Un racconto speciale: Limor Regev, “Il bambino del blocco 66”

Un racconto speciale: Limor Regev, Il bambino del blocco 66

@ Rinaldo Caddeo, 6 giugno 2024

Nella cospicua memorialistica sulla Shoah questo libro si distingue per l’accuratezza e la completezza di una testimonianza che è anche una biografia. C’è uno sguardo fermo sulle cose, un’analisi rigorosa e una voce affabile che ce le racconta, trasportandoci dentro un mondo sconvolto dall’antisemitismo e dalla guerra. È una luce che parte da un angolo preciso d’Europa e illumina tutto lo scenario.   

Chi ha scritto il libro, Limor Regev, non è la stessa persona, Moshe Kessler, di cui si racconta la storia. Limor Regev, come riporta la quarta di copertina, è ricercatrice presso il Leonard Davis Institute for National Security Studies (INSS) della Hebrew University di Gerusalemme. Il suo interesse per la Shoah l’ha spinta a raccogliere e a rielaborare per iscritto la testimonianza di Moshe. Moshe Kessler è colui di cui si narra la vita in prima persona cioè il protagonista della storia. 

L’autore (Limor Regev) si è calato nel punto di vista del narratore (Moshe Kessler) ed è riuscito a creare uno stile di scrittura limpido, aderente alla superficie e alle pieghe riposte delle vicende narrate. 

Il libro è costellato di fotografie, (sia in bianco e nero, sia a colori), soprattutto di Moshe e dell’amico Shani Itzkowitz, amico fraterno con cui Moshe ha condiviso buona parte dell’internamento e di cui parla molto nel libro. Fotografie di volti, di luoghi, di vestiti, di avambracci tatuati con quel numero che aveva sostituito il nome nei lager nazisiti. 

La narrazione è suddivisa in tredici capitoli che si possono ricondurre a quattro grandi blocchi narrativi: l’infanzia, l’internamento nei lager, la liberazione e la vita dopo la guerra.

Moshe Kessler nasce il 21 settembre 1930 (vedi p.173) a Berehove, poi Bergsas, in Cecoslovacchia, ai confini tra Slovacchia, Ungheria e Polonia, nell’odierna Transcarpazia, abitata da una popolazione multietnica e multilinguistica. Come suggerisce il titolo del primo capitolo la sua è stata un’infanzia felice: «Eravamo tutti contenti di far parte della Cecoslovacchia. Il giovane Stato aveva istituito pari opportunità e molti erano riusciti a migliorare la propria situazione economica con il duro lavoro, lo studio e la formazione». 

Da questa situazione trae vantaggio soprattutto la comunità ebraica di cui fa parte il protagonista. Moshe viveva in un caseggiato con un cortile e l’orto, composto di tre appartamenti dove abitava la grande famiglia a cui apparteneva: oltre al fratello e ai propri genitori, i nonni e gli zii. È un Eden dove trascorre il suo tempo accanto ai genitori negozianti, al fratello e ai cugini con cui gioca. Il mattino va all’asilo e poi, crescendo, a scuola. Il pomeriggio va allo heder, il doposcuola ebraico, dove studia il catechismo ebraico, cioè i principi del giudaismo. Nel corso degli anni ’30, dopo la conquista nazista del potere, viene offerta alla famiglia, da parte dell’organizzazione sionista, la possibilità di emigrare in Israele ma i genitori declinano l’offerta, data la situazione di relativa prosperità e tolleranza di cui gode ancora la comunità ebraica in Cecoslovacchia. Nonostante nella vicina Germania dilagasse l’antisemitismo, «dove vivevamo noi non percepivamo sentimenti ostili, né timore tra gli ebrei. Da bambini non sapevamo nemmeno cosa fosse l’antisemitismo».

Nel corso del 1939 cambia tutto. Perché?

Il patto di Monaco del settembre 1938 con cui la Francia di Daladier e l’Inghilterra di Chamberlain credono di aver placato le mire espansionistiche di Hitler concedendogli i Sudeti, ottiene l’effetto uguale e contrario. Hitler non si accontenta. Si annette tutta la Cecoslovacchia e poi invade la Polonia e l’anno dopo la Francia: «Fu così che il primo passo sulla strada che conduceva alla guerra più terribile della storia dell’umanità avvenne, paradossalmente, nel nome della pace». 

L’Ungheria ottiene, effetto collaterale della pace di Monaco, un terzo della Cecoslovacchia, tra cui Berhove che diventa Bergsas. Persino il nome del protagonista cambia, da Moshe deve diventare un nome ungherese: Leyush.  Il cambiamento non si ferma ai nomi. Comincia la persecuzione degli ebrei, come in Germania, come in Italia, con l’espulsione dagli uffici pubblici, dalle scuole e dagli ospedali. «Le strade della mia infanzia, un tempo familiari e sicure, divennero minacciose, in quanto l’antisemitismo manifesto e legalizzato iniziava a diffondersi a macchia d’olio». Il padre di Moshe viene arruolato nei battaglioni di ebrei destinati ai lavori forzati.  Il 19 marzo 1944 l’esercito tedesco invade l’Ungheria. Inizia quel processo di segregazione degli ebrei ungheresi che porta alla deportazione nei lager. Moshe subisce prima la deportazione nel ghetto di Bergsas, poi nel lager di Auschwitz. 

La sezione centrale del libro è dedicato ad Auschwitz. Sono cinque capitoli: Un inferno chiamato Auschwitz, Auschwitz 1, Auschwitz 2, Il campo di lavoro di Lagisza, Auschwitz 3Pagine, in particolare nel capitolo Un inferno chiamato Auschwitz, ricche di notizie e di dati documentali sullo sterminio di massa, si alternano a pagine testimoniali di prima mano che descrivono il vissuto doloroso del protagonista.

