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Sauro BORELLI- La stilista vendicatrice (“The dressmaker”, un film di J. Moorhouse)

 

Il mestiere del critico



LA STILISTA VENDICATRICE

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“The dressmaker”, un film di Jocelyn Moorhouse

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L’incipit di The dressmaker è per sé solo rivelatore: “Sono tornata, bastardi”. Nuovo film dell’australiana Jocelyn Moorhouse che torna alla regia dopo un lungo periodo di assenza dagli schermi – coadiuvata, per l’occasione, dal marito J. P. Hogart, anch’egli regista di qualche pregio – proporzionando una storia intricata (desunta dall’omonimo best-seller di Rosalie Ham). È la vicenda ambientata nel 1951 sulla figura centrale di Tilly Dunnage, sorta di “angelo vendicatore”, già adolescente immersa e travolta nel clima morboso, conformistico del desolato paesuncolo dell’entroterra australiano, Dungatar, e ora riciclata in sofisticata stilista parigina (come allieva del celebre Balenciaga) determinata a rifarsi cruentemente dei tanti, troppi oltraggi subiti, non esclusa una cacciata con false accuse di colpe terribili mai commesse.

Si tratta di un film a tesi, tutto ruotante come è su personaggi, esperienze dislocati in un’esistenza squallida fatta di sconfitte, di emarginazione, ove qualsiasi figura della rassegnata comunità sopravvive in un tran-tran mortificante risultato delle ipocrisie, della omertà incentrate su fatti e misfatti di un passato inconfessabile, vergognoso. In tale pantano l’arrivo della resoluta Tilly provoca, immediato, un contraccolpo vistoso. Anche perché, la ragazza ormai tramutata in elegante, vissuta signora padrona dell’arte di confezionare splendidi vestiti, benché legata per solidarietà alla madre Molly, visibilmente fuori di testa e persa in un mondo di ossessioni devastanti di eventi dolorosi, passo passo interseca la vita e, più spesso, le miserie umane di individui disorientati dal cerchio insuperabile di un destino abietto.

È così che Tilly si accinge ad affrontare, come sa e come può, i singoli provocatori delle sue disgrazie giovanili, soltanto di rado trovando qualche rispondenza di amorosi sensi in un atletico, sensibile coetaneo, ben deciso a strapparla (vanamente) da quell’intrico rovinoso.

Tutto è immerso in questo racconto dalle tinte prima rutilanti – in ispecie gli abiti che Tilly confeziona per le laide damazze del luogo –, poi decisamente tristi, avvilenti di vecchi episodi, di tresche, di amorazzi finiti male che, ostinatamente, irriducibilmente rispuntano fuori come un inesorabile redde rationem. In tal modo, The dressmaker, si incupisce progressivamente attraversando le suggestioni ora del film avventuroso (come una specie di western) ora di una vicenda tutta giocata sul mélo, ora infine su una cruenta storia d’amore, di morte soltanto nel finale suggellata allusivamente dall’acquietata partenza, dopo tanti desolati rendiconti, dell’ineffabile Tilly, presumibilmente verso la mitica Parigi del suo riscatto.

In simile, tortuoso, altalenante garbuglio di figure, di cruenti ricordi si muovono, ben amministrati dall’abile mestiere di Jocelyn Moorhouse, attori di provata maestria che, attorno a Kate Winslet (davvero bravissima nel ruolo centrale di Tilly), danno vita e spessore drammatico ad un insieme interpretativo di gran classe: da Liam Harusworth a Judy Davis e a Hugo Weaving.

Ciononostante l’intento di Jocelyn Moorehouse di strutturare una incursione aggiornata nel colmo di un dramma più e più volte indagato da altri cineasti (significative le citazioni del film Viale del tramonto, della tragedia shakesperiana Macbeth, della cantante Billie Holliday, dell’operetta Mikado) non tocca un esito compiutamente riuscito. Troppe e troppo contorte sono le vicende, i casi limite qui evocati, tanto da pregiudicare nel loro precipitoso affastellarsi di fatti, di figure di volta in volta incalzanti e soltanto marginalmente definiti l’intiero senso della narrazione. A giustificazione almeno parziale di tanta e tale concitazione resta al più l’apparato tecnico-formale raffinato dell’intiera realizzazione. Ma è un’attenuante ben poco gratificante.