Prima che faccia buio. ‘Le nostre anime di notte’ di Kent Haruf, NN Editore
@ Agata Motta (19-10-2019)
Esile come un giunco e sussurrato come una preghiera, Le nostre anime di notte, NN Editore, costituisce il consapevole testamento spirituale di Kent Haruf, scrittore americano giunto alla piena notorietà in età matura con la Trilogia della pianura, un trittico di romanzi (Canto della pianura, Crepuscolo e Benedizione in ordine di scrittura) ambientato nell’immaginaria cittadina di Holt, in Colorado, grazie ai quali ha ricevuto importanti riconoscimenti. Consapevole perché scritto quando la malattia aveva già imposto le sue leggi e i suoi ritmi senza lasciare troppi varchi aperti alla speranza, quindi non stupisce come in questa breve storia non ci sia spazio per indugi o digressioni, tutto è estremamente concentrato e denso, e anche le frequenti pause descrittive che avevano caratterizzato la Trilogia si riducono all’essenziale per far posto ai dialoghi, alla voce diretta dei personaggi che giunge senza filtri al lettore, liberata persino dalla gabbia grafica delle virgolette, perché non c’è più tempo per ciò che sta al di fuori dei contorni netti e ben delineati di vite ormai agli sgoccioli ma ancora in grado di sognare e di progettare.
Addie Moore e Louis Waters sono due vedovi riservati e discreti, settantenni come lo stesso Haruf mentre scrive la loro storia. Addie e Louis hanno accudito i loro rispettivi coniugi fino alla fine, hanno oltrepassato la soglia irta di insidie del lutto e hanno cresciuto i loro figli, ormai fisicamente lontani. Al cinema avranno i volti splendidamente invecchiati di Jane Fonda e Robert Redford nella trasposizione del 2017 di Ritesh Batra.
L’autore porge subito l’occasione narrativa, sorprendente e spiazzante, nell’incipit che immette in medias res senza alcun preambolo.
E poi ci fu il giorno in cui Addie Moore fece una telefonata a Louis Waters. Era una sera di maggio, appena prima che facesse buio.
Intanto non è possibile non soffermarsi su quella coppia iniziale di congiunzione e avverbio che danno la sensazione di una storia che continua, di un desiderio di riannodare fili sospesi e di riaprire il discorso mai chiuso sull’emblematica Holt, ventre sensibile e moralista della piccola provincia americana. Allo stesso modo non può sfuggire la caratterizzazione del tempo, quel buio della sera che avrà tanta parte nel resto della narrazione.
Alla telefonata, dunque, seguono immediatamente l’incontro tra i due e la schietta richiesta di lei.
Io mi sento sola. Penso che anche tu lo sia. Mi chiedevo se ti andrebbe di venire a dormire da me, la notte. E parlare.
Ecco. In queste brevi frasi c’è già tutto il libro, che a sua volta è già tutto nel titolo: l’incontro di due anime sole che si faranno compagnia tenendosi per mano al fine di attraversare insieme il buio della notte, quella macchia d’inchiostro che si espande ingoiando apprensioni e paure, quelle ore immobili in cui le attese si fanno interminabili. Lentamente abbiamo il tempo di conoscere un uomo e una donna danneggiati dalla vita come tanti, ma non per questo finiti. Entrambi si rivelano l’una all’altro senza clamore, si raccontano un passato sul quale non possono più intervenire, i loro matrimoni sbagliati ma attraversati fino in fondo, ognuno con i propri dolori e con i propri rimpianti raccontati sottovoce, giusto per condividerli con chi saprà ascoltare senza giudicare e senza promettere amore eterno. Parole appese al nero della notte e gesti che diventano man mano rituali possono compiere il miracolo tutto terreno e laico di un nuovo sentimento che, nonostante gli immancabili pettegolezzi e le ovvie malignità, non si cura dei taglienti e beffardi sguardi altrui, perché tanto a quell’età ci si può permettere il lusso di non lasciarsi graffiare dalla maldicenza, tanto non c’è più nulla perdere, nulla da rivendicare. Possono perfino tentare il sesso con ironia, senza ansia di prestazione, perché comunque non è da quello che scaturisce la loro intesa.
Sembrerebbe semplice come bere un bicchier d’acqua, ma la percezione nei rispettivi figli di una condotta imbarazzante, scandalosa e grottesca non tarda ad attecchire con conseguenze ineludibili. Proprio quei figli che raccolgono i cocci della loro sostanziale incapacità di amare e che annaspano alla ricerca di coordinate stabili cui aggrapparsi.
Come sempre nei romanzi di Haruf, ad un certo punto irrompe un personaggio destabilizzante in situazioni che appaiono assestate o talvolta stagnanti per rimettere tutto in discussione, per ristabilire limiti e tracciare nuovi confini. Qui è il nipote di Addie, Jamie, un bambino di appena sei anni consegnato alla nonna dal padre in crisi matrimoniale, a rimettere in moto la tranquilla routine notturna dei due vedovi. Jamie è un bambino ferito che trova nel tenero affetto della nonna e nell’amicizia di Louis, conquistata con piccole complicità fatte di guantoni da softball, cappellini e una simpatica cagnetta da accudire, l’equilibrio di cui ha bisogno. E pian piano acquistano spessore personaggi che apparivano inizialmente marginali come la vecchia Ruth (quasi un’eco della vecchia signora Stearns di Canto della pianura per la sua scomparsa nel momento di massima espansione come personaggio) che accetta i convegni notturni tra i due vicini con naturalezza e che dalla coppia riceverà affettuose e dignitose esequie.
