Con la recensione di Loredana Pitino iniziano i nostri consigli di lettura per il Natale 2019. Auguri!
‘Il sanguinaccio dell’Immacolata’ di Giuseppina Torregrossa, ed. Mondadori
@ Loredana Pitino (14-11-2019)
In Sicilia si mangia un dolce strano, selvaggio, ancestrale: u sanceli, un budino fatto col sangue del maiale appena macellato, condito con cioccolato a pezzi, cannella, frutta secca. Un dolce delle feste di Natale perché, una volta, il maiale si uccideva in inverno, una volta l’anno e si conservava per tutto l’anno.
Di questo dolce che lascia in bocca un sapore forte, ferroso e pungente, questo ossimoro della gastronomia siciliana, ci racconta Giuseppina Torregrossa nel suo ultimo romanzo, Il sanguinaccio dell’Immacolata, l’ultima indagine del vicequestore Marò Pajno, la “vicequestora” come ama definirsi lei.
Il romanzo si apre con l’omicidio di una pasticcera, Saveria, che nella mattina dell’Immacolata, a Palermo, si accinge a preparare il sanguinaccio, dolce ormai proibito dalle rigide regole igieniche che lei, sola nella città ad amare i sapori forti e le frattaglie di animali, ancora offre ai suoi concittadini.
Sull’omicidio deve investigare Marò Pajno, un personaggio che la Torregrossa ci ha fatto conoscere in altri romanzi d’inchiesta, tutti ambientati a Palermo (Panza e prisenza, Il basilico di Palazzo Galletti), una donna forte nel suo ruolo pubblico e fragilissima nella vita privata carica di conflitti irrisolti, amori finiti, una solitudine profonda e, qui per la prima volta, alle prese con una bulimia autolesionista.
Il tema di questo romanzo è molto caro alla scrittrice, un tema sempre, purtroppo, troppo attuale: il femminicidio.
L’omicidio appare al vicequestore subito come un efferato femminicidio con risvolti di mafia, dove tutti attorno a lei vogliono convincerla che si tratta di una rapina finita male. Marò Pajno ha un fiuto unico, reale, non metaforico, che orienta le sue indagini e la porta a capire la verità. La verità le sta sempre a cuore quando le vittime sono donne, lei si immedesima in loro per una naturale empatia che le permette di entrare nelle loro storie e viverle in prima persona.
L’intreccio si svolge secondo lo schema piuttosto tradizionale del romanzo poliziesco, che ricostruisce, sui passi della sua protagonista, il puzzle di una vicenda complessa che ha tessere sparse in varie direzioni, fino a portarci alla soluzione finale.
Ma la Torregrossa imprime a tutti i suoi romanzi una cifra inconfondibile. Nella sua narrazione, come per le strade e nelle case della Sicilia, al racconto si affianca la gastronomia. Il piacere, il gusto della vita si assapora in una fantasmagoria di sapori, profumi, essenze, sensualità di dolci e primi piatti, arancine (lei, palermitana li chiama così), sfincioni, caponate e cannoli. Tutti i suoi personaggi vivono immersi nella sensualità, i primi, in particolare, nell’erotismo spinto; una sensualità totale dove il tatto, l’olfatto, la vista e l’odorato sono radar dell’esistenza e catalizzatori della felicità.
Anche quando la scrittrice si è cimentata col romanzo storico (indimenticabile Manna e miele, ferro e fuoco), o col romanzo realistico-sociale (Cortile nostalgia), la cucina, il gusto, la ricerca accurata degli ingredienti, ha caratterizzato le storie raccontate e regalato al lettore un’esperienza sensoriale, oltre che letteraria, unica.
L’ambientazione è, ancora e sempre, nella sua Palermo, la città dove Giuseppina Torregrossa è nata, che ha lasciato per esercitare la sua professione di medico ginecologo a Roma, ma dove torna sempre con amore-odio. L’amore dato dalla nostalgia e l’odio dato dalla rabbia di chi vede il degrado e dalla trasformazione di tutte le nostre grandi città.
Insieme alla protagonista, il lettore cammina per le strade di Palermo, sul sellino del suo scooter che sfida i vicoli, il traffico, il freddo ed entra nelle piazzette della Kalsa, fra le bancarelle del mercato del Capo, fra le vetrine del Cassaro e i profumi delle friggitorie e dei pentoloni che sfornano panelle e “meusa”.
Come Vivaldi, la Torregrossa sa descrivere le quattro stagioni e i cambiamenti di colori, odori e umori della sua Palermo. Se nel Basilico di Palazzo Galletti la scena era ambientata in un’estate afosa e appiccicosa, qui il freddo di dicembre gela le ossa di Marò e del lettore.
La lingua della scrittrice ha la musicalità da rondò del palermitano illustre, quello dei Poeti siciliani. Una lingua che parla d’amore e trasuda eros anche se parla di sangue, di storia, di cucina, infarcita di motti e proverbi veicolo di saggezza popolare (meglio diri chi sacciu che chi sapia). Una lingua che suona come una nenia antica, un canto di Rosa Balestrieri e che profuma anche. Profuma di cannella e di arancia, di fritto e di carni cotte lentamente, di zucchero bruciato e di caponata con l’agrodolce. Come la vita.