L’algida ascesa (e l’arida caduta) del costruttore Solness, al Piccolo Teatro Grassi di Milano

L’algida ascesa (e l’arida caduta) del costruttore Solness, al Piccolo Teatro Grassi di Milano

di Lisa Tropea 03-05-2019

MILANO – Uno spettacolo materico che si apre con l’ingombrante presenza in scena di pareti grigie, imponenti e incombenti ma mobili, che svettano fino a non vederne la fine e danno subito l’idea dell’ascesa e dell’inevitabile caduta. Mentre il sottofondo sonoro di colpi che sembrano piccozze sulla pietra si muta in freddo ticchettio sulla macchina da scrivere, le pareti si allargano, si spostano e vanno a rappresentare quegli edifici che hanno fatto il successo del costruttore Solness, protagonista assoluto interpretato da Umberto Orsini, ma anche la sua prigione, la sua personalissima costruzione di una facciata che non può essere scalfita. Ma Solness, uomo che esercita un potere vessatorio sulla segretaria, sull’ex socio, sul di lui figlio nonché suo giovane collaboratore, conosce benissimo la forza distruttiva delle minuscole crepe che scalfiscono gli edifici: proprio trovandone una sulla canna fumaria della casa di famigli della moglie Aline, all’inizio del loro matrimonio, inizia a pensare alla possibilità che la casa prenda fuoco. Cosa che puntualmente si verifica, anche se la canna fumaria non avrà nell’incendio alcun ruolo, ma il sospetto che quando pensi a una cosa poi essa possa anche verificarsi depone nella mente di Solness il seme del senso di colpa, innaffiato dal fatto che proprio con quel terribile incendio inizia la brillante carriera del costruttore, che sul terreno della casa andata in fumo ha ricostruito le sue “case per tutti”, marchio distintivo dell’azienda edile di cui è fondatore.

Per il grande costruttore di successo le crepe sono due: una è rappresentata da Ragnar, il figlio del suo socio, un giovane di talento cui egli cerca di tarpare le ali per restare egemone indiscusso nel suo campo ma delle cui idee geniali ha bisogno come una sanguisuga, e che quindi costringe a restare con lui rifiutandosi di attribuire valore ai suoi disegni e tentando di rubargli la fidanzata, contabile in azienda, per influenzarne le decisioni legate alla vita privata. La seconda s’incarna nell’irruzione della giovane Hilde nella sua casa: la ragazza sostiene di aver atteso dieci anni che lui tornasse a prenderla per farne una principessa, così come le aveva promesso concupiscendola 12enne dopo l’inaugurazione di un altissimo campanile. Tutto questo prorompere di energia vitale e passione nella vita di un uomo che semmai ha ambizione sfrenata ma non ardore, che fa calcoli di interessi ma non piani vitali, scombussola le sue fredde certezze.

La moglie Aline, l’unico personaggio per il quale si riesce a nutrire una qualche simpatia, per via della sua quasi involontaria ironia nell’intuire i tradimenti del marito e anche per quella quasi autoinflitta malattia che la fa muovere come un fantasma tra le stanze spoglie e claustrofobiche che abita, è interpretata dall’efficacissima Renata Palminiello, rosa anch’essa dai sensi di colpa nei confronti dei due figli in fasce che avrebbe fatto ammalare e morire dopo il famoso incendio della casa.

Lucia Lavia, invece, rappresenta con cura e mestiere l’appassionata Hilde, innamorata di un Solness senza paure e pieno di certezze che esiste solo nel passato o forse addirittura solo nella sua fantasia di ragazzina, un Solness che ora sprona a tornare se stesso, a uscire da quel circolo vizioso in cui lo imprigiona l’invidia della gioventù. Cercando di fare spazio dentro se stesso per un nuovo amore, un cambiamento, una speranza, Solness combatte la propria vertigine e finisce per sfidarla salendo su una delle sue costruzioni, ma senza emozionare. Una scelta difficile, quella di restare nel registro intellettuale che il testo di Ibsen d’altronde sottende, senza cedere a nessuna empatia emotiva nell’interpretazione né nella regia, scarna e pietrificata come le pareti di scena. I canti sacri che accompagnano la sua ascesa ci fanno pensare a un momento di avvicinamento a Dio, lo stesso Dio da cui, dopo la morte dei figli, il costruttore dice di aver distolto lo sguardo, decidendo nel contempo di non costruire mai più un edificio sacro; ma questa ricerca di luce e di pienezza non finisce bene: forse la mente fredda, calcolatrice ma ormai anche dubbiosa sulla bontà delle proprie scelte di Solness non può contenere tanto nitore e la sua ascesa sembra preludio a una ben più tragica caduta. Applausi alla bravura degli attori e all’austerità della regia da parte del pubblico, senza però eccessivo trasporto.

Il costruttore Solness

da Henrik Ibsen

uno spettacolo di Alessandro Serra

con Umberto Orsini nel ruolo di Solness

e Lucia Lavia, Hilde; Renata Palminiello, Aline; Pietro Micci, Dottor Herdal; Chiara Degani, Kaja; Salvo Drago, Ragnar

e con Flavio Bonacci nel ruolo di Knut Brovik

Produzione Compagnia Orsini e Teatro Stabile dell’Umbria