Un ritratto della borghesia papalina. ‘Sotto il radioso cammino di Dio’ di Giorgio Zanchini, ed. Marsilio

Un ritratto della borghesia papalina. ‘Sotto il radioso cammino di Dio’ di Giorgio Zanchini, ed. Marsilio

@ Loredana Pitino (10-04-2020)

 

Sotto il radioso cammino di Dio, scritto dal giornalista Giorgio Zanchini, voce nota agli ascoltatori di Radio tre, è un romanzo che parla di se stesso, un metaromanzo, che parte da uno spunto autobiografico – ce lo chiarisce direttamente lo stesso Zanchini nell’Epilogo – con una particolarissima struttura narrativa.  Citando Walter Siti, l’autore avvisa il lettore che si tratta di un autofiction, una ricostruzione autobiografica mascherata da un ludus narrativo che lo innesta direttamente in quella linea tutta novecentesca dell’anti-romanzo; una fabula infarcita di digressioni, interventi filosofici e storici, etici ed economici (la vita, la morte, la malattia, la storia, Dio), perfino gastronomici. Molte le citazioni colte presenti che arricchiscono la scrittura rendendola anche un saggio da consultare, un testo didascalico.

 Il libro è diviso in quattro sezioni, molto diverse l’una dall’altra, con personaggi collocati in  epoche differenti del Novecento.

Già dal Prologo, Zanchini spezza volutamente il patto narrativo che lega narratore e lettore, lo interrompe ancor prima che si possa instaurare perché, dopo una breve presentazione dei due protagonisti, l’autore ci mostra gli eventi narrati come suddivisi in scene, come se si trattasse di un copione teatrale, anzi di una sceneggiatura. Una vera sceneggiatura pensata per la trasposizione filmica per la quale vengono dati veri e propri suggerimenti di regia. I dialoghi, le posizioni, i gesti… dei personaggi non sono raccontati come eventi, motivi della narrazione, ma come potrebbero essere visti sul grande schermo, in una ipotesi di rappresentazione (come se un drone volasse su di loro e riprendesse dall’alto le  posizioni e i gesti),  che considera anche delle varianti, delle possibili altre soluzioni.

I protagonisti sono due cugini romani Matteo e Giulia, legati non solo dal vincolo di parentela ma anche eredi dei ricordi di famiglia, coi quali si confrontano mescolando le rispettive memorie.

Per trovare un’unica, condivisa verità, iniziano un’indagine sul loro prozio, personaggio celebre durante il fascismo, il padre gesuita Pietro Tacchi Venturi, nato nel 1861 e poi divenuto parte della Compagnia di Gesù e tramite tra il papato di Pio XI e Benito Mussolini, nonché padre confessore del duce.

Sulla figura e l’operato del potente sacerdote in famiglia i racconti e i giudizi erano  stati molti e discordanti: una sorta di protettore dei nipoti, attraverso le sue potenti relazioni politiche, ma anche un uomo scaltro, intrigante, “gesuita” nell’accezione meno nobile del termine, su di lui pende un terribile sospetto riguardante la sua posizione sulle leggi razziali e la persecuzione degli ebrei romani dal ’38 in poi.

Questa doppia identità, questo atroce sospetto spinge i due cugini a cercare la risposta sul vero ruolo svolto da padre Tacchi Venturi.

Per questo consultano uno storico, e da lui  ascoltano con grande interesse il frutto degli studi storiografici sul loro congiunto; dal resoconto fatto apprendono che si trattava di un antisemita, un cattolico reazionario, un uomo che cercò di conciliare, di “far marciare a braccetto i due poteri”, Chiesa e fascismo, non scontentando nessuno, per un fine superiore: ad maiorem Dei gloriam, in quanto gesuita, ma per uno scopo ancora più alto, per garantire sulla terra “Un mondo gerarchico e ordinato, sotto il radioso dominio di Dio” (da qui il titolo).

Giulia non vuole credere all’ipotesi di uno zio antisemita, si attacca disperatamente all’idea che abbia aiutato molti ebrei romani, facendoli fuggire, fornendo loro documenti falsi; Matteo, cinico, poco credente, disincantato, vede in Tacchi Venturi l’aspetto più terribile come un’onta che continua a macchiare anche loro, nipoti distanti nel tempo ma consanguinei. Lui sente di dover fare i conti con “il peso della loro eredità”. Matteo – lo dice apertamente nell’ultima sezione, La fuga – si sente invischiato in una tela di ragno, fatta di insegnamenti, parole, azioni, sguardi, frasi, attese e controazioni, che lo lega alla sua famiglia.

Le quattro sezioni del libro scorrono parallele sul filo di questa indagine arricchendosi delle ricostruzioni biografiche e familiari delle vicende di Giulia e Matteo, a partire dal racconto della guerra, la ritirata di Russia nelle lettere del Capitano, il nonno dei due ragazzi (nonno dello stesso Zanchini), che ne legge le lettere e le cartoline spedite alla moglie dal fronte, la vicenda, dolorosissima, della malattia (la terza sezione) e la morte del padre di Giulia;

Le quattro sezioni sono tenute insieme da un filo rosso, ce lo dice lo stesso Zanchini nell’epilogo: la domanda come si vive in una società post-cristiana? Matteo e Giulia si pongono questa domanda, loro che hanno vissuto sotto il peso insostenibile della croce, un peso sostenuto per millenni. La modernità può essere interpretata come un doloroso congedo dal cristianesimo. Due punti di contatto e di separazione nella saga familiare e storica sono il punto di partenza e di arrivo del romanzo, prozio e pronipote, uno vissuto all’inizio del Novecento e l’altro nato negli anni Settanta. In questo arco di tempo si snoda l’indagine narrativa di questo originalissimo romanzo.

Romanzo che ha un’ambientazione precisa: Roma,  ritratta in vari momenti della sua storia, nei momenti più bui del secolo scorso e della contemporaneità: la razzia degli ebrei romani del 16 ottobre del 1943, vicenda, nella quale anche il padre Tacchi Venturi giocò un ruolo ambiguo, il Gianicolo e la statua equestre di Garibaldi, il clima fosco durante la dominazione nazista, le partite di tennis al Circolo Aniene all’Acqua Acetosa, i corridoi deserti dell’Ospedale Santo Spirito di notte, il caotico traffico a raggiera di Piazza Mazzini, i baretti e i locali del centro, da Trastevere, al quartiere Prati.

Questa rappresentazione si arricchisce di un plurilinguismo flessibile, che si adatta ai momenti della narrazione e ai personaggi che si esprimono, ma anche di allegorie e simbologie per sottintendere ed evocare temi e motivi, ricordi e approfondimenti storici.

Ultima nota di merito: la copertina che riproduce la maschera di Mussolini, di Adolfo Wildt del 1924. Lo sguardo inquietante perché vuoto del duce, nel freddo marmo bianco sembra incombere sul lettore che apre il libro, come quello sguardo di Dio che i gesuiti insegnavano dominasse sulle sue creature.