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Sauro BORELLI- Da Cannes. La follia come rifugio (“La pazza gioia” di Paolo Virzì)


Da Cannes

 


LA FOLLIA COME RIFUGIO

“La pazza gioia” il nuovo film di Paolo Virzì

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Il parossismo sembra essere proprio il carattere distintivo del cinema di Paolo Virzì. Ne fa fede questo suo nuovo La pazza gioia, dodicesima tappa di una carriera fortunata tesa a dimostrare, tra sberleffi e divagazioni brusche di una realtà provinciale indugiante da sempre in desolate vicende esistenziali e in smanie di riscatto, di redenzioni improbabili.

Aggiungete a tutto ciò un accanimento nel reperire caratteri, figure di enfatica fisionomia ed ecco prospettato, per tic e segnali rivelatori, il piccolo, emarginato mondo del bric à brac tipico della vena narrativa virziana.

Di più, La pazza gioia risulta quasi il programmatico schema di una visione della contemporaneità insieme drammatica e argutamente ironica. L’estro evocativo di Virzì, basato per sua stessa ammissione su persistenti ricordi adolescenziali, si raccorda, in tal modo, a una tutta contingente perlustrazione di esperienze estreme di uomini e, in ispecie, di donne segnati dallo spaesamento, dall’inadattabilità a una vita fatta di ipocrite statuizioni e di ancor più deprimenti disincanti.

In definitiva, Virzì parla del suo cinema, non a caso, come di un macro-film che dai suoi inizi ripercorre, con più o meno garbo, l’armamentario di una avventura creativa interamente basata sull’istintualità, di quando in quando, divagante sulle manie, i difetti, le eccentriche fughe di un microcosmo squallido, disperante.

Dunque in La pazza gioia, per quel che ne dice lo stesso Virzì, così si prospetta nei suoi aspetti più esteriori: “Dopo il gelo beffardo di quella specie di thriller sociale che era Il capitale umano (penultimo film del cineasta livornese) che già trova la sostanza psicopatologica dietro certa buccia opulenta contemporanea, ecco una storia che parte dalla sponda opposta: donne ritenute insane e pericolose, alle prese con un impulso di fuga, di euforia, di affermazione. In entrambi i casi si prova a raccontare la disperazione, la solitudine in forma di commedia”.

Certo è una commedia piuttosto tetra con quelle due presenze femminili – la facoltosa, coltivata Beatrice e la derelitta, dolente Donatella – sbalestrate, ora colme di voglie matte, ora sconfitte da un mondo “normale”, invivibile, lanciate nella vana suggestione di “vivere la loro vita” anche a dispetto di ogni ostacolo e proibizione. Beatrice e Donatella si imbarcheranno, di giorno in giorno, in fughe, trasgressioni incalzanti.

Ma mentre la più boriosa, aggressiva bionda (Beatrice) parla, più spesso straparla, caldeggiando impudenti crediti e amicizie, la triste, macilenta bruna (Donatella) ripensa al suo bambino, prima quasi annegato in un tentativo di suicidio, poi affidato in adozione ormai da parecchio tempo a una famiglia amica.

L’intreccio delle personalissime vicissitudini del duetto male assortito si scioglie talora in una “pazza gioia” (letteralmente) dopo la fuga dalla villa sede di una comunità di malati affetti da disturbi mentali, affettuosamente assistiti da infermieri e medici di variabile orientamento terapeutico (l’esperienza di Basaglia è soltanto blandamente trasparente); talaltra frammentata in flash back evocatori dei trascorsi tormentosi (o felici) di entrambe le povere antieroine di un racconto a perdifiato tra scenate esasperanti, bruschi colpi d’arresto.

Non c’è quasi mai in tanto trambusto uno spiraglio di riflessivo ripensamento: tutto continua a correre, a incalzarsi precipitosamente mentre il mondo esterno, il mondo cosiddetto dei “normali” assiste, inerte, al caravanserraglio delle sempre più disinibite bravate di Beatrice e Donatella.

E qui, a questo punto, soccorre la spiegazione funzionale di Paolo Virzì sulla dinamica dei gesti, delle sortite dissennate delle due povere fuggiasche: “Di Beatrice e Donatella non ci si interessava solo per la cartella clinica ma le peripezie di donne dalla vita inguaiata. Non dimentichiamo in questo rapporto la questione sociale: Beatrice è la privilegiata, prepotente che si rifugia nella follia per dissacrare il suo mondo di ipocriti e anaffettivi, Donatella è la subalterna che è stata fatta diventare pazza dai pregiudizi di istituzioni e dalle miserie umane dell’ambiente in cui è vissuta”.

L’epilogo della concitatissima vicenda di Beatrice e Donatella non trova nessuna sperabile soluzione, se non l’acquietato tramonto in cui, ormai rasserenata in una catatonica immobilità, la prima ragazza accoglie il rientro in comunità della seconda compagna di tante (inutili) scorribande e di illusori desideri.

C’è da aggiungere, di rigore, che per dare visibilità verosimile alla movimentata storia di Beatrice e Donatella, Virzì ha puntato sull’istrionismo ben temperato di Valeria Bruni Tedeschi e sulla intensa personificazione di Micaela Ramazzotti, chiamate a prodigarsi all’estremo in ruoli decisamente impervi, arrischiatissimi. Si sa, la follia è una insidiosa sirena, sia se è vita vissuta, sia se è una parte soltanto da recitare. Comunque, La pazza gioia non diverte granché, ma per contrasto interessa, coinvolge.