Ambiguità del riflesso. Due romanzi di Andrea Dei Castaldi, ed. Barta
Gli autori che si scoprono per caso, al di fuori dei grandi circuiti pubblicitari, talvolta possono sorprendere piacevolmente e spingerci magari a tornare sullo stesso editore che ha voluto scommettere su quel nome. Andrea Dei Castaldi è tra questi. Dei suoi due romanzi, Finistère e La cesura, entrambi editi dalla casa editrice toscana Barta con sobrie e raffinate copertine, colpisce il tentativo, portato a termine attraverso percorsi tortuosi e sofferti, di arrivare al nocciolo dei grandi misteri dell’anima, di indagare sulle ragioni di malesseri interiori indotti da eventi traumatici esterni – la morte del fratello gemello nel primo e il trasferimento delle spoglie di un padre sconosciuto nel secondo – da colpe vere o presunte, da oscillazioni affettive che possono determinare grandi passioni e intermittenti solitudini.
Finistère è l’ambizioso romanzo d’esordio di Dei Castaldi, racchiuso in una cornice narrativa di ambientazione settecentesca che fornisce la chiave interpretativa di una storia contemporanea in cui Eros e Thanatos governano i tanti personaggi e si presentano più che come pulsioni da governare come forze da contrastare. Il bisogno intimo di chiarezza del giovane Giona si trasforma nell’inseguimento fisico dell’ex fidanzata del defunto fratello, girovaga in cerca di espiazione e di guarigione, correttamente ritenuta depositaria di verità non rivelate, e in un coinvolgimento sentimentale volto all’impossibile identificazione con la parte morta di se stesso. Un’eclissi solare nella ventosa punta estrema della Bretagna – ognuno possiede una propria personalissima finis terrae intesa come limite invalicabile e confine dell’anima – e, sotto il grande cono d’ombra della stella offuscata, una bambina precocemente adulta e dalla fantasia vorticosa scioglie inconsapevolmente il rebus.
E questo avviene proprio quando Giona si accorge che di quella soluzione avrebbe potuto anche fare a meno, che non ha avuto importanza l’approdo ma il viaggio in quanto tale, l’attraversamento di un dolore che bisognava bere e respirare perché potesse donare il beneficio della cicatrizzazione. La vertigine che risucchia verso l’abisso, fisico ed esistenziale, è spazzata via dal vento implacabile e da uno sguardo che è il riconoscimento di un identico dolore. Il ritorno alla normalità, ovviamente non quella anteriore alla tragedia, trova tutti i personaggi diversi ma finalmente di nuovo padroni dei propri eventuali sbagli e delle proprie scelte. Se nei momenti di grande crisi, quei momenti in cui le passioni tumultuose obnubilano la capacità di razionalizzare e soprattutto di attendere, ci si potesse vedere proiettati nel futuro, con il grande vantaggio del tempo ormai trascorso, stregone e guaritore, forse non si imboccherebbero le vie che portano alla sciagura. Una morale che può assomigliare ad un luogo comune ma che possiede invece la forza di una dirompente saggezza.
Frutto di una lunga gestazione, durante la quale l’autore rielabora e definisce un lungo racconto del periodo universitario, il romanzo appare frammentario e risente di una certa discontinuità di tempra narrativa. I tanti intriganti brandelli di storie parallele che si abbarbicano su quella di Giona talvolta sembrano inseriti di peso, giusto perché sono belli da raccontare. Il romanzo comunque avvince e tiene in bilico il lettore che trova infine conferma alle congetture scaturite dai tanti indizi disseminati nelle pagine.
Ne La cesura troviamo invece una scrittura matura e stilisticamente compatta. Il protagonista, Leo, è stato un promotore finanziario che ha goduto di una privilegiata condizione economica alla quale è arrivato senza particolari scrupoli, ma lo conosciamo in un presente in cui è pesantemente minacciato da una crisi incalzante. Tornato, dopo una lunga assenza nei luoghi del passato, riprende i contatti con le persone dell’infanzia, con quelle che credeva dimenticate e con quelle di cui ha conservato ricordi vivi e preziosi. Una strana lettera lo coinvolge, suo malgrado, in un fastidioso intoppo burocratico che comporta la necessaria risoluzione di un mistero sepolto nella memoria compromessa della madre. Il padre, Ernesto Cacciavento, e un altrettanto sconosciuto individuo che porta il nome di Andrea Balla, sono morti insieme trent’anni prima folgorati da un fulmine (almeno così pare) e insieme sono stati sepolti. Chi è Andrea Balla e perché gli è stato concesso il riposo eterno accanto al padre? La modalità della loro morte ha il vago sentore di una punizione divina o di una irriverente beffa del destino. Pian piano Leo è indotto ad un’imprevista esplorazione di sé, alla scoperta di aspetti caratteriali sconosciuti o messi a tacere e di una vulnerabilità affettiva che credeva di non possedere o comunque di poter dominare.
La riappropriazione delle proprie origini e delle proprie radici genetiche porta sempre uno scombussolamento interiore ed è la strada maestra per una revisione che non può esimersi dal divenire messa in discussione delle certezze acquisite. Lo specchio impietoso sul quale si sporge a guardare sembra capovolgere l’immagine riflessa rendendola ambigua e non troppo rassicurante. Così, se da una parte ferisce chi da sempre lo ha amato ed aspettato o chi ripone fiducia nelle sue parole e nelle sue azioni, dall’altro subisce il fascino magnetico di una donna che forse potrebbe aprirgli le porte al sentimento vero. Come nel precedente romanzo è lo spostamento fisico ad innescare il processo di revisione della propria vita, il distacco da condizioni stagnanti che compromettono l’istinto di autoconservazione. Dev’esserci un motivo se avviene qualcosa e in questa ricerca di senso devono essere indirizzati i passi verso un nuovo inizio. Risultano perfettamente tratteggiati e persino necessari gli altri personaggi: Ignazio, il gigante buono consumato dal dolore per la mancata paternità, la grigia Costanza, spenta e avvilita da un sentimento amoroso destinato alla frustrazione, Roland, il tassista dalle magiche intuizioni, Alma, la madre dalla memoria cancellata da un incidente stradale, Arezu, la persiana dalla pelle color sabbia, il grasso e azzimato Covacich preoccupato a difendere l’efficienza del suo lavoro cimiteriale. Se è vero che si può vivere senza essere felici, è altrettanto vero che non bisogna lasciarsi sfuggire la possibilità di esserlo senza compiere neanche un tentativo in quella direzione.
Tutto torna in questo romanzo ben congegnato, scritto con grande cura lessicale e con uno sguardo garbato e assorto.
In entrambi i testi Andrea Dei Castaldi manifesta un’attenzione costante e quasi ossessiva per gli ambienti e i paesaggi. I personaggi che vi agiscono ne sono fortemente segnati sul piano emotivo, ne colgono echi e vibrazioni e non potrebbe essere diversamente per un autore che vive in un borgo trevigiano amandone ogni piega e anfratto. Pare di sentire il rumore dei passi sulla terra compatta, il fruscio delle foglie, i gridi dei gabbiani, le folate di vento, l’urlo rauco della tempesta e di vedere le chiome logore degli alberi e il colore opaco del cielo. La Bretagna e Trieste si impongono come luoghi lontani dai romanticismi da cartolina e si offrono inquiete, misteriose e vibranti.
Con curiosità e impazienza si aspetta l’appuntamento con il prossimo libro che non dovrebbe essere lontano.