Il Don Gesualdo di Comiso nel ricordo di un breve incontro
@ Anna Di Mauro (25-11-2020)
Catania. L’aula universitaria è gremita di ragazzi, sparsi fittamente sugli scranni come margheritine su un prato primaverile. Chiacchierano bisbigliando a bassa voce. Ridacchiano giocherellando con le penne, i ragazzi. Sbirciano negli specchietti, distratte da deliziose incombenze muliebri, le fanciulle in fiore. I docenti per lo più tesi ed emozionati guardano verso la porta. Entra come un vento primaverile un uomo in grigio, occhiali e calvizie in bella mostra, sobrio e sorridente.
Tutti scattano in piedi e si abbandonano a un lungo applauso. Sento gli occhi inumidirsi. Ho davanti a me l’uomo che mi ha irretito con la rivelazione di una scrittura straordinaria, spalancando una porta che pensavo chiusa dopo “La montagna incantata” di Thomas Mann che Gesualdo Bufalino ebbe come illustre precedente. Una scoperta impensabile, sotto l’ombrellone, in uno di quei pomeriggi estivi sulla spiaggia, gravati dall’insostenibile afa mediterranea miracolosamente mitigata dalla brezza marina. Il titolo dell’opera, evocativo di echi manzoniani, mi balla davanti agli occhi come un cobra danzante. “Diceria dell’untore” mi stuzzica l’anima, mi costringe a una lettura lenta e attenta. Una prosa/poesia densa di metafore, arguzie, preziosismi, imbelletta la morte e le memorie di un sopravvissuto. Il sanatorio spalanca inverecondo i suoi anfratti e le sue splendide miserie svelate da parole stravolte dalla loro stessa bellezza. Un cammino iniziatico. Una mensa per eletti commensali. Un tardivo dono ai posteri.
Frastornata ripongo il libro e taccio in un bisogno di silenzio assoluto. Assaporo la catarsi di un destino tremendo a cui l’autore sfuggì a stento, gravato dal senso di colpa di tutti i sopravvissuti. Affronto il disagio, che incide la carne, del suo stupefacente canto, panoplia della vita e della morte. Sopporto la profondità dei suoi dettagli affrontati con piglio sardonico. Ho tra le mani un capolavoro. Da quel giorno Gesualdo Bufalino mi ha accerchiato con le sue opere, conducendomi su splendidi, impervi sentieri. Ora lo rivedo davanti a me, attento e gentile, rivolgersi con calore esperito ai giovani universitari e all’uditorio silente. L’accento asciutto e corposo della sua voce indossa l’eleganza di una lingua che padroneggia senza ostentazione, come una seconda pelle. Un ragazzo in prima fila alza la mano.
“Maestro, quali sono le ragioni della scrittura?”
“Perché scriviamo? Qualcuno ha detto per condividere il fardello dell’esistenza. Io posso dirti perché scrivo io. Si scrive per guarire se stessi, per lavarsi il cuore, per dialogare con se stessi. Ho già confessato in un’intervista che credo di essere un collezionista di ricordi, un custode di memorie, un seduttore di spettri. Si scrive per non dimenticare. Scrivendo purifichiamo il ricordo. Io vivo di memorie. Un uomo senza memoria non esiste. Le ragioni della scrittura a mio parere stanno nel desiderio inconsapevole di onorare la memoria, ma anche nell’istintiva necessità di coltivare la speranza di un’eternità che ci è negata. Scrivere è un atto impuro che colloca l’uomo tra il divino e l’umano. L’ambiguità della nostra esistenza sta al confine tra questi due concetti. In quel punto si colloca la scrittura.”
Queste due parole, memoria e speranza hanno illuminato il percorso della mia esistenza letteraria e umana. La loro forza mi arriva ancora da quella breve, intensa lectio magistralis. Non dimentico il suo sguardo intenso, gli accenti onesti e densi di significato di uno degli scrittori più schivi, interessanti e raffinati del ‘900, in un’aula gremita, in quel lontano giorno epifanico.