Il Mito (nostro contemporaneo) di Y. Lanthimos, le collegiali efferate di S. Coppola, la Drinkwater Road e molto altro…

GIORNALE DI BORDO DELLA STAGIONE CINEMATOGRAFICA 2017-18

di Lucia Tempestini & Sergio Cervini

con la collaborazione di Anna Di Mauro, Simona Almerini, Giuseppe Condorelli e Sauro Borelli 

Nicole Kidman in ‘The Killing of a sacred deer’

Quel che resta dell’anno: il Mito (nostro contemporaneo) di Y. Lanthimos, le collegiali efferate di S. Coppola, la Drinkwater Road avvolta nella nebbia e molto altro…

Cominciamo dalle due grandi anomalie della stagione, aggregati di corpi luminosi dal movimento irregolare, opere inclassificabili, monadi fascinatorie, ovvero Manifesto di Julian Rosefield e Visages, Villages di Agnès Varda e JR. Se del secondo colpisce l’umanesimo gentile e malinconico, il primo ustiona la mente con il suo sarcasmo nichilista, deliberatamente provocatorio.

Cate Blanchett in “Manifesto”

Considerata la complessità del progetto da cui trae origine Manifesto, opera che segna un modo diverso di fare cinema e che sarebbe riduttivo, addirittura offensivo, definire “film”,  si rimane stupiti dalla grazia – a tratti, dal divertimento – che riescono a raggiungere e comunicare Julian Rosefeldt e Cate Blanchett (coautrice a tutti gli effetti, visto che senza la potenza della sua arte, l’impeto shakespeariano, la sottigliezza di indagine che dispiega nel dare forma ai vari caratteri, l’esperimento probabilmente sarebbe fallito).

Non c’è traccia di psicologismo nelle sue interpretazioni; Cate Blanchett letteralmente diventa una situazione, un sillogismo ellittico, un topos capace di rappresentare in pochi minuti una tipologia artistica, sociale, umana. E’, crediamo, l’unica attrice epica del nostro tempo. Epica e spietata nel sezionare le parole d’ordine degli innumerevoli manifesti artistici che si sono avvicendati nel Novecento, come nel mostrare con asciuttezza (talvolta con un controllatissimo dolore) la deriva atona che hanno progressivamente subito dignità e identità umane negli ultimi decenni.

Manifesto nasce nel 2015 in Australia come videoinstallazione composta da 13 piccoli film proiettati su altrettanti schermi, e successivamente esposta, tra il 2016 e il 2017, all’Hamburger Bahnhof Museum fur Gegenwart di Berlino e al Park Avenue Armony di New York. Grazie a Cate Blanchett l’idea di Rosefeldt ha assunto una compiutezza definitiva, diventando un film che, dopo il successo clamoroso della “prima” al Sundance Festival di quest’anno, sarà distribuito in Italia il prossimo autunno per I Wonder Pictures.

Rosefeldt sceglie spesso lente panoramiche dall’alto e riprese frontali. Nel primo caso per mostrare con maggiore efficacia la desolazione e la dismissione di intere aree periferiche delle città (in particolare Berlino), per farci sentire parte di quell’abbandono irredimibile, dell’incuria post-capitalista il cui vivissimo cadavere putrefacendosi contamina il globo intero. Dopo aver millantato per due secoli il potere di cambiare le sorti del mondo e delle comunità che lo abitano, dopo aver magnificato il feticcio del progresso e, partendo dalla Rivoluzione Industriale, nutrito il proprio organismo vorace e ipertrofico con la morte per lavoro e denutrizione di donne e bambini, dopo aver distrutto vaste zone di territorio con fabbriche inquinanti e quartieri dormitorio giustificando tutto con l’espansione del benessere di  massa, se n’è andato. Semplicemente il Capitale se n’è andato, avendo scoperto che le speculazioni finanziarie sono immensamente più proficue della costruzione di oggetti. Si è smaterializzato, portando alla proliferazione degenerativa, entropica, tutto ciò che aveva edificato, e il materiale umano che a questo fine era stato illuso e reclutato.

Nel secondo caso, per lasciare Cate Blanchett libera di sviluppare la sua caustica notomia mimetica. Risulta impressionante e indimenticabile il suo burbero, pencolante homeless, piagato e barbuto, mentre si aggira provocatorio e trasognato fra le rovine della modernità. Inveisce rauco contro borghesi e meschini, ruggendo in un megafono il Manifesto del Partito Comunista.

Ugualmente straordinaria l’operaia catatonica, talmente estranea a se stessa da non curarsi neppure dell’igiene personale, che vaga sciatta e ciecamente vorace in una cucina caotica e invasa da avanzi, si presume maleodoranti, d’ogni natura, forma e colore. Muove giorno dopo giorno l’artiglio d’acciaio di una gru che sposta giganteschi ammassi di immondizia esalanti polveri e vapori venefici, mentre la voce fuori campo assembla i proclami di luminosa isteria edificatrice degli architetti à la page.

