Amarcord Cuba: Gregorio Fuentes e l’americano buono

Amarcord Cuba: Gregorio Fuentes e l’americano buono

di Agata Motta, agosto 1997 – agosto 2019

Gregorio Fuentes

Su di lui non è come crede la gente”. Il “lui” in questione è Ernest Hemingway e a pronunciare più volte queste parole è un vecchio dagli occhi azzurri e opachi che sembra aver conosciuto tutto della vita: le insidie e le gioie, le sconfitte e le vittorie.

Gregorio Fuentes, il mitico comandante del Pilar, la barca sulla quale Hemingway si allontanava per giorni per condurre le sue battute di pesca, ha un secolo di immagini e di ricordi in quegli occhi stanchi, ha compiuto cento anni lo scorso giugno e ci tiene a precisare, alzando l’indice della mano destra, che cammina già nei centouno con l’orgoglio che contraddistingue chi indossa con disinvoltura una sana longevità. Don Gregorio vive ormai a Cojimar, il piccolo borgo di pescatori dove Hemingway teneva ormeggiato il suo Pilar. Gregorio Fuentes ha viaggiato con “l’americano buono” dall’inizio della seconda guerra mondiale al 1960, un anno prima del suicidio dello scrittore. Don Gregorio precisa di non avergli insegnato niente sulle attività marittime; Hemingway era già un ottimo pescatore, ma a riemergere con insistenza tra le parole del vecchio sono, più che i piccoli episodi di vita in comune, i ricordi grati di un’amicizia sincera, fatta di complicità e comprensione.

Per chiunque voglia curiosare nella lunghissima parentesi cubana (più di vent’anni) del Nobel americano è d’obbligo una visita a Finca la Vigìa, la bellissima villa adagiata sulla collina di San Francisco di Paula a 15 chilometri da L’Avana che venne acquistata dallo scrittore nel 1940 e che fu abitata fino all’anno della definitiva partenza per gli Stati Uniti. Nella villa il tempo sembra essersi fermato, tutto è conservato esattamente come nel giorno in cui è stata lasciata: le numerosissime librerie che arredano le pareti bianche, gli enormi trofei di caccia, le delicate porcellane, la macchina da scrivere posta in alto per consentire allo scrittore di utilizzarla all’impiedi, senza piegare il ginocchio ferito durante la guerra. Accanto alla grande piscina quadrata fa bella mostra di sé l’elegante Pilar e la custode, mostrandolo con compiacimento, ci tiene a spettegolare sulle singolari abitudini di quell’americano dalla corporatura massiccia, come quella di bere moltissimo – almeno sedici mojiti (cocktail a base di rum, limone e foglie di menta) e di sollazzarsi con molte donne senza troppo pudore, tanto da ospitare nella dépendance della villa, sotto gli occhi della seconda moglie, una giovanissima amante italiana.

E proprio a queste voci fa riferimento Don Gregorio quando ripete ostinato che “non è come crede la gente”, definisce storielle queste dicerie e precisa che il señor Hemingway beveva solo due whisky al giorno, che era un uomo molto serio legato alla moglie e che scriveva per ore mentre lui guidava la nave. E’ vero, ospitava molta gente sul Pilar, ma soltanto amici.

Quale sia la verità non è dato saperlo, potrebbero anche essere aspetti contraddittori di una stessa personalità, ma sarebbe molto bello credere a quest’uomo che vive nel costante ricordo dell’amico che ha reso celebre anche lui, sebbene di riflesso.

Tutto Cojimar sembra crogiolarsi nel ricordo imbalsamato dell’americano buono in quei decenni in cui il bloqueo, l’embargo, ha raggelato i rapporti tra cubani e yankees, rendendolo difficile e ambiguo, in questa fase storica in cui la rivoluzione di Fidel Castro ha progressivamente esacerbato uno scontro reso indispensabile, almeno secondo quanto sostenuto dai fedelissimi del regime (ormai pochi per la verità) tra cui si colloca lo stesso Fuentes, che apprezza l’opera di Fidel anche nel recente provvedimento della doppia economia monetaria, quella dei pesos e dei dollari.