In Auschwitz 1 troviamo la descrizione dell’arrivo ad Auschwitz: la discesa dal treno, la selezione, la spoliazione, l’ingresso nella baracca del dormitorio. Lo smarrimento, l’incredulità, la sofferenza di un bambino di 13 anni, assetato, affamato, infreddolito, separato dalla madre e dal fratello, non gli impediscono di imprimere nella memoria e di riportare con allucinata precisione i dettagli di quanto gli accade: le barriere di filo spinato, le torri di guardia, gli aguzzini armati di bastoni, la mancanza di verde, nonostante fosse maggio. 

Sulla banchina, nel caos dell’arrivo, uno di quegli strani uomini con il pigiama a righe e la testa rapata, gli salva la vita convincendolo con fatica a staccarsi dalla madre e dal fratello più piccolo, grazie anche alla collaborazione della madre che aveva intuito che cosa stava accadendo. Con la selezione, da parte di un ufficiale delle SS, viene spedito nella fila di quelli che non vanno nelle camere a gas. 

Moshe si trova da solo, ad affrontare e ad adattarsi al mondo a rovescia di un lager. Inizia una lotta per la sopravvivenza, fisica e mentale, che esige un autocontrollo e un’autocensura tali da erigere rapidamente alti muri nella coscienza a partire dall’inibizione dell’emotività. Dimenticare il passato, non fare e non farsi domande, mimetizzarsi nell’ambiente ostile, accettare di vivere in un presente dispotico e incondizionato, diventano istanze fondamentali dell’esistere, indispensabili per rimanere e mantenersi in vita: «Ci avevano già trasformati in automi che obbedivano agli ordini, privi di sentimenti umani e della motivazione di fare altro che non fosse obbedire».

Simile ad altre testimonianze (da Levi a Wiesel, dalla Levine alla Segre), le parole di questa testimonianza presentano la specificità di mettere in evidenza la potenza del terrore, i suoi effetti psicologici che raggiungono un culmine inavvicinabile nei campi di concentramento nazisti ma che, più o meno diluiti, si possono riconoscere in ogni sistema totalitario, in ogni forma di dittatura dove è stata spenta ogni luce di libertà, come, per altro in forme e misure diverse, nella fantascienza distopica, da 1984 di Orwell a Il nuovo mondo di Huxley.

Moshe sopravvive un anno, un periodo molto lungo per le condizioni estreme in cui viene a trovarsi, dalla primavera del ’44 alla primavera del ’45, passando attraverso un inverno rigidissimo, con temperature a meno 25, cibo insufficiente, vestito con una casacca di cotone, prima a Birkenau, poi a Buna-Monowitz, poi a Lagisza, dove può dedicarsi a un lavoro meno usurante: la coltivazione dell’orto. 

Come fa a non morire come invece succede alla grande maggioranza dei detenuti? Grazie a un ventaglio complesso di risorse e di circostanze: la conoscenza del tedesco, la vicinanza dell’amico Shani, la prontezza a capire i cambiamenti senza necessariamente adeguarsi passivamente a una cieca obbedienza ma anche con slanci di coraggio (come quando chiede a un soldato di riempire un contenitore con l’acqua calda che sgocciola dalla caldaia di una locomotiva e il soldato, invece di sparargli, acconsente alla sua richiesta), oltre a una dose imponderabile di fortuna

Riesce a sopravvivere anche alle marce della morte con cui viene trasferito, prima a piedi, poi su vagoni allo scoperto, da Auschwitz a Buchenwald. Qui trova rifugio in quel Kinderblock 66, il Blocco 66, che dà il titolo al libro. Si tratta di una baracca a parte, in cui furono salvati 904 bambini e ragazzi, che non furono più mandati a lavorare, per l’iniziativa di Antonin Kalina, comunista cattolico ceco, veterano di Buchenwald, (proclamato, dopo la morte, Giusto tra le Nazioni), dove Moshe incontra anche Elie Wiesel. 

Negli ultimi due capitoli, Il ritorno a casa e Vita dopo la guerra, descrive il ritorno a Bergsas e il trasferimento in Israele.  Tornato a casa, scopre che la madre è viva, il fratello è morto subito dopo l’arrivo a Birkenau e che il padre è morto per un proiettile vagante l’ultimo giorno di guerra. Nel 1949, con la madre si traferisce in Israele, dove tuttora vive, si è sposato, ha avuto due figlie e diversi nipoti.

Come scrive Limor Regev nella Postfazione: «questa è la storia di un bambino ebreo obbligato suo malgrado a diventare grande prima del tempo […] Il mondo che conosceva gli era crollato dinanzi agli occhi. Dovette combattere giorno dopo giorno per il suo diritto all’esistenza, contro ogni previsione.

Nella storia della sua sopravvivenza spicca il carattere unico di Moshe, le qualità che lo aiutarono a prendere decisioni coraggiose e intuitive che gli salvarono la vita ma anche l’anima.

Il grande dolore per la perdita dell’innocenza dell’infanzia e della felicità che gli furono crudelmente strappate è tuttora presente in lui, ma non è più dominante. La morte del fratello minore e del padre e la distruzione di tutto il suo mondo non gli hanno impedito di provare emozioni e di fare tutto il possibile per riprendersi dal trauma che aveva vissuto. Oggi, superati i novant’anni, Moshe nuota tre volte alla settimana e il suo vigore fisico è pari a quello del suo spirito».