Proprio la futilità e rigidità del postulato teorico-estetico, animato spesso da ribellismo fine a se stesso, sul quale si basano quasi tutti i movimenti artistici del Novecento, è il bersaglio dei quadri più implacabilmente sulfurei di Manifesto. La parola nothing e l’invettiva contro ciò che formava il mondo di prima sono i  cardini sui quali ruotano sistemi teorici anche molto complessi, di frequente sprezzanti, sempre aggressivi e competitivi. Bisogna bruciare, azzerare, distruggere, polverizzare, oppure bamboleggiare rivolgendo all’arte una preghiera affinché sia colorata e insignificante. Invocare una forma di danza che contrasti la frivolezza e nello stesso tempo ideare un balletto che della ridicola futilità è l’apoteosi. Dileggiare il Passato e insieme teorizzare l’assenza di Futuro (il No-Future dei punk), celebrare il funerale dadaista alla ragione e alla logica (irresistibile la vedova in gramaglie della Blanchett).

Geniale e articolata la disamina dell’arte concettuale tutta giocata sopra le righe, fra comunicazione di massa e iperfinzione televisiva. In questo episodio la volitiva e laccatissima conduttrice di un network intervista (sull’arte concettuale, appunto) un’inviata esterna, che è il suo doppio o la sua proiezione (vista l’infinita riproducibilità di un’immagine). La Cate che parla fuori studio, irrorata da una pioggia battente creata con espedienti tecnologici per aumentare l’effetto di coinvolgimento del pubblico, enumera alla Cate in studio le minute ramificazioni dell’arte concettuale. La conduttrice appare colpita soprattutto dalla ‘mini-arte’: si tratterà di opere molto piccole o di autori bassi di statura? Si chiede autoritaria rivolgendosi all’obiettivo.

Il quadro più inquietante è forse quello in cui una Maestra elementare sottilmente minacciosa spiega a una classe di piccini assai perplessi il Dogma di Von Trier. La fissità assertiva, inflessibile, apodittica dello sguardo ci fa scivolare sotto la pelle un senso di pericolo incombente. Pur animati dalle migliori intenzioni (di cui è lastricata la via dell’Inferno) e tendenti a enucleare la Verità nascosta nelle Cose – non pensavamo ce ne fosse soltanto una –, i dogmi, con le norme rigide e tiranniche che li accompagnano, dovrebbero sempre metterci in allarme.

L’unica nicchia di resistenza sembrano i sogni, visto che esistenza e morte sono due soluzioni immaginarie. La vera rivoluzione potrebbe davvero essere conciliare il sogno con il mondo diurno, in una surrealtà che ci faccia intravedere il lato nascosto di ciò che appare.

E l’arte, in fondo, la sua essenza e il suo scopo, dopo tante parole, viene meglio rappresentata da alcune vecchiette che fanno gioiosamente esplodere dei fuochi d’artificio in un prato suburbano spelacchiato. [1]

Visages, Villages

In Visages, villages una coppia singolare attraversa in lungo e in largo i villaggi della Francia in cerca di volti da fotografare. Lui è giovane, alto, dinoccolato, occhiali da sole perennemente sul naso. Lei anziana, di bassa statura, pettinatura bicolore bianco-rosso. I due nomadi camminano, spostandosi su un camion tecnologico su cui è stampata una grande macchina fotografica. Si sono incontrati nel 2015. Sono due celebrità del mondo dell’arte. Differenti, ma si riconoscono anime affini. Dal singolare connubio artistico nasce un progetto condiviso in una direzione inedita e innovativa, dove l’arte e il cinema si danno la mano per andare oltre. Con loro una nutrita e qualificata troupe segue e filma tutto il progetto. Lei è Agnès Varda, la famosa regista di “Cleo dalle cinque alle sette”, cult movie degli anni ‘60, unica donna tra artisti maschi della Nouvelle Vague, oggi sul filo dei novant’anni, con una straordinaria e contagiosa freschezza nell’approccio alla vita. Lui è JR, un originale, bizzarro e famoso street artist francese trentacinquenne che ha ricoperto dei suoi giganteschi ritratti fotografici le metropoli, catturando con i provocatori collages lo sguardo del suo sguardo. Uniti per la prima volta in questo inusuale on the road per un’opera a quattro mani. Il risultato è questo documentario di straordinaria forza e importanza dal titolo evocativo.

