Script & Books

Sauro BORELLI- Una saga a doppio taglio (“Sangue del mio sangue”, un film di Marco Bellocchio)

 

Il mestiere del critico

 

UNA SAGA A DOPPIO TAGLIO

“Sangue del mio sangue”, il nuovo film di Bellocchio

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Cinquant’anni fa si ebbe – del tutto imprevista – l’esplosione sorprendente di un nuovo autore, Marco Bellocchio, che col suo eccentrico I pugni in tasca diede innesco a un cinema pieno di rabbia, di torbidi umori psicologici ed esistenziali. Fu quello anche il momento – clou di una ricerca di un nuovo linguaggio, d’uno stile personalissimo. Dopo di che, l’orientamento tendenziale di Bellocchio (compreso anche l’esperimento dubbio della Cina è vicina) scelse altre strade innovative, ma certo non sempre azzeccate e compiutamente risolte.

Tanto che la critica più attenta ebbe a scrivere sul conto degli ulteriori cimenti creativi: “Le opere successive svuotate in parte della vitale rabbia compressa della prima, stingono alquanto su film a tesi, di volta in volta dedicati alla perversità delle istituzioni educative (Nel nome del padre, 1972), al cannibalismo dei mass media (Sbatti il mostro in prima pagina, 1972) … o alla luttuosità dello spirito militarista (Marcia trionfale, 1976). Poi seguirono alterne, pregevoli prove incentrare su temi e indizi di più ravvicinata complessità narrativa (Salto nel vuoto, Il diavolo in corpo, La balia, ecc.) fino a culminare nei lungometraggi di contenuto altamente civile (L’ora di religione, Vincere, Bell’addormentata).

Ora, Bellocchio, stimolato principalmente dai ricorrenti appuntamenti di lavoro delle ultime estati nel “natio borgo selvaggio” di Bobbio (sulle colline piacentine) ha dato mano alla commistione di ricordi personali, storie del passato, rendiconti di vicende a metà tra autentica testimonianza e rifrangenze ironiche assemblate sotto il titolo di qualche senso autobiografico Sangue del mio sangue, una realizzazione formalmente originale, e per tanti aspetti, intrigata – in una doppia ambientazione cronologica – con una fosca avventura secentesca legata ai nefasti dell’Inquisizione (ove è adombrato il tragico destino della manzoniana “monaca di Monza”); e alla tutto novecentesca deriva democristiana emblematizzata in una sordida truffa perpetrata ai danni del solito mondo “piccolo”, appunto Bobbio e i suoi immediati dintorni.

Sangue del mio sangue risulta programmaticamente un film con una direttrice di marcia duplice e, in fin dei conti, convergente giusto nell’intento di raccontare, in dettaglio e con rigore e nitore strenui, particolarità, segnali, tanto del corrusco mondo secentesco colmo di feroci riti inquisitori, quanto della desolazione, della corruzione dilaganti oggi nell’enclave provinciale, piccolo borghese di Bobbio. In breve, nella prima parte si evoca l’esperienza tremenda di una novizia che, mossa d’amore per un coetaneo confessore, viene tormentata e poi murata viva con il proposito di estorcerle una inesistente complicità col demonio.

Il tutto dislocato in un tetro convento abitato da suore di clausura. Nella seconda parte (pur raccordata alla prima da ricorrenti squarci tutti attuali) il vecchio convento tramutato a suo tempo in un cupo luogo di prigionia diventa il centro di intrighi e maneggi poco puliti ove un tale conte Basta, macilento e minaccioso personaggio sfuggente, fa il bello e il cattivo e tempo, anche se si capisce bene che non si tratta di niente di serio. Anzi, frizzi e lazzi sgangherati, tutto, come si dice, finisce quasi in gloria. Sangue del mio sangue si può ritenere in effetti un saggio di maestria stilistica ed espressiva che sconfina spesso e volentieri nell’elegante, frammista saga architettata, si direbbe, da Bellocchio e da tutti i suoi (interpreti bravissimi e il magistrale apporto tecnico-figurativo) un “po’ per celia e un po’ per non morir”. O almeno così Venezia 2015 ha voluto farci credere.