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Sauro BORELLI- Il giudice innamorato (“La corte”, un film di Christian Vincent)

 

 

Il mestiere del critico

 


IL GIUDICE INNAMORATO

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“La corte”, il nuovo film

 

“La corte”, un film di Christian Vincent

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C’è un determinato modo di fare cinema. Dipende dall’approccio che il regista sceglie per realizzare la propria opera. Sembrerebbe una cosa ovvia, ma in effetti si tratta di una questione basilare. Fare un film, secondo quella prioritaria opzione, significa puntare su alcuni fattori fondanti: il ritmo del racconto, la leggerezza del linguaggio, il buon garbo dei personaggi. È, questa, una direttrice di marcia specialmente praticata in Francia ove sceneggiatori e cineasti affrontano, spesso e volentieri, vicende contrassegnate da moduli espressivi coerenti con simili attitudini. Tanto da congegnare – grazie ad un attento dosaggio di spunti sentimentali profumati di sapiente ironia – film largamente divaganti tra realtà e immaginazione secondo uno schema evocativo del tutto “decontratto” o, detto altrimenti, brillantemente accattivante.

Un tale film risulta la nuova fatica di Christian Vincent La corte (in originale L’hermine, l’ermellino simbolo dell’austero potere dei giudici): un lungometraggio abile ed agile ove un prestigioso attore come Fabrice Luchini (già premiato a Venezia per il suo ruolo dominante nell’opera citata) incarna, appunto, con leggerezza e garbo la figura ostica di un presidente di tribunale, l’ipocondriaco Michel Racine, che si intriga, a un certo punto, con un’esperienza tutta privata. Esperienza che lo coinvolge interamente in un trasporto affettivo, assolutamente imprevedibile per la sua indole dispotica e maniacale (è detto tra l’altro “il giudice a due cifre” perché i suoi verdetti vanno sempre oltre i dieci anni).

Presidente autoritario più che autorevole di una corte d’assise, il bizzarro Racine, in rotta con la moglie insofferente di un tale rompiscatole, vive in una disadorna stanza d’albergo ove, malato d’influenza, coltiva – si può dire – le sue idiosincrasie e le sue intolleranze. Soltanto, allorché siede nel suo scranno in tribunale, sembra riacquistare una qualche ostentata dignità: ma anche in tale ruolo il bizzoso presidente distribuisce a destra e a manca i suoi tic, le sue fissazioni ininterrotti. Finché, un bel giorno, tutta la sua stizzosa autorità – benché condita di sorrisi e osservazioni formalmente gentili – trova un intoppo gravemente destabilizzante.

Nella cernita dei giurati occorrenti per il processo a un padre catatonico accusato di aver ucciso a calci la propria figlioletta, Racine si imbatte in Sidse, una cordiale signora danese già infermiera che, a suo tempo, aveva prestato la propria solidale attenzione allo stesso Racine, incappato in un debilitante incidente. È il classico “colpo di fulmine”: il giudice ricordando la sua degenza in ospedale e in particolare il gesto umanissimo della infermiera-anestesista che gli aveva affettuosamente carezzato la mano, è indotto con naturale slancio a voler ripristinare con la sorridente Sidse un legame affettivo più solido, totalizzante, a scorno persino di tutte le sue manie e precetti formali di una linea di condotta sostanzialmente meccanica, arida.

Risaltano in questa storia esteriormente mediocre di un personaggio patetico, tante altre cose mutuate da una realtà di fatti, di digressioni desolanti – il processo al presunto assassino della figlioletta si trascina stancamente tra giurati pettegoli, cinici e il dominante Racine sempre più disamorato del proprio ruolo e sempre più “preso d’amore” per la non insensibile Sidse – finché la vicenda generale imbocca la strada dell’epilogo. Dopo prolungate sedute il processo trova compimento con l’imprevedibile assoluzione del supposto colpevole e con la prospettiva, per il puntiglioso Racine, di un nuovo compito di presiedere un altro processo.

Non senza, peraltro, che con un tocco di sapiente saggezza ironica l’intera storia trovi suggello sorridente nella presenza in aula della amatissima Sidse che, benché moderatamente commossa dal devoto Racine, abbigliata in modo seducente con un vestito a ricami tutto attillato, regala un presumibile “lieto fine” all’intiera pantomima, una volta di più ribadendo l’efficacia della leggerezza, del buon ritmo, dell’eleganza espressiva. Tutto alla maniera francese. Non a caso Marivaux bazzicava da queste parti.