A Cojimar, dunque, un bianco busto di Hemingway, coperto da un’ariosa architettura circolare, campeggia in una piazzetta vicino alla grande torre ed entrando nel ristorante La Terrazza tutto parla di lui, dalle gigantografie appese alle pareti ai dépliant turistici. Sicuramente Fuentes ha contribuito con le sue testimonianze alla costruzione del mito. Era generoso – dice il vecchio comandante che ha ereditato la barca per poi cederla al governo cubano – sempre pronto a dare qualcosa ai bisognosi, sempre pronto a trattare con tutti senza erigere barriere sociali o culturali, anzi era un americano che riteneva i negri esseri umani – e nella voce c’è quasi stupore pur essendo, da buon cubano d’adozione (è nato nelle Canarie), completamente estraneo al problema razziale. Tace e tira un’altra lunga boccata dal suo suo sigaro popular e dice di fumarne persino dieci al giorno, naturalmente quando può, cioè quando qualcuno glieli regala, poi serio rievoca i porti da lui toccati e precisa di essere stato più volte in Italia e di avere apprezzato la bellezza delle donne.

Non fu Gregorio Fuentes, come qualcuno erroneamente sostiene, ad ispirare il romanzo breve Il vecchio e il mare di Hemingway, ma guardando il volto rugoso e rassegnato, le dita che si posano lievi sul sigaro, lo sguardo profondo dell’uomo di mare, non si può fare a meno di restare vittime di questa suggestione. Il vecchio Santiago, protagonista del romanzo, che dopo 84 giorni di pesca sfortunata riesce a catturare la sua enorme preda, poi pian piano divorata dagli squali, il vecchio che lotta per dimostrare a se stesso di essere vivo, si riflette in Don Gregorio come l’immagine di uno specchio. E non importa più sapere che quel vecchio, quello del romanzo, in realtà fu incontrato in alto mare da entrambi, lo scrittore il capitano, in compagnia di un ragazzino e alle prese con un pesce troppo grande, non importa sapere che quel vecchio mandò al diavolo i due uomini che gli offrivano aiuto prima di diventare una piccola macchia di colore inghiottita dall’orizzonte.

Don Gregorio è il vecchio, Cojimar è il mare. L’americano buono vivrà ancora tra le pieghe di un volto secolare e tra rocce chiare battute da flutti eternamente turchini.

Nota agosto 2019

Non tornerò mai più a Cuba, questa è una certezza. Ho avuto la fortuna di visitarla al di fuori degli intruppamenti da villaggio turistico nella fase di trapasso dal granitico sistema economico-politico comunista a quella di apertura verso le lusinghe del capitalismo occidentale.

Dai racconti dei turisti del post Fidel capisco che quella Cuba non esiste più.

Don Gregorio Fuentes è morto a 104 anni e si è portato dietro la magia dell’americano buono e quell’atmosfera sospesa tra tradizione e fame di novità, quegli sguardi disorientati e annaspanti tra ammirazione e invidia, riprovazione e sufficienza che appartenevano a giovani e ad adulti. I bruschi acquazzoni che rovesciavano in pochi minuti tutta la rabbia di Giove pluvio e il profumo sprigionato dal mango maturo offerto come dono di ringraziamento dalle contadine per un passaggio in macchina magari ci saranno ancora, ma non più sotto lo sguardo fiero degli anziani seduti sulla soglia a riposare o dei bambini chiassosi che si attaccavano ai turisti per imparare la lingua e per procacciare, sin dalle prime ore del mattino, langostinos y camarones per il pranzo o per la cena nelle case particular, abitazioni private che si improvvisavano luoghi di ristorazione per rimpolpare le finanze domestiche.

