Sauro BORELLI- Il primo Maupassant (“Una vita”, un film di Stéphane Brizé)

 

Il mestiere del critico

 

 

IL PRIMO MAUPASSANT

“Una vita”, un film di Stéphane Brizé

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Guy de Maupassant aveva trentatré anni quando scrisse il suo primo romanzo, Una vita. Ancora, si può dire, “sotto tutela” del “maestro e donno” Gustave Flaubert e, peraltro, già toccato dal successo dei suoi racconti (Le serate di Médan, La Maison Tellier) e, in ispecie, dalla più felice di quelle novelle, Palla di sego. Nato e cresciuto in una famiglia nevrotizzata – dal padre violento e dalla madre incostante – il Nostro si dedicò presto alle prove letterarie dopo una breve carriera militare e amministrativa, fino a esordire con scritti improntati dall’allora imperante tendenza naturalistica.

Una vita, perciò, risulta l’opera centrale della pur breve carriera del narratore normanno, caratterizzato come si prospetta per le sue componenti psicologiche-sentimentali, sia per le intrinseche notazioni sociologiche di manifesto intento antiborghese e più largamente anticonformistico in assoluto. L’impianto narrativo di Una vita si dimostra così, fin dall’avvio, del tutto determinato a creare personaggi e vicende di rigorosa fisionomia comportamentale quali la candida, sprovveduta, giovane donna Jeanne e il suo improvvido marito, il visconte Julien de Lamar, in apparenza gentiluomo pacato e gentile e, in realtà, un sordido tanghero capace di tutte le bassezze.

È di qui che inizia, secondo una traccia narrativa monocorde, la desolante vita coniugale della pur rassegnata Jeanne destinata, proprio per la sua congenita remissività e dolcezza, a subire non solo i colpi di una mediocre esistenza ma ancor più a patire le conseguenze di una realtà esteriore rovinosa e mortificante. Il tutto immerso in un contesto sempre più deludente, frustrante. Tanto che l’aspetto epocale di una società aristocratica-borghese in via di degrado progressivo si riverbera persino nelle avvilenti condizioni familiari, ove alla succube Jeanne, all’inetto marito Julien e persino all’insipiente figlio Paul corrisponde un clima generale di misera pochezza umana.

Tutto ciò è perlustrato, indagato a fondo dalla scrupolosa regia di Stéphane Brizé che, sulla base della sceneggiatura di Florence Vignon (già sua complice nel precedente La legge del mercato), architetta un film dalle cadenze armonicamente classiche che, per tanti versi, richiama a volte certe sapienti atmosfere tanto del magistrale Manoel de Oliveira, quanto del sensibile Eric Rohmer. Ne esce così un’opera equilibrata, elegante che, se da un lato ripercorre la tematica tipica dell’originario romanzo di Maupassant, dall’altro reinventa con quieta serenità una versione attuale sempre e comunque coinvolgente.

In estrema sintesi, si è scritto sulla trepida Jeanne di Una vita: “Costretta a entrare nell’età adulta, senza aver davvero abbandonato il paradiso della propria infanzia… nutre una profonda fiducia nell’amore e nel genere umano… sprovvista delle difese che le permettono… di sviluppare una visione del mondo autonoma”. Condizione estrema cui soggiace, per forza, l’inerte Jeanne condannata per sempre ad una dolorosa minorità esistenziale.

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