The Unhappy Prince
Munito dei conforti religiosi, tra sofferenze fisiche e morali, all’età di 46 anni, rendeva l’anima a Dio Oscar Wilde. Era il 30 Novembre del 1900. Il suo genio letterario fu brutalmente distrutto dall’ottusa omofobia di un’Inghilterra fin de siècle che si accanì su questo scomodo, irriverente personaggio, lacerando la sua vita e la sua arte irrimediabilmente.
“The Happy Prince” il film di Rupert Everett, prima regia dell’ex bello che lo ha intensamente diretto e interpretato in un sincero omaggio a questo straordinario esponente del dandismo vittoriano viene sorretto e accompagnato fino all’epilogo da un delicato accostamento della sua vita alla struggente favola “Il Principe Felice”.
L’opera spalanca proditoriamente le porte di quell’inferno che Wilde dovette attraversare quando, prima imprigionato e poi uscito di prigione dopo due anni di lavori forzati, a Parigi, tra bassifondi e locandacce, minato nel corpo e nell’anima, cercava di riprendersi sotto mentite spoglie la vita che gli avevano sottratto. Inutilmente. La crudeltà degli uomini, ben più feroce di quella delle belve, perché inutile, e il destino avverso si abbatteranno sul suo cammino incerto, con colpi terribili, dalle irrisioni agli insulti, alle persecuzioni, fino alla morte della moglie Costanza, devastandolo e riducendo il suo elegante corpo a una figura trasandata, sporca, appesantita, senza speranza e senza futuro.
Gli sono compagni fino alla fine Robbie Ross con il suo amore devoto ed incondizionato, il suo caro amico Reggie Turner, le sue Erinni: l’indigenza, le sue inclinazioni sessuali insopprimibili, la disperazione, il senso di colpa, il rimorso, la malattia, il ricordo delle passioni che lo hanno trascinato nel dolore, le ferite inferte da una società che lo adorava per poi gettarlo nel fango e coprirlo della saliva del disprezzo. Una parabola discendente che ha l’andamento di una tragedia annunciata, dove la redenzione si imbelletta sul letto di morte. Colpevole di avere amato scandalosamente sciorinando una libertà impossibile, innescato un processo di autodistruzione che lo catturerà in un vortice inarrestabile, Wilde qui è rivelato nel suo lato oscuro, senza compiacimenti e piaggerie, con una spietata, compiaciuta, cruda chiarezza che non ci risparmia le brutture e le miserie di relazioni mercenarie, di manifestazioni aberranti del suo corpo infetto, della decadenza divorante che finirà per gettarlo giù dal piedistallo, come la statua del Principe, spogliata di ogni bellezza dalla rondine, per amore.
Il pregio del film, non epocale, fatte salve l’accurata ricostruzione degli ambienti e una fotografia indagatrice, sta in questo scavare nell’abisso con pervicacia, per mostrare Wilde nella sua fragile umanità, senza i consueti fronzoli e infiocchettamenti, senza falsi pietismi, senza vittimismi, cercando, non sempre trovandola, la giusta misura tra denuncia e responsabilità, grattando inesorabilmente la patina scintillante del brillante, generoso e gentile autore di deliziose commedie, di cui lo stesso Everett fu interprete nelle trasposizioni cinematografiche, dove l’arguzia scoppiettante trascina in un gioco irridente la società inglese, ipocrita e perbenista, che non perdona. Sotto la lamina d’oro il Principe Oscar rivela la sua scabra spiritualità, esaltata dalla sofferenza del carcere, dove, in attesa del processo, il reo di sodomia, pietra dello scandalo, nell’orrore della prigionia scriverà il De profundis, una lunga lettera al suo amato e sprezzante compagno Alfred Douglas, causa della sua rovina. Wilde vi svelerà gli inediti percorsi di un’anima che nella sofferenza trova la forza dell’amore e del perdono, sulla scia del pentimento alla luce della fede, senza osare percorrerla fino in fondo.
Così “The Happy Prince”, lucida e attenta, ma al tempo stesso romantica ricostruzione dell’ultima parte della sua vita, è un De profundis dipinto in un devastante affresco, curato nella forma e nella sostanza, adagiato su una sceneggiatura condita da ineludibili flashbacks, dominato dalla deformazione dei primi piani del convincente Rupert Everett, adeguatamente affiancato da un cast in ruolo. Tra guizzi di retorica che in qualche momento trasudano dal tessuto narrativo si apre l’oscurità degli interni, ambrata e affidata alle candele, spietatamente contrastante con lo splendore degli esterni, dove le magnifiche vedute, oblige non solo estetizzante, fanno da contrappunto metaforico al buio dell’anima.
Una ricostruzione dove storia, estetica ed etica stanno sull’asse d’equilibrio di prospettive inedite del dolore su cui la macchina da presa indugia sgradevolmente senza risparmiarcene disgustosi dettagli. L’uomo, dirà Wilde in una scena del film, è affascinato dalla sofferenza. Ne prendiamo atto dopo avere assistito al noto calvario del grande scrittore, leggendo nei titoli di coda la sua riabilitazione tardiva nel 2017, insieme a quella degli innumerevoli casi affini. La riflessione cinematografica sull’infausto percorso dell’ultimo Wilde, il Principe infelice, insieme agli altri Infelici di cui è, ovviamente, costellata la storia dell’omofobia, tema ultimamente alquanto frequentato dalla settima arte in chiave didascalica, certamente tenta un nobile riscatto da una mentalità duratura, ma corre il rischio di allinearsi con le mode che cavalcano sirene, anche se travestite da raffinati costumi d’epoca.
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THE HAPPY PRINCE
Belgio-Regno Unito 2 018
Sceneggiatura di Rupert Everett
Regia di Rupert Everett
Con
Rupert Everett, Colin Firth, Colin Morgan, Emily Watson, Edwin Thomas,
Fotografia John Conroy
Montaggio Nicolas Gaster
Musiche Gabriel Yar ed
Casa di produzione Maze Pictures, Entre Chien et Loup, Palomar