Si va avanti, insomma, e il piccolo Jamie sembra aggiungere linfa vitale al rapporto sempre più solido tra i due vicini di letto, finché il figlio di Addie non impone la fine di quello che ritiene un ambiguo e vergognoso legame nel quale intravede lo squallido tentativo di Louis di spillare soldi alla madre.
Come andrà a finire non è importante, ciò che resta sono le piccole confidenze notturne, i dubbi e le paure sulla morte, il percorso a ritroso sulla vita trascorsa per rispolverare senza rancore le occasioni perdute (Louis avrebbe voluto fare il poeta, Addie l’insegnante) o per tornare su fatti cruciali (l’agonia della moglie di Louis, la morte della piccola Connie, primogenita di Addie) con una lucidità che in passato non sarebbe stata nemmeno proponibile.
Sotto certi aspetti sembra che Kent Haruf abbia scritto per tutta la vita lo stesso romanzo con diverse modulazioni. L’incanto dell’infanzia e il fascino della morte, la famiglia tradizionale che si sgretola e quella che si ricostituisce al di fuori delle convenzioni, la maldicenza e l’ipocrita perbenismo che infangano i sentimenti più puri sono alcuni dei leitmotiv più insistenti e certi personaggi cambiano nome e aspetto ma non funzione all’interno del “sistema romanzo”. Ne viene fuori un mondo solo apparentemente cristallizzato in cui far confluire l’attenzione ossessiva che l’autore riserva alla fase iniziale e a quella finale della vita. Racchiusa tra esse, una parentesi più o meno lunga di fatti, gioie, rimorsi, litigi, amicizie, amori, tradimenti, astio, passioni e la spina pungente di figli lontani, ribelli o morti. Una parentesi più o meno significativa e densa tra i grandiosi eventi del nascere e del morire.
Quella di Haruf è la scrittura fatta di cose e senza fronzoli tipica di tanta narrativa americana (stilisticamente sfugge un po’ a questa definizione Canto della pianura, che presenta un periodare più ampio e articolato per coerenza – come giustamente nota il traduttore Fabio Cremonesi – con le tematiche affrontate), sensazioni e riflessioni appartengono al lettore, perché l’autore non le formula, si affida semplicemente ai gesti, alle azioni, alle parole. Parole in genere scarne ed essenziali che in quest’ultimo romanzo invece si impongono, perché proprio nel dialogo tra i due protagonisti la scrittura trova il suo punto di forza.
Tutto questo non fa di Le nostre anime di notte un romanzo perfetto. In esso si avverte l’urgenza dell’autore di portarlo a termine, alcuni personaggi sono appena sbozzati e restano inconsistenti, come Holly, la figlia di Louis, la struttura è asimmetrica con capitoli ampi e distesi e altri accartocciati su se stessi come se l’autore avesse dovuto tornarvi su. E non è neanche lo scritto migliore. Tra tutti i suoi romanzi quello toccato dalla grazia è Benedizione, che infatti, per una scelta oculata dell’editore (sempre NN) è stato il primo ad essere pubblicato pur essendo l’ultimo della trilogia. In esso l’attesa della morte del vecchio Dad, accudito dalla moglie Mary e dalla figlia Lorraine, non si trasforma in avida ricerca di soddisfare i desideri irrealizzati o in straziante attesa imposta ai familiari, ma nella volontà precisa di mettere a fuoco tutto ciò che è stato veramente importante, gli sbagli soprattutto, quelli che hanno impresso una direzione diversa al proprio agire. Come avviene nella realtà, chi sa di essere ormai vicino alla fine non modifica quasi per niente la propria vita, si mantengono per quanto possibile le abitudini di prima, il prima improvvisamente dolce e caro che presto si dovrà abbandonare.
Alla Trilogia della pianura Haruf regala una citazione, ironica e struggente insieme, in un brevissimo capitoletto in cui i due protagonisti, sfogliando il giornale, sono attratti da una notizia.
Hai visto che danno uno spettacolo tratto dall’ultimo di quei libri sulla contea di Holt? Quello con il vecchio che sta morendo e il predicatore.
Come hanno fatto i primi due, suppongo possano fare anche questo, disse Louis.
Gli altri li hai visti?
Li ho visti. Ma non riesco proprio ad immaginare due vecchi allevatori che accolgono in casa loro una ragazza incinta.
Può succedere, disse lei. La gente può fare cose imprevedibili.
Non so, disse Louis. Si è inventato tutto [……….]
Potrebbe scrivere un libro su di noi. Ti piacerebbe?
Non mi va di finire in un libro, rispose Louis.
Vanità o negazione di quanto stava frattanto facendo? Riportare l’essenza e il calore dei dialoghi notturni con la moglie? Scrivere il bello di quella relazione serena che lo stava accompagnando al capitolo conclusivo della propria vita?
Le nostre anime di notte è allora il più intimo, il più sentito, il più autentico tra i suoi scritti. Quando si realizza che la morte non è più un concetto astratto ma un evento concreto e vicino si diventa forse più sinceri.