‘Il primo re’ di Matteo Rovere: dalla ferocia all’eponimia di Roma

‘Il primo re’ di Matteo Rovere: dalla ferocia all’eponimia di Roma

In una valle due pastori, Romolo e Remo, alle prese con il loro gregge, vengono travolti da un’esondazione turbolenta del Tevere. I due ragazzi cercano in ogni modo di sopravvivere, continui sono i momenti in cui si aiutano a vicenda nel pericolo, finché entrambi, quando le acque del fiume sono infine rientrate, si ritrovano tramortiti, distesi a terra col bestiame morto. I giovani vengono caricati su un carro insieme ad altri uomini e trasportati nel villaggio di Alba Longa. Lì sono costretti a un duello, chi ne esce sconfitto, dopo la benedizione da parte della vestale, sacerdotessa e detentrice della custodia del fuoco della divinità, verrà arso vivo. Quando per il duello viene scelto Romolo, Remo si propone di sfidarlo, vuole evitare la sua morte. I due si scontrano, Romolo simula la morte, ma al momento della benedizione col sangue si alza e blocca la vestale minacciando di ucciderla, un grandissimo sacrilegio per le civiltà antiche. Si scatena una rivolta, i due fratelli riescono a liberare gli altri compagni di prigionia e a sconfiggere i guerrieri di Alba. Durante la lotta col nemico, Romolo viene ferito, Remo lo salva e lo aiuta a fuggire, ma il fratello vuole che venga condotta con loro anche la sacerdotessa col fuoco sacro.

I fuggitivi, fin da subito, avvertono la presenza di una sorte avversa per le loro colpe. Poiché toccato dal sangue e dalla vestale, Romolo si incolpa di essere un empio contaminatore di cui liberarsi, anche perché fortemente indebolito per la ferita e perciò incapace di proseguire la marcia. Remo lo porta legato a sé e sfida chiunque, punendolo con la morte, voglia tentare di uccidere il fratello.

Durante una delle pause dalla marcia, Romolo, temendo la morte e affamato, chiede del cibo al fratello. Remo lo affida alla vestale per tenerlo lontano dalla violenza altrui. Una caccia sacrale, nella visione si scorge una narrazione epica, con l’uccisione del cervo, portato per nutrire il fratello e gli altri compagni. Da quel momento Remo si mette a capo del gruppo, definendosi re, e li incita a conquistare il loro territorio. Si mettono in marcia, nel bosco avviene uno scontro con dei cavalieri di un villaggio limitrofo, cruento, confuso, ma che porta il gruppo alla vittoria e tutti insieme si recano presso l’abitato per insediarsi.

Quando di sera le donne del posto svolgono i riti sacrali per la morte dei caduti, durante il sacrificio di un agnello, la vestale, nelle vesti di aruspice, deve interpretare le viscere per predire il futuro e dichiara che ci sarà prosperità per la popolazione, ma inizia a piangere e essere reticente quando deve esternare la cattiva sorte. Dopo varie insistenze svela il terribile presagio: uno dei due fratelli ucciderà l’altro perché ci sia un solo re. Tutti gli uomini e le donne esortano Remo a uccidere Romolo, ancora debole, che riposa nella capanna. Remo si rifiuta di dar seguito alla volontà della divinità, inveendo contro la vestale e contro l’anziano del villaggio che accorre in difesa della donna in nome dell’inviolabilità della sacerdotessa. L’anziano viene ucciso, la sacerdotessa abbandonata nel bosco e legata ad un albero. Remo, considerandosi re, si eleva lui stesso a divinità perché la sorte è determinata dalle sue azioni e l’oracolo è solo una finzione per causare una discordia col fratello. Ritornato nel villaggio, brucia le capanne, distrugge gli oggetti per i riti, nonostante suo fratello, che si offre come vittima sacrificale della sorte divina, lo esorti a ricondurre nel villaggio la vestale per custodire il fuoco sacro.

