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Sauro BORELLI- Un week end memorabile (“Tutti vogliono qualcosa”, un film di Richard Linklater)

 

 

Il mestiere del critico

 


UN WEEK END MEMORABILE

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“Tutti vogliono qualcosa”, un film  di Richard Linklater

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Richard Linklater, un cineasta oggi cinquantacinquenne, autore di poco meno di una decina di film, ha la particolarità di dedicarsi spesso e volentieri a storie incentrate sugli adolescenti. E, di più, ambientate di solito in scorci e periodi della sua stessa stagione giovanile in una sorta di recupero lucido, appassionato – ma non mai turbato da nostalgici echi – del tempo che fu e che attraverso dettagli e figure ben definite, rispunta sullo schermo in forme, movenze, costumi assolutamente verosimili.

Un primo, probante esperimento in tal senso risulta ad esempio Boyhood (2014) ove Linklater assembla l’eccezionale rievocazione di dodici anni, effettivamente ripercorsi con puntiglioso realismo, nel corso dei quali un gruppo di adolescenti (e in seguito giovani) si mischia, si incontra, si scontra con un vitalismo un po’ greve, dissipatore dispiegato, appunto, passo passo, invecchiando progressivamente e gradualmente spegnendo nella forzata rassegnazione sogni, smanie di una ormai conclusa gioventù. La vita, soltanto la vita, nuda e cruda, campeggia desolata tutt’attorno.

Boyhood, per ammissione dello stesso Linklater ha costituito, aldilà della pregevole dimensione narrativa (poi premiata con l’Orso d’argento a Berlino 2014), la base di partenza di questo suo nuovo Tutti vogliono qualcosa ove le presenze adolescenziali, giovanili si ripropongono in luoghi, momenti psicologici ancora e più completamente definiti. Corre l’anno 1981. in una dolce mattinata di fine estate, un ragazzo poco meno che ventenne passa a bordo della sua auto nei viali, tra le aiuole popolate di ragazze sorridenti, cordiali della Southeast Texas University. Il quadretto è festoso, Jake (tale il nome del nostro eroe) guarda, gode ammirato di tanto felice momento.

E pensa, altresì, agli eventi, alle lezioni che di lì a poco saranno l’impegno che lo attende, oltre al già preventivato compito di partecipare, quale provetto battitore, agli incontri di base-ball in programma per l’immediato futuro. È tutto un mondo nuovo che si para davanti al volenteroso Jake che in quello stesso week end farà gruppo con i coetanei giocatori di base-ball e, certo, non si sottrarrà agli incontri erotici-sentimentali con le bellezze del luogo.

Si delinea così una strategia esistenziale provvisoria in cui la naturale propensione verso gesti e azioni private e sociali si intrecciano, si incalzano, si sbriciolano in un divenire insieme fatale, inesorabile. Anche qui come nel menzionato Boyhood è la vita nuda e cruda che tutto prevarica e consuma. Richard Linklater, come sua personale ispirazione, mette in campo un racconto fitto di tutti i segni, i rimandi, le rifrangenze (la musica rock, i camuffamenti esteriori, le mode e finanche certi vizi) di una esistenzialità precaria, che soltanto nel ricordo, nella sorvegliata memoria, riesce a restituire la parvenza di una storia, di un improbabile passato, ovvero il Tempo della gioventù, del rimpianto non disgiunto dal rimorso, senza alcuna nostalgia.

Attentissimo a escogitare spunti e prospettive originali, Richard Linklater vanta una assiduità, una costanza esemplari nell’amministrare un metodo, una direttrice di marcia tutti ed esclusivamente suoi. Si è detto infatti di lui: “Il suo punto di forza sta soprattutto nella capacità di mettere insieme un gruppo di giovanissimi e di renderli tutti protagonisti della storia. Con passione, amore, veleno. Alla Altman”. E lui medesimo confessa candidamente: “Mi piace lavorare con attori che non hanno una profonda coscienza del loro talento e che non si sentono già sazi di cinema o mestieranti”.

Oltre a ciò, Tutti vogliono qualcosa, senza battere tracce già battute, palesa analogie e accostamenti narrativi con tant’altro cinema dagli indubbi pregi come, per citare un titolo memorabile, American graffiti di George Lucas, ove l’adolescenza e specificamente gli atteggiamenti tipici di quell’età si impongono quali paradigmi di una condizione consolidata. O detta altrimenti l’aria del Tempo, l’impronta di una stagione (comunque) indelebile.