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Anna DI MAURO- Furia fratricida (“Fenicie” di Euripide al Teatro Greco di Siracusa)

 

Da Siracusa


 


FURIA FRATRICIDA

Tragedie greche, a Siracusa

Nell’umana tragedia di  “Fenicie”  di Euripide- Di scena al Teatro Greco

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Nella magica cornice  del Teatro Greco di Siracusa, per il 53° ciclo di rappresentazioni classiche  che si svolgono dal 6 Maggio al 9 Luglio, in scena i sanguinosi conflitti familiari della sventurata discendenza di Cadmo. In alternanza con “ I sette contro Tebe” di Eschilo,  una nuova versione  delle  “Fenicie” di Euripide, con la regia dell’apprezzato Valerio Binasco.  Una rarità dopo l’unica rappresentazione del 1968. Tema unico del mito dei Labdacidi, visto da due angolazioni diverse, la guerra fratricida inonda la scena di lutti e sventure.

Su un  ortodosso impianto classico, intessuto di innovazioni liriche, ma anche inaspettatamente umoristiche, si snoda la tragica vicenda della mostruosa famiglia di Edipo, condannata ad una  fine violenta, tra assassini e suicidi, come sempre fuori scena, narrati ( insolita caratterizzazione)  da un Nunzio dagli accenti dimessi e dal chiaro accento siculo, suscitatore di inevitabili sorrisi.

L’incipit di Giocasta, regina in umile tonaca nera, dismessa e grondante sofferenza e rabbia per un perverso destino di cui si ignorano le ragioni, si avvale dell’interpretazione di Isa Danieli, che rende calda e umana una figura impopolare nel suo incesto inaccettabile, pur se inconsapevole.

Qui  l’infelice si fa madre pacificatrice, nel tentativo di sanare il dissidio dei due figli Eteocle e Polinice. Quest’ultimo è giunto in armi con l’esercito argivo, davanti alle porte di Tebe, per rivendicare il suo diritto di governare, a turno, con il fratello, che invece non intende cedergli il trono e lo ha esiliato. Conflitto di potere che insozza gli affetti e dilania il tessuto familiare e sociale. Nemico in patria, Polinice chiede inutilmente il diritto sancito. Giocasta tenta una pacificazione impossibile. Tebe è minacciata. L’indovino Tiresia, consultato da Creonte, affermerà che l’unico modo per salvare la città è  che lui sacrifichi l’amato figlio Meneceo. Creonte disperato indurrà inutilmente alla fuga il ragazzo che si suiciderà per assolvere al suo compito.

L’inevitabile conflitto armato salverà Tebe,ma  diventerà la tomba dei due fratelli che si sono dati la morte a vicenda in duello. Sui loro corpi a sua volta si darà la morte la  desolata madre.

Tremendo epilogo di un conflitto familiare, sempre perturbativo,  pur a fronte di eccidi familiari sempre più frequenti nel nostro attuale sistema sociale che non regge agli scardinamenti dei ruoli e alla difficile convivenza di uomini e donne sempre più chiusi in  fatui egoismi.  Ieri si uccideva per un trono, oggi per solitudine e abbandono o  avidità d’amore sconnessa. In realtà, ieri come oggi, la fragilità umana è la  fonte di questa  insana spinta distruttrice.  In scena, adagiato  al centro di una distesa  rosso- sangue, un bianco tronco dai rami disseccati  domina incontrastato l’azione. Metafora di un ceppo familiare in rovina, dal  sangue infetto.

Accompagnata da  un pianoforte. una cantante- corifea a latere,  dona la parola alle Fenicie,  coro  muto di mascherate profughe dagli umili costumi, destinate al santuario di Apollo a Delfi, giunte alla possente  Tebe, teatro dei grandi delitti, a cui assisteranno  ( altra innovazione) immobili  in  un silenzio intriso di pietà.  Con loro, trasportata in un trono, una vergine con gli occhiali, avrà un’unica parola , “ a Colono” nella parte conclusiva della tragedia, all’orecchio di Antigone che chiedeva (dopo gli eccidi della madre-sorella  Giocasta e dei fratelli ), dove avrebbe potuto portare il padre Edipo  esule e cieco.

Come i costumi, anche il linguaggio è attualizzato dai “ Chi se ne frega “ di Creonte e dai “Buonasera” e “ Mi dispiace” del Nunzio. Costumi coevi e divise militari completano il quadro di una mise en scene variegata e resa potente da una  recitazione incisiva e scevra di retorica.

La grandiosità dei temi classici qui si stempera nei toni dimessi e nelle fughe in altri codici che pur  contrastanti secondo gli orientamenti della drammaturgia contemporanea, mantengono inalterata la suggestione di un tempo arcaico, sottolineato dalla solennità dei  colpi sonori del gong.

Colpi al cuore di chi vive un dramma ineludibile. Qui il dolore si è fatto silenzio. Il silenzio  di una coralità muta di fronte  agli orrori a cui assiste impotente. Un  silenzio che, fattosi coscienza, tace nella sua innocenza primigenia. Le Fenicie infatti provengono dalla terra d’origine di Cadmo, fondatore di Tebe, a seguito dell’uccisione del drago, attiratosi le ire di Ares che maledisse così la sua stirpe.

La parola di Euripide,  in  questa accurata regia coadiuvata da convincenti interpreti, trova accenti di sincera riflessione sul “ dolore del mondo offeso”, per dirla con Vittorini.

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Fenicie

di Euripide

Traduzione di  Enrico Medda

Regia di Valerio Binasco

Produzione Istituto Nazionale del Dramma Antico.

Con  Isa Danieli, Guido Caprino, Gianmaria Martini, Giordana Faggiano, Michele Di Mauro , Alarico Salaroli, Simone Luglio, Matteo Francomano, Massimo Cagnina, Yamanuchi Hal,  Simonetta Cartia. Al piano Eugenia Tamburri.