Il giorno successivo Remo si reca fuori dal villaggio per cacciare con gli altri guerrieri, mentre Romolo esce dalla sua tenda e vede le donne che rimettono in piedi ogni cosa devastata la sera precedente. Il giovane nella confusione scorge il fuoco sacro spento e prova a riaccenderlo con grande stima da parte del consesso per il gesto, al punto da nominarlo capo religioso e lui, a sua volta, nomina una giovane come vestale, per tenere acceso il fuoco per trent’anni. Romolo con le donne e i giovani del villaggio si allontana per raggiungere gli uomini. Giungono i cavalieri di Alba con cui vi è uno scontro che si conclude con la vittoria per il gruppo guidato da Remo. In quel momento, a causa della volontà da parte delle donne di seppellire i morti della battaglia, scoppia una lite tra i due fratelli, Remo vuole impedire tale pratica. Romolo allontana il fratello, impedendogli di oltrepassare il confine delimitato dal fuoco sacro. Tra i due avviene lo scontro, come in un tradizionale èpos classico, avvincente, fondamentale per la sorte, sembra prevalere Remo, ma alla fine soccombe per mezzo della spada di Romolo: si è compiuto il volere degli dei. Adesso è Romolo il re che conduce il popolo oltre il Tevere per fondare la nuova città dove verrà seppellito Remo. Così nascerà Roma, con primo re Romolo che secondo la tradizione classica è l’eponimo della città, colui che dà il nome a quello che, da un piccolo villaggio, diventerà nel corso dei secoli e mutando ordinamento l’impero noto a tutti, ancora oggi studiato.

Romolo, secondo la tradizione, sarebbe il primo re che istituisce il primitivo ordinamento romano, ma è anche colui che istituisce i culti religiosi. Il suo senso religioso viene delineato fin dai primi attimi della pellicola. La costruzione della vicenda viene basata sull’antinomia fra la diversa percezione del volere divino da parte dei due fratelli: Romolo si attiene al volere del dio, mentre suo fratello, Remo dopo un iniziale timore, ricusa la figura della divinità fino a elevarsi lui stesso a entità divina. La hýbris (ὕβϱις, tracotanza) di Remo è punita, il suo voler sopraffare gli dei, il suo sostituirsi ad essi e la sua convinzione di poter essere totale artefice del destino viene meno perché l’oracolo, seppur incomprensibile, deve compiersi. Il suo sangue è necessario per la futura città di Roma. L’uccisione da parte di Romolo è anche un modo per riportare all’equilibrio la condizione umana, a differenza della divinizzazione dell’uomo che voleva attuare Remo, perdendo il controllo e imponendo il potere con la prepotenza.

Ricorrente nella pellicola lo sguardo: teso e deciso quello di Remo, posato e più riflessivo quello di Romolo, ma ancor più interessante è la vista sfocata di quest’ultimo quando si tenta di ucciderlo, come se fosse tra la vita e la morte. In generale la vista nel mondo classico è considerato il senso legato all’esistenza, ricorrenti nei poemi classici espressioni come finché vedrò la luce e simili per indicare la vita, la sua durata ecc.

La lingua adoperata è il protolatino, cosa che rende il film un unicum, nonché fortemente realistico, o meglio contestualizzato. La lingua, madre da cui nacque la lingua latina è stata ricostruita per i dialoghi con l’aiuto di linguisti e semiologi che hanno tratto soluzioni anche dall’idioma indoeuropeo. Per l’ambientazione, grande aiuto per la produzione è stato l’ausilio degli archeologi e dei reperti per ottenere una resa storicamente attendibile delle ambientazioni come le capanne con pali di legno nelle buche del suolo, pietre tufacee e coperture di paglia. Poiché il mito, per essere tale, è determinato da diverse varianti atte ad accentuare o sminuire certi aspetti, ma col denominatore comune di esaltare la genesi di Roma, non può essere filologicamente accurato date le variazioni in materia, ma si offre una ricostruzione attendibile della realtà storica.

Nel complesso è una pellicola innovativa, può far scuola a un filone cinematografico in cui le vicende storiche vengano narrate senza eccessi, senza aggiungere elementi fantasiosi perché la materia su cui plasmare la narrazione la offre la storia stessa.  Suggestiva, nonché idonea al contesto, la scelta di non adoperare luce artificiale, ma solo quella naturale che permette una resa della fotografia in cui immedesimarsi, immergersi in quel mondo primitivo.  Ineccepibili le interpretazioni di Alessandro Borghi (Remo) e Alessio Lapice (Romolo), l’uno per aver reso in pieno l’immediatezza e l’asprezza del personaggio, l’altro per l’acume, entrambi per aver accettato la sfida di recitare in una lingua lontana dalle proprie strutture linguistiche e non più in uso.