Sauro BORELLI- Nel ghetto nero (“Barriere”, un film di Denzel Washington)

 

Il mestiere del critico

 

 

NEL GHETTO NERO

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“Barriere” , un film di Denzel Washington

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Il recentissimo Oscar ha segnato almeno due novità importanti. In primo luogo l’ondata di film, di interpreti, di tematiche contrassegnati dal simbolo black. Nel senso che, contrariamente a un passato abbastanza vicino, cineasti, sceneggiatori, interpreti – e persino testi teatrali di autori afroamericani – hanno affollato il cartellone dell’Oscar di quest’anno. Secondariamente, il fatto che, sopravanzando tutti i restanti concorrenti, i “giovani leoni” del black-cinema – a cominciare da Barry Jenkins massimo Oscar guarnito di altri premi per il suo Moonlight – si sono fatti largo autorevolmente.

Anche aldilà di un qui pro quo davvero grottesco per una cerimonia tanto paludata: la proclamazione del vincitore “dilazionata” del citato Moonlight, inizialmente messa in seconda fila per privilegiare erroneamente il canoro-coreografico La La Land dell’enfant prodige Chazelle, peraltro subito consolato con mezza dozzina di altri riconoscimenti.

A guardar bene, ciò che è accaduto di pasticciato a Los Angeles non è stato tanto il penoso sbaglio dei pur sempre ammirevoli Warren Beatty e Faye Dunaway – indimenticata coppia di Gangster story – quanto il fatto che la folta presenza di cineasti afroamericani si è ritagliata (a dispetto dell’intollerante Trump, debitamente sbertucciato da tutti, bianchi o neri che fossero) un ruolo senz’altro prioritario per eccellenza di realizzazioni e ancor più per originalità di accenti con cui prospettare la mai risolta questione razziale negli USA.

È proprio su questo specifico terreno che un capofila del black-cinema come Denzel Washington si è dato il compito, quale regista e insieme interprete, di portare sullo schermo la pièce teatrale di Angus Wilson intitolata Barriere (dallo stesso Washington portata al successo con la bravissima Viola Davis, entrambi premiati col Toni Award) in scena a Broadway nel 2010 con l’omonimo titolo.

Barriere è già stato detto, a ragione, è un film “aspro, severo”, da certuni apparentato al classico di Joseph Mankiewicz Uomo bianco tu vivrai! (1950) tanto per il linguaggio scabro, incisivo che lo anima, quanto per la vicenda contingente realistica cui dà fiato e senso. L’approccio narrativo è subito resoluto, bruciante. Negli anni Cinquanta, nella Pittsburg degradata del ghetto nero Troy, sconsolato ex-giocatore di baseball di scarsa fortuna, si acconcia a campare come sa e come può lavorando da netturbino. Ha una famiglia gravosa con una moglie scontenta, un figlio che vorrebbe giocare a football, il ricordo del fratello Gabriel, ferito in guerra e tutto congiura per rendergli la vita anche più affannata. Di indole resoluta, un po’ dispotico, Troy inciampa in tutte le difficoltà, gli ostacoli che una socialità distorta gli mette davanti.

Barriere si prospetta così in tutta la sua immediata crudezza rovistando impietoso negli intrichi, nelle sconnessure fisiche, psicologiche di un’esistenza vissuta sempre allo sbando, in balia dei contraccolpi del caso o nella bizzarria della sfortuna. Denzel Washington e Viola Davis, nei ruoli maggiori, profondono qui prodigi di bravura e sensibilità. Anche se è proprio nella nettezza dei personaggi, delle situazioni che la storia acquista spessore, tangibile verosimiglianza. Non mancano del resto in questo film duro e puro un senso di solidale pietà per le vicende più dolorose e, insieme, una sottile vena melanconica per i rapporti più amichevoli.

C’è tutto, insomma, il grumo di emozioni, di sentimenti che da sempre animano, sorreggono la passione civile, il valore irriducibile della lotta per la piena emancipazione dei neri d’America. In questo senso, Barriere, insieme a Denzel Washington si sono imposti come segnali eloquenti. Anche e soprattutto, malgrado la confusione del pretenzioso Oscar 2017.

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