Un europeo nel ventennio
@Antonio Castronuovo, 12-04-2022
Tutta da rivalutare la musica italiana del Ventennio: Casella, Petrassi, Malipiero, Pizzetti… E certo grazie alla formazione parigina, dove fu allievo di Fauré al conservatorio, amico di Stravinskij e dove poté respirare l’aria dei Satie, Debussy e Ravel, Alfredo Casella (1883-1947) fu – tra i compositori della «generazione degli Ottanta» – colui che meglio donò alla musica italiana quel che trapelava dall’Europa. Radicale il divario, ad esempio, con un Malipiero, che aveva ricevuto una formazione ombrosa, distante dagli esperimenti d’oltralpe e guardava al Seicento vocale come epoca di riferimento ispirativo: per parte sua Casella si trovava a suo agio nel Settecento strumentale, da Vivaldi a Scarlatti. E non si trattò per lui di sola Francia: conosceva opere di Mahler e Schönberg e il mondo tedesco in certo modo segnò la sua vicenda anche per l’edizione delle opere: le sue prime (poema sinfonico Italia op. 11 e Suite in do maggiore) uscirono presso la viennese Universal Edition.
La modernità del suo stile si misura sull’opera intera (tralasciati i punti controversi, come la citazione di Funiculì-funiculà nel poema sinfonico Italia). Un esempio forse banale ma indicativo: mi ha sempre colpito l’incipit della Berceuse triste op. 14 per pianoforte: il preludio lentamente ritmico alla mano sinistra pare debba annunciare una melodia malinconica, e invece quel che subito appare nella destra è una dissonanza, per quanto “accettabile”. Poca cosa, ma è come se Casella volesse annunciare, nei primi decenni del Novecento, che grazie a lui giungeva aria nuova.
Aria nuova anche per l’inclinazione ironica, che si manifesta in alcune produzioni che accolgono la parodia, come avviene nei pezzi per piano À la manière de… op. 17bis, dove quella di Richard Strauss diventa Symphonia molestica da domestica che era; mentre da Vincent D’Indy viene tratta l’ispirazione di un Prélude à l’après-midi d’un ascète, dicitura fuorviante là dove sempre ci si attende la citazione del faune.
Era l’aria nuova dell’Europa, e della barra musicale che tornava verso l’espressione strumentale: fu su questa base che Casella creò un’opera di grande interesse, in cui l’iniziativa di sprovincializzazione svolta in favore della musica italiana concede di perdonargli – come ha correttamente osservato Mila – la «concessione più o meno consapevole all’isterico nazionalismo artistico promosso dal regime fascista». Ragione per cui sono positivi, e graditi, tutti gli studi che su di lui escono nell’editoria, campo non muto su un compositore la cui personalità musicale è però in molte aree ancora da dissodare.
Apparso nel 2021 come frutto di due giornate di studio promosse dal Conservatorio dell’Aquila, questo bel volume di saggi è stato ordinato in due grandi parti tematiche: la prima spazia sul pensiero musicale e su alcune opere di Casella, la seconda su scene di biografia, di insegnamento e di memoria successiva alla scomparsa. Si tratta di una serie di studi che vanno conosciuti e che svelano non solo singoli episodi biografico-compositivi: si calano anche bene nel milieu in cui gli episodi studiati presero vita.
Guido Salvetti affronta gli anni di apprendistato di Casella a Parigi, subito prima dello scoppio della Grande Guerra, e analizza il ciclo delle quattro liriche per voce e pianoforte su testi di Tagore L’adieu à la vie op. 26 composte tra maggio e agosto 1915, un ciclo in cui «confluiscono tutte le esperienze parigine», che vanno tenute presenti per coglierne il senso. Un breve saggio che ci cala appunto in quell’atmosfera, negli anni in cui a Parigi si fece di tutto, anni in cui vi circolava ad esempio un Savinio che tentava di farsi musicista, per poi abbandonare quella linea a favore della letteratura e della pittura. E a proposito di pittura, Francesco Fontanelli costruisce un ottimo studio sulle radici pittoriche – dal cubismo al classicismo – di Casella.
Il saggio dedicato da Marco Targa a La giara op. 41, solleva il piacere del colorismo dell’opera, che non a caso viene a volte abbinata nella discografia agli affreschi romani di Respighi. Frutto della inclinazione a sfruttare materiale melodico di origine popolare, dunque della tendenza al nazionalismo musicale, La giara è comunque un’opera assai gradevole, una commedia coreografica basata ovviamente sulla novella di Pirandello che andò in prima rappresentazione a Parigi nel 1924 con la scenografia di Giorgio De Chirico: il contributo la analizza alla luce del concetto di “musica moderna italiana”, che Casella volle chiarificare inaugurando con questa opera il suo cosiddetto terzo stile.
Se non opera stupenda, molto interessante per la posizione antiverista La donna serpente op. 50 composta tra 1928 e 1931, cui di recente abbiamo potuto assistere all’interno della programmazione musicale televisiva (in una bella produzione del Regio di Torino); interessante perché rappresenta la conversione all’opera in età matura di un antioperista, come ha ben studiato Fiamma Nicolodi nel bel saggio dedicato; interessante anche perché la fiaba di Gozzi da cui è tratta è la medesima che ispirò Wagner per la sua prima e trascurata opera Die Feen.
Gli altri contributi dedicati alla produzione musicale di Casella si distendono sul Concerto romano op. 43 per organo, ottoni, timpano e archi del 1926 (ne scrive Carlo Ferdinando De Nardis), sul fallimento al Maggio Musicale fiorentino del 1937 del mistero in un atto Il deserto tentato op. 60 su testo di Corrado Pavolini (articolo a firma di Gregorio Moppi) e sulla Missa solemnis “pro pace” op. 71 per soprano, baritono, coro e orchestra del 1944, suo testamento artistico (saggio di Antonio Rostagno).
So di risultare parziale non citando i contributi raccolti nella seconda sezione intitolata Il Maestro e le generazioni future, e tuttavia non esito a dichiarare che questa parte è costituita da contributi seducenti e irrinunciabili che esaminano nei particolari alcune stagioni biografiche e compositive di Casella: i corsi romani di perfezionamento pianistico; l’operato a Siena tra corsi, festival e Settimane musicali senesi; il confronto col cinema; i rapporti con Nino Rota e Virgilio Mortari; l’intitolazione a Casella del conservatorio dell’Aquila; il curioso progetto digitale caselliano lanciato pochi anni fa sulla piattaforma Twitter.
Certo, per leggerli proficuamente e con slancio è necessaria una specializzazione che non si possiede per nascita: l’amore infinito per la musica e per la sua storia, come anche per la scienza musicologica che ne esamina la natura e i caratteri. E tuttavia ripeto quel che sempre vado dicendo a chi ascolta senza procurarsi notizie storiche e musicologiche: la ricezione sorretta da conoscenze “colte” non solo è – per ovvie ragioni – più corretta: è anche assai più piacevole. Non riesco a godere di un’opera musicale se non conosco la vita di chi l’ha composta, in quali condizioni storiche, subendo quali influssi, cogliendo quel che di originale vi è incluso, intuendo semmai il significato che si è inteso darle. Non significa fare dell’ascolto qualcosa “a programma”, proprio no: significa comprendere per meglio sentire. Una delle funzioni più piacevoli dell’intelletto.
Alfredo Casella interprete del suo tempo, a cura di Carla Di Lena e Luisa Prayer, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 2021, pagine 374, euro 35.