Sauro BORELLI- Una donna in rivolta (“Lady Macbeth, un film di William Oldroyd)

 

Il mestiere del critico

 

 

UNA DONNA IN RIVOLTA

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“Lady Machbeth”, un film di William Oldroyd

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In questo Lady Machbeth, opera prima del teatrante inglese Willliam Oldroyd, per dirlo scespirianamente, “ci sono più cose di quante possiamo immaginare tra la terra e il cielo”. Originariamente, lo spietato, crudele Machbeth (e della sua anche più bieca consorte) evocato appunto dal bardo di Stratford on Avon. E poi, a distanza di secoli, l’ottocentesco romanzo (1865) di Nikolai Leskov intitolato Lady Machbeth nel distretto di Mtsensk (nel 1934, tramutato in melodramma da Sciostakovic e subito proibito da Stalin mosso da moralistico scrupolo popolare). C’è da aggiungere ancora una Siberian Lady Machbeth che il prestigioso cineasta polacco Andrzej Wajda architettò dislocando il racconto di Leskov in uno scorcio storico dell’epoca zarista tra la Serbia e la Russia.

Ad essere puntigliosi, ci sono poi da ricordare le poco meno che venti versioni del testo scespiriano realizzate in parte ai tempi del “muto” e in parte in anni più ravvicinati. Tra quei molti film da menzionare di rigore ci sono tanto il wellesiano Machbeth (1948), quanto l’omonimo lungometraggio di Roman Polanski (1971). Insomma, una profluvie di pellicole che, bene o male, s’immergono cruentemente nella materia tragica, spietata della saga nata nella Scozia cupa, sanguinosa di un torbido passato. Tutto ciò per chiarire subito l’antefatto dal quale l’esordiente Oldroyd (e l’attenta sceneggiatrice Alice Birch) si discosta per strutturare, ben altrimenti, una vicenda ferocemente classista e laida dell’Ottocento inglese col preciso intento di effigiare, per progressivi passi, la desolata storia di una apparente giovane, candida sposa, Katherine suo malgrado “svenduta” dal padre ad un brutale possidente, presto disincantata e risolutamente cinica tramutata di lì a poco in una assatanata ninfomane, legata morbosamente (a dispetto dell’originario marito) ad uno sfrontato, dispotico amante.

Esteriormente proporzionato secondo un décor e un’ambientazione tetramente foschi, mosso da un ritmo monotono e irrigidito in posture e scorci figurativi costantemente raggelati Lady Machbeth si dipana così con la caratterizzazione dei personaggi maggiori – e in ispecie la continua presenza in campo della vendicativa Katherine – in una fissità intimidatoria che, se da un lato suggestiona, dall’altro induce ad amare riflessione sull’indole ormai dissoluta della perfida Lady Machbeth determinata, costi quel che costi, a ripristinare con un adeguato risarcimento la propria oltraggiata libertà e, ancor più, con l’irriducibile volontà di rivalsa della propria subalterna situazione di donna di fronte alle reiterate angherie subite dai maschi prevaricatori. C’è in questo intrico percorso passo passo con quasi maniacale gusto entomologico la programmatica intenzione da parte dell’esordiente Oldroyd di rappresentate con un segno netto, risoluto l’antica guerra dei sessi, qui prospettata specie grazie al maturo estro di Florence Pugh (Katherine), come una impassibile, inesorabile “dimostrazione a tesi” in difesa e in gloria di una femminilità intangibile.

 

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