Adesso abbondano i ristoranti e i pub, luoghi in cui il turista può riconoscere i propri luoghi e non soffrire di nostalgia. Forse saranno reperti museali le case de la trova, splendidi patii o cortili aperti ricchi di vegetazione in cui i musicisti si esibivano con pezzi di repertorio già noti – Hasta siempre comandante! Besame mucho e Guantanamera – o che lo sarebbero diventati grazie ad interpreti eccezionali quali Compay Segundo e Omara Portuondo. E si finiva per sentire il solletico sotto i piedi, bisognava alzarsi, lasciare il mojito o il Cuba libre sul tavolino e ballare, perché in quella Cuba si ballava ovunque, anche per strada e pure i vecchi mantenevano un tale eccesso di sensualità felina nelle movenze che quasi si provava vergogna a pensarlo.

Adesso proliferano discoteche e luoghi in cui le ragazze si agitano sui cubi spogliandosi per la gioia degli occhi di chi le guarda con l’ovvia appendice del sesso venduto e retribuito, magari preferibilmente in dollari. Certo, le ragazze (anche ragazzi, per la verità) che ambivano ai jeans e ad una cena pagata in cambio di una gioiosa compagnia c’erano anche nel ’97 ma chissà perché – forse perché tutto era stemperato e diluito in altri elementi pseudoromantici – si creava l’illusione che fosse meno squallido e triste.

Adesso la piazza di L’Avana è prodiga di locali in cui bere e mangiare, di ombrelloni aperti sui tavoli a porgere confortevole ombra ai turisti di turno. Nulla di strano o di diverso rispetto a tanti altri posti del mondo.

Tra i valori del comunismo ostinatamente mantenuto – quello che garantiva cultura e sanità a tutti ma negava il lusso e la globalizzazione alla maggior parte – e la brama di apertura al capitalismo visto come modello da desiderare, poteva capitare di salire a bordo di vecchie automobili americane con improvvisati tassisti e di scorgere sul cruscotto uno stetoscopio arrotolato. “Non basta lo stipendio – mi aveva spiegato l’uomo al volante quasi mortificato – così arrotondiamo… lo facciamo in tanti”. Ma succedeva spesso, molto spesso, di parlare anche con giovani i cui occhi si accendevano ancora di entusiasmo per il Che, un volto bellissimo sui muri e sulle magliette sinonimo di lotta e libertà e di scorgere negli occhi dei più vecchi un’assorta adorazione per il vecchio Fidel e una pena a stento trattenuta per il lento rotolare sulla china della morte imminente dell’esperienza totalizzante e fideistica della revolution.

Non so fino a che punto Raul sia stato capace di raccogliere quell’eredità scomoda, non so quanto sia saggio che il rubicondo Trump riesumi l’embargo ed impedisca alle navi da crociera che salpano dalle coste americane di attraccare su quelle cubane.

Mi auguro che anche adesso gli uomini giochino ancora a domino sulle sedie impagliate del centro di Santiago, che i ragazzini tirino calci a palloni di fortuna sul campo sterrato di Baracoa, che le giovani donne si pettinino davanti la soglia di casa nel cuore di Holguin, che qualcuno cucini pesce sierra alla griglia nelle baracche di Cayo Granma e altri propongano aragoste a buon mercato da consumare nel tinello della propria casa, che giovani snelli scalino il fusto di una palma per raccogliere cocco da cui estrarre il latte da vendere sulla spiaggia.

Puro sentimentalismo, condivido, ma Cuba voglio conservarla così: il sigaro di Don Gregorio, il mare azzurrissimo, le zanzare assassine di certe spiagge meravigliose, il succo giallastro del mango che cola tra le dita, le variopinte casette coloniali, i murales con il volto di Che Guevara, la voglia di vita che esplode tra le crepe di palazzi fatiscenti, i teatri frequentati da chiunque, i giornali sgualciti perché letti, il profumo dolciastro delle maripose, pelli scure e pelli chiare mescolate sui camion dai cassoni aperti adibiti a trasporto pubblico strabordanti di gente disposta a pestarsi i piedi con un sorriso pur di tirarti a bordo.

Fotogrammi di un tempo che fu.