei di libertà.»). Nella scena IV dell’Atto II, Carlo e Rodrigo si gettano nelle braccia l’uno dell’altro a conferma del desiderio di una libertà che intende farsi progetto di liberazione collettiva del popolo fiammingo dalla tirannide spagnola.

È la solidarietà impotente, ma calorosa, espressa da Elisabetta nei riguardi della dama d’onore brutalmente licenziata dal re («Non pianger, mia compagna,/ Lenisci il tuo dolor./ Bandita sei di Spagna,/ Ma non da questo cor.» Atto I, scena IV).

Lo stesso gesto di Don Carlo che nell’Atto II snuda la spada, oltre che un gesto edipico di sfida nei riguardi del padre, intende essere e si manifesta come atto di solidarietà attiva, sia pure velleitaria, nei riguardi degli oppressi: «Io qui lo giuro al ciel!/ Sarò tuo salvator, popolo fiammingo, io sol!».  Nell’ultimo Atto ritroviamo, come una sorta di leitmotiv, la stessa spes contra spem, trafitta dall’attesa della morte, nell’Addio di Elisabetta e nel duetto amoroso con Don Carlo: «ma lassù ci vedremo in un mondo migliore». Questi motivi li ritroviamo espressi tutti sia nella concertazione matematica sia nella direzione, essenziale e attenta alle sfumature, alle pause, di Chailly.

Il cast di alto livello non delude le aspettative. La voce di Anna Netrebko, fosca nelle note basse, luminosa in quelle alte, la sua contenuta gestualità, esprimono la condizione di disperazione/speranza tanto trattenuta quanto intensa di Elisabetta.  La limpida penetrante voce di Elīna Garanča dà un carattere più avvincente che intrigante alla Principessa d’Eboli. Impetuosi e misurati sia nella voce sia nella recitazione, Francesco Meli (Don Carlo), Luca Salsi (Rodrigo), Michele Pertusi (Filippo II), Jongmin Park (Il Grande Inquisitore).

La regia ancor più tradizionale che filologica di Pasqual ci trasporta nell’epoca della Spagna tra ‘500 e 600, nelle sue cattedrali e nella corte del sovrano. Quale tradizione? Quale filologia, oltre al libretto e allo spartito?

La parte seconda della prima scena mi è sembrata subito l’animazione di Las meninas di Velázquez per i personaggi che vi si muovono, per le fogge e i colori degli abiti. In altre scene è evidente il richiamo dei retablos di Zurbarán ma anche delle atmosfere di Rembrandt per i fondali bui con una illuminazione obliqua, raccolta sui personaggi, circondati da una densa e ambigua tenebrosità. È una messa in scena che tende a mettere sotto i riflettori la condizione interiore dei personaggi. Nei drammi del re e della regina, del figlio e del padre, delle loro relazioni malate, esalta l’oscurità verso cui inclinano o in cui sprofondano.

La scelta di costumi lussuosi, di gorgiere, pizzi, tessuti damascati, non è tanto messa a servizio di un gusto antiquario che vuole riportarci alle croci e alle delizie di un’epoca, quanto, con il nero e le sue sfumature e con l’oro del barocco o con il porpora delle vesti ecclesiastiche, tende a sottolineare l’oppressione e la perdita, il vuoto che accompagna e allarga intorno a sé tanto sfoggio di ricchezza e potere.

La scenografia s’impernia su di una grande torre di lastre di alabastro che ruota su di sé e a seconda delle situazioni emana luminescenze violacee, grigie, rossastre, madreperlacei, sinistri bagliori.  Ripide scale, grate, inferriate, ritagliano lo spazio scenico, circondano i personaggi, li rinserrano nella loro condizione, li segregano nei loro sentimenti, sia nelle scene intime sia nelle scene di massa. A don Carlo e a Elisabetta, al loro amore, non resta che la fede: «E là noi troverem nel grembo del Signor/ Il sospirato ben che fugge in terra ognor» (Elisabetta, Atto IV, scena II).

E l’opera, iniziata con il coro che evoca Carlo V («Carlo, il sommo imperatore,/ Non è più che muta polve»), termina con Carlo V che preleva il nipote (Don Carlo) e se lo porta nella tomba (Carlo V trascina nel chiostro Don Carlo smarrito. Cala la tela lentamente).

DON CARLO

di Giuseppe Verdi

libretto di Joseph Méry e Camille du Locle

Direttore: Riccardo Chailly
Regia: Lluís Pasqual
Scene: Daniel Bianco
Costumi: Franca Squarciapino
Direttore del Coro: Alberto Malazzi

CAST
Filippo II: Michele Pertusi
Don Carlo: Francesco Meli
Rodrigo: Luca Salsi
Il Grande Inquisitore: Jongmin Park
Un Frate: Jongmin Park
Il Frate: Huanhong Li (Carlo V)
Elisabetta di Valois: Anna Netrebko
La Principessa d’Eboli: Elīna Garanča
Tebaldo: Elisa Verzier
Il conte di Lerma / Un araldo reale: Jinxu Xiahou
Una voce dal cielo: Rosalia Cid