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Sauro BORELLI- Un genio della matematica (“L’uomo che vide l’infinito”, un film di Matt Brown)

 

Il mestiere del critico

 


UN GENIO DELLA MATEMATICA

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“L’uomo che vide l’infinito”, un film di Matt Brown

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“La matematica, vista nella giusta luce, possiede non soltanto verità ma anche suprema bellezza – una bellezza fredda e austera, come quella della scultura”. Così, Bertrand Russell, tra le tante cose intelligenti che ha intuito e spiegato, esprime il suo pensiero al colmo delle speculazioni filosofiche nel contesto del suo classico trattato Misticismo e logica. E, tra coloro che colsero nel giusto senso quel preciso messaggio ci fu – anche in modo inconsapevole – un giovane autodidatta indiano che, nei primi decenni del Novecento, ebbe l’estro naturale (e il talento) di cimentarsi con le asperità più ardue della matematica pura.

Ne fu così catturato intieramente fino ad affrontare, con enormi sacrifici personali e difficoltà pratiche, il proposito di contattare, da Madras ove viveva nel 1914, il prestigioso professore G. H. Hardy, docente di spicco alla autorevole università di Cambridge attorniato da altrettanto magistrali scienziati quali Robert Littlewood e Bertrand Russell.

Questo stesso scorcio evocativo costituisce l’impianto drammaturgico del film inglese di Matt Brown L’uomo che vide l’infinito, incursione biografica dettagliata sull’esistenza appassionata, le scoperte, la prematura scomparsa di Ramanujan Srinivasa Aaiyangar (1887-1920), matematico indiano che, venuto in possesso del testo Sinossi di matematica pura di Carr, si dedicò completamente a quella medesima disciplina.

Affannosamente, instancabilmente profuse tutte le sue energie nella conoscenza e nelle implicazioni della ricerca sui numeri. E, allorché si rese conto che per proseguire utilmente i suoi studi e le sue sperimentazioni doveva misurarsi con i grandi matematici inglesi, si risolse – anche a costo di sacrificare a quella decisione il bene della famiglia (la madre, la moglie giovanissima) – di partire alla volta dell’Inghilterra ove, appunto, celebri professori quali Hardy e Littlewood lo attendevano a Cambridge per verificare la fondatezza, l’originalità dei suoi pur geniali lavori.

C’è da dire che, come è stato da più parti constatato, la personalità matematica di Ramanujan fu del tutto particolare. Non ebbe infatti una preparazione sistematica in materia e molti suoi risultati non furono da lui dimostrati; operò sostanzialmente per intuizione e induzione, senza rendere conto in modo coerente del suo metodo. Ciò che non gli impedì (quasi mai) di toccare esiti risolutivi su complesse questioni matematiche fino ad allora inspiegate. L’approccio di Ramanujan con l’establishment tra lo snobismo e l’intolleranza di Cambridge fu più che ruvido salvo per la solidale comprensione dei citati professori Hardy e Littlewood che, con il passare del tempo, sempre più si rendevano conto che quello zelante studioso indiano palesava doti e risorse scientifiche davvero strabilianti.

Ciò che, peraltro, non rendeva più agevole il soggiorno nella severa atmosfera di Cambridge, del poverissimo Ramanujan, esposto a privazioni durissime e, di quando in quando, costretto ad affrontare inconvenienti pratici, resi anche più ostici dalle contrastanti attitudini comportamentali e religiose anche dei suoi amici ed estimatori. In primis dall’ammirato professor Hardy che, pur suo mallevadore fino al punto di raccomandarlo quale docente nella stessa Cambridge, non era minimamente disposto, quale ateo convinto, ad avallare le tensioni misticheggianti di quell’allievo d’eccezione.

Tutto questo lavorio cui Ramanujan si adattò per alcuni anni – compreso il periodo aspro, doloroso della prima guerra mondiale – non fu certo infruttuoso, anche se le reiterate cadute della salute (persino, la tubercolosi) per gli sforzi affrontati ad un momento determinato indusse Ramanujan a rientrare in patria, ove venne accolto con grandi favori. Di lì a poco, tuttavia, debilitato dalle prolungate fatiche, Ramanujan si spense alla sola età di trentadue anni. La sua, si può dire, era stata una smagliante meteora vissuta tra mille ostacoli e ben scarse compensazioni. Alla stregua, ci pare, di un altro matematico di valore, il poco più che adolescente Evariste Gallois (1811-1832) già cultore di idee anticipatrici dell’algebra moderna, militante rivoluzionario morto a soli vent’anni in un duello provocato dai suoi avversari politici. Ne dà testimonianza il severo film di Ansano Giannarelli Non ho tempo (1973).

Resta da dire ancora perché L’uomo che vide l’infinito risulta un film comunque da vedere. In primo luogo per la stesura puntuale, uniforme della storia pur complessa quale è. Secondariamente, per la prova elegante, magistrale di tutti gli interpreti: da Jeremy Irons (Hardy) a Dev Patel (Ramanujan) a Toby Jones (Littlewood). Infine per la tessitura serrata, efficace dei vari momenti narrativi divaganti tra le suggestioni dell’arcaica realtà indiana e la sussiegosa austerità di Cambridge. Oltretutto, va osservato, per concludere, che la sconvolgente novità attuale della Brexit carica, anche accidentalmente, questo film di Matt Brown di un aspetto ideologicamente spurio ma sintomatico: il Regno Unito è sicuramente un grande Paese, ma (forse) dai piedi d’argilla. Perlomeno quale l’ha conosciuto il geniale Ramanujan, da qualcuno paragonato a Isaac Newton.