Script & Books

Sauro BORELLI- Gli alieni fra noi (“Arrival”, un film di Denis Villeneuve)

 

Il mestiere del critico

 

GLI ALIENI TRA NOI

Arrival

“Arrival”, un film di Denis Villeneuve

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La fantascienza al cinema assume, di volta in volta, il significato della favola oppure della profetica illuminazione. Si dà il caso, ad esempio, del capolavoro di Stanley Kubrick 2001 Odissea nello spazio che si prospetta, fin dall’avvio con quel prologo preistorico degli scimmioni alla scoperta del mondo, come una colta perlustrazione degli aspetti realistici dell’esistente. E accade anche che E.T. di Spielberg prenda le movenze, i gesti di un fantastico gioco degli equivoci o delle magiche trasfigurazioni.

È giusto all’intersecarsi di questi due distinti modi di fare spettacolo che gli originari termini fantasia e scienza si fondono, si confondono nell’univoco approdo di una drammaturgia tangibile e, al contempo, divagante nel vasto campo del possibile o del suo contrario.

Insomma, un garbuglio soltanto a tratti solubile con esiti, il più delle volte, allettanti e comunque curiosi. Tutto ciò per dire che Denis Villeneuve, cineasta quarantacinquenne già accreditato di alcune pregevoli realizzazioni, si è preso la briga, ricordandosi bene quanto hanno fatto in passato i menzionati maestri Kubrick e Spielberg, di allestire, appunto, un film di fantascienza, intitolato icasticamente Arrival. Qui, seguendo le tracce canoniche del fiabesco e del portato realistico, il racconto si condensa in un grumo di personaggi, di vicende che pur con qualche esitante passo dà conto allettante di una novità ora sorprendente, ora semplicemente eccentrica.

Arrival, desunto con larghe licenze da un breve racconto di Ted Chiang, e calibrato sulle preziose risorse di interpreti sapienti come Amy Adams (la dottoressa Louise) e Jeremy Renner (il fisico teorico Ian Donnelly) si dispiega con stratificati e complessi andirivieni cronologici in una puntigliosa indagine di eventi ai margini delle suggestioni metaforiche e (talora) metafisiche.

Di massima, questo il plot, almeno esteriore, del pregevole manufatto di Villeneuve. In un imprecisato periodo dodici astronavi aliene – enormi e strani apparecchi ovoidali – calano sulla Terra con intenti del tutto misteriosi e comunque inquietanti. Una di queste astronavi scende nel Montana destando immediatamente apprensione e grande interesse, specie da parte dell’apparato militare americano. In tale avvenimento vengono presto coinvolti professionalmente la glottologa Louise Banks e il fisico teorico Ian Donnelly che, sotto pressioni degli sbrigativi capi militari, sono incaricati di scoprire con quale possibile linguaggio i nuovi venuti – creature altissime dotate di molti tentacoli – possono comunicare con i terrestri. La cosa non è per niente facile, anche perché ogni presumibile contatto interspaziale può essere escogitato soltanto nell’ambito di una rappresentazione grafica e non altrimenti.

Eppoi, altro ostico problema, quando la dottoressa Louise (per sé sola angosciata dalla scomparsa della fantasmatica figlia) scopre, non senza fatica, la chiave di volta che può disserrare l’accesso ad un rapporto comprensibile tra alieni e umani, proprio per i contrastanti significati dei termini di una possibile intesa – gli extraterrestri avanzano la proposta di un “dono”, ben altrimenti inteso come un’ “arma” dai sospettosi militari americani e di altra specie – il “ravvicinato incontro” tra questi e quelli rischia di generare un desolante, catastrofico fallimento. Soltanto in extremis un colpo d’ala del benefico destino eviterà il peggio. Ma non è che questo epilogo sancisca alcun lieto fine. Ciò che si estrinseca piuttosto da questa favola fantascientifica è, a conti fatti, l’ennesima confortante scoperta che “il latte dell’umana bontà” (per dirla con Thomas Mann) può ancora sopperire a qualsiasi grintosa, mistificatoria avventura.

D’altronde, ciò che arricchisce e, in parte, spiega ancora la tortuosa traccia narrativa di Arrival trova perfetta espressione in quel che la stessa attrice Amy Adams dice a chiare lettere: “È una complessa meditazione sul valore del tempo, sulla non linearità dell’esistenza, su predestinazione e accettazione del dolore e sul significato di umanità”. Temi capitali, questi. Tutt’altro che alieni. Anzi, valori certo da ripristinare.