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Sauro BORELLI- L’uomo e la Natura (“La tartaruga rossa”, un film di M. Dudok de Wit)

 

Il mestiere del critico

 


L’UOMO E LA NATURA

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“La tartaruga rossa”, un film di Michael Dudok de Wit

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Di tanto in tanto nella profluvie di film che si succedono al ritmo ininterrotto capita che anche tra le proiezioni commerciali trovi spazio qualche pellicola basata sull’animazione. Si sa, infatti, come tale tecnica espressiva sia laboriosa, complessa (il cinema a “passo uno”, cioè un fotogramma alla volta per comporre un medio o lungometraggio compiuti) e come dispendiosa (in tempo e risorse) sia l’ideazione e la conseguente messa in atto di qualsiasi spunto narrativo.

Senza contare l’estro, la sapienza poetica, l’immaginazione di cui chi sceglie un simile modo di fare cinema deve necessariamente armarsi. Nato in contemporanea con la stessa creazione del cinema tout court – ovvero sul finire dell’Ottocento – il cinema d’animazione può vantare da oltre un secolo autori, opere ormai memorabili.

Lasciando da parte gli esempi, i modelli storici già consacrati, bastano a dire le virtù dell’animazione alcuni nomi per sé soli esemplari come – a nostro parere personale, tralasciando il nome sopravvalutato del solito Disney, spacciatore di corrive favole patetiche – sono da considerare i significativi, artistici manufatti di Alexei Alexeieff (“Lo schermo di spilli”), i coniugi Ansorge (“Il cinema di sabbia”) e, in tempi più ravvicinati, la produzione originalissima del cineasta giapponese Hayao Miyazaki.

Riallacciandoci, appunto, alla magistrale carriera di quest’ultimo (La principessa di Mononoke, Porco rosso, Il viaggio di Chichiro), fondatore dello Studio Ghibli, stimolatore della migliore animazione degli anni Novanta e Duemila viene automatico parlare del regista olandese Michael Dudok de Wit che, unico tra i cineasti occidentali, è stato scelto appunto dal magistrale Miyazaki per concepire, realizzare il suo primo lungometraggio d’animazione, La tartaruga rossa, già esaltato da qualche anno come il meglio in assoluto del cinema a “passo uno” contemporaneo.

L’importanza di una tale sortita sugli schermi di tutto il mondo, del resto, non costituisce soltanto una positiva sorpresa, quanto il fatto che la fantasia, la perizia artigianale, l’intelligenza favolistica tra sogno e realtà danno tangibile prova di una maestria narrativa di smagliante semplicità e, insieme, di esaltanti illuminazioni poetiche. In buona sostanza, La tartaruga rossa prende le mosse da un avvio quasi rituale per una invenzione avventurosa: un uomo naufragato nel mare in tempesta, sballottato, sommerso da onde mastodontiche, riesce a fatica, dopo disperati sforzi, ad aggrapparsi al relitto di una imbarcazione. Così, sempre affannato, ma indomabile approda ad una desolata spiaggia disabitata.

È qui, in questa nuova situazione di abbandono, di estrema solitudine che il naufrago ritrova ancora le forze, la volontà di resistere, di cercare scampo dagli oltraggi di una natura violenta, prevaricatrice. E di tentativo in tentativo profonde ogni suo slancio, tutte le sue forze, nel creare le condizioni per salvarsi. Una, due, tre volte lo sventurato personaggio – poiché tale uomo compare del tutto anonimo – viene brutalmente contrastato da un’enorme tartaruga dalla corazza rossa, metaforica incarnazione di un destino distruttore. Poi, quando finalmente il naufrago riesce ad avere ragione della ingombrante presenza dell’animale, rovesciandolo sulla spiaggia assolata, si perde poi in tante altre contrarietà, innescando al contempo mille e mille riflessioni su ciò che può sopraggiungere in un confronto impari tra l’uomo disarmato d’ogni possibilità e l’incombere sempre annientante della Natura scatenata.

La tartaruga rossa si può considerare in parte una favola morale dai risvolti manifestamente allusivi a tante inquietudini umane e, in parte divagante curiosa e ossessiva come un persistente racconto filosofico teso a spiegare improbabili approdi evocativi. Basato in modo calibrato su un disegno netto, lineare di tanto in tanto indugiante in figurazioni di acquerello più intensamente espressive il film di Michael Dudok de Wit si stempera – interamente muto, essenziale nel suo stilizzato rigore – toccando la misura, diremmo, di una perfetta compiutezza formale. E, al contempo, di una ammirevole trascinante poesia visiva. Davvero un piccolo, univoco capolavoro.