Il fiore del benessere inutile. ‘Little Joe’ di Jessica Hausner

Il fiore del benessere inutile. ‘Little Joe’ di Jessica Hausner

@ Edoardo Fontana (15-08-2020)

In equilibrio tra l’aspirazione a essere felici e l’impossibilità di realizzare il desiderio o meglio ancora, forse, tra l’utopia della gioia e la realtà del continuo altalenarsi delle emozioni: l’uomo, nei secoli,  ha sempre cercato la sua strada, sperimentando vie alternative alla resa e droghe, forme di meditazione, religioni. L’occidente, fino a oggi, lontana l’indigenza, e le guerre, ha concretizzato la certezza di poter scegliere se abbandonarsi al dolore di ogni tipo o se relegarlo alla memoria. Ma ora sembra prevalere una nuova dottrina, un nuovo ordine delle cose, che prevede la felicità, il benessere, la gioia come un dovere. Il dolore, l’infelicità, l’abbandono dei sensi alla corporeità, male estremo da sconfiggere, strega, eresia, tumore da asportare senza attesa.

Little Joe è un film altamente ideologico pur nel mascheramento drammatico, sotto la patina di una fotografia straordinaria che ci introduce in un mondo di vetro, lattiginoso, iperrealista e chimico. Uno dei momenti più alti, di questi ultimi anni, del dialogo tra estetica grafica e cinematografia.

Un film che arriva da lontano, direttamente dalle sperimentazioni registiche di uno dei geni della cinepresa, cioè Maya Deren che con Alexander Hammid girò nel 1943 un brevissimo film, Meshes of the afternoon, seppur in bianco e nero condivide formalmente l’uso di inquadrature che sembrano trarre la loro forma da griglie grafiche, da un uso asimmetrico e bilanciato della disposizione degli oggetti nello spazio, correlati tra loro da regole geometriche di equilibrio e rapporti precisi, che un uso intelligente del colore, in questo secondo caso, sottolinea. Little Joe è costruito attorno a un preciso progetto che immobilizza in sequenza ogni fotogramma ed è un riuscito ibrido tra la grafica razionalista svizzera, gli studi sull’interazione dei colori di Josef Albers e lo schematismo policromatico giapponese.  E se la suggestione del paragone con le ‘trame’ di Maya può apparire azzardata ecco che un altro collegamento ci riporta su di una strada parallela. Teiji Ito, compositore americano di origine giapponese, musicò molti dei film d’avanguardia di Deren e la sua Watermill  è stata scelta dalla regista Jessica Hausner per la colonna sonora del film. Anzi, in realtà l’insolita alchimia di musica tradizionale giapponese, jazz e musica concreta, è la portante delle scene emblematiche del film, contribuendo a generare quella straniante sensazione di inquietudine che muta un lieve racconto con una trama flebile e quasi non necessaria in un horror sui generis, che ci inabissa nella paura più profonda che forse si possa avere: quella di perdersi, di perdere la propria identità, convinti che quella indotta da altro sia invece la nostra.

Alice Woodart, ha il viso  diafano e il corpo sottile di Emily Beecham, è una scienziata che  sperimenta, in un laboratorio altamente specializzato, l’utilizzo del profumo dei fiori nel campo del benessere psicofisico. L’ultimo nato di queste ricerche è uno strano vegetale, Little Joe,  con una corolla rossa in grado di liberare un polline sterile. Ed è proprio la sterilità che forse muterà questa pianta in un insidioso manipolatore di volontà. In un droga che si configura come la nuova religione del benessere, capace, attraverso la resistenza di un virus benigno, di contagiare chiunque, più o meno volontariamente, le si avvicini. Tutti i  personaggi del film, a partire dal timido e impacciato, collega di Alice, Chris − interpretato da Ben Whishaw – sembrano cadere lentamente nella rete di questo piacere senza corpo che induce Little Joe.

Accanto ad Alice si muove il figlio, Joe, alter ego del fiore? Contrappunto umano del vegetale che manifesta uno pseudo pensiero più sicuro di quello che pensano di avere gli esseri umani, prima in balia dei loro umori, delle loro paure e poi schiavi di questa alterazione che è di fatto il fine del  Happiness business:  non è certo un caso che proprio i titoli di coda siano accompagnati dalla canzone di Markus Binder che ha lo stesso titolo, se qualcuno avesse avuto ancora dei dubbi. Little joe è un demone sottile che si impossesserà del mondo o forse è solo una proiezione della paranoia che prende il  sopravvento?

La magia che il film esercita sullo spettatore è causata da questa stilizzazione estrema in grado di ridurre tutto alla misura: il movimento lento e raggelante dei corpi, l’immobilità, appena interrotta da fremiti imprevedibili, perturbante e insidiosa dei fiori, la musica che traccia un percorso armonico e di tanto in tanto spezza questa abulia con contenute variazioni metalliche e inquietanti, la recitazione spesso limitata alla semplice mimica facciale che trasforma gli attori in attonite maschere e gli elementi del set ridotti a una specie di struttura primitiva, come si diceva, dove tutto sembra galleggiare in una specie di vuoto che suggerisce la morte  e a lei conduce.