Toccante affresco di una Francia rurale e operaia contemporanea, il film, quando esci dalla sala, continua a girarti dentro con il suo fitto caleidoscopio di immagini, dialoghi pregnanti, preziosi spunti di riflessione sul senso dell’arte, sul senso dell’esistenza. Amabile per la dovizia iconografica e lo spaccato sociale, per il tono frizzante, aperto, accogliente, articolato, inesauribile per la dinamica dei contenuti, godibile ed esaltante per la sua semplicità ricca e profonda, per la bellezza dei ritratti e il loro sorprendente innesto nel tessuto rurale, per la grazia con cui un giovane e una vecchia, insieme, guardano la vita. Una sequenza dopo l’altra i due artisti chiacchierano con spirito e arguzia, sorridono, progettano, fotografano i volti sconosciuti delle persone a cui vanno incontro e con cui si intrattengono, parlano con loro di vivi e di morti, chiedono il permesso di affiggere le loro gigantografie sui muri, sulle pareti dei magazzini, su silos, camion trasportatori, massi cementizi caduti sulla spiaggia. Un entusiasmante itinerario artistico dal generoso respiro umano, sociale, esistenziale.

Sulle superfici di un museo a cielo aperto Agnès Varda e JR disegnano con i loro ritratti straordinari la storia degli uomini ignorati dalla Storia. Una mappa del tempo dove gli effigiati si riconoscono con emozioni variegate, spesso con compiacimento per questo inattesa ribalta, a volte con pudore, ma sempre con la sensazione dominante di un Esserci che esplode nella loro dimessa vita di lavoratori, gente di villaggio, lontana dai clamori della vita metropolitana, abituati ad un anonimato che li tiene stretti ad una vita semplice e condivisa. Una rivoluzione che li sfiora e li travolge, innestandoli in un processo di precarietà simbolica immortalata dall’arte qui divenuta intensamente umana e civile. Indimenticabile il villaggio abbandonato di minatori esaltato dalla gigantografia dell’unica, caparbia abitante rimasta. O Il monolito sulla spiaggia da cui la marea l’indomani strapperà l’effigie-omaggio di un amico morto.

Estremamente curato nella fotografia, nei dettagli, esemplare nell’approccio stilistico, nel montaggio, nella stesura imprevedibile e sospesa come una nuvola, il film accompagna la stupefacente Agnès Vardas, tra problemi di vista e di deambulazione, in un percorso esplorativo dove il dialogo e lo sguardo hanno il sapore della scoperta del mondo e di una curiosità inarrestabile. Una giovinezza immutabile trapela dalle rughe e dalla curva del suo corpo, accanto alla prorompente vitalità del suo stravagante compagno di viaggio, a tratti squarciata da guizzi di profonda maturità. Si sono ritrovati, al di là degli estremi anagrafici, uniti nella sensibilità di un comune percorso, tra confessioni intimistiche e gioie artistiche condivise, ironici incollaggi di ritratti straordinari, intrecciando gli sguardi in un tessuto affettivo che li coglie teneramente vicini nell’epilogo, quando la giovinezza sostiene la vecchiaia in un momento di sconforto: Godard non aprirà la porta all’amica Agnès che aveva annunziato la sua visita.

Un film-testamento che ha la grazia acerba, il turgore e la freschezza di un frutto appena colto. [2]

Passando al cinema di narrazione, tre film ci sembra che, per potenza, sottigliezza e originalità,  raggiungano altitudini inaccessibili a tutti gli altri: The beguiled di Sofia Coppola, Three billboards outside Ebbing, Missouri di Martin McDonagh e, in particolare, The killing of a sacred deer di Yorgos Lanthimos, uscito a fine stagione per una delle troppe decisioni infelici dei distributori italiani.

Nicole Kidman e Colin Farrell in ‘The killing of a sacred deer’

L’incipit del film di Lanthimos turba profondamente. L’austerità implacabile dello Stabat Mater di Schubert ci introduce nella crisi, intesa in senso etimologico come fase di instabilità e di rischio, del dottor Steven (Colin Farrell), cardiochirurgo di successo sicuro di sé fino all’arroganza. Marito algido di Anna, oftalmologa dalla mente inquieta che per eccitare Steven simula, nell’intimità, di essere un corpo privo di sensi, di abbacinante bellezza, e padre esigente e premuroso nei confronti dei due figli: Kim (Raffey Cassidy), adolescente appassionata di canto turbata dalle prime pulsioni informi, e il piccolo Bob (Sunny Suljic), dagli occhi troppo consapevoli e tristi e dai capelli troppo lunghi, così lunghi da confliggere con l’immagine canonica di discendente maschio che vive nell’animo di Steven.

Sentiamo, in tutti, attraverso frasi in apparenza banali sotto le quali risuona sempre qualcos’altro – insoddisfazione, ironia, insofferenza, ribellione – e sguardi che eludono, trafiggono o rimangono sospesi in un’interrogazione astratta, un’alternarsi o mescolarsi di contrapposizione e blandizie nei confronti di questa sorta di ‘Squire’ in camice bianco. Nella donna e nei due ragazzi l’atteggiamento verso Steven si divarica costantemente prendendo la via della sfida ctonia o dell’omologazione; un abito nero viene evocato da Anna solo perché conforme ai gusti del marito. E nello stesso tempo è ogni volta Anna a richiamare Steven alla necessità di confrontarsi con responsabilità, nudi fatti, conseguenze e, a un certo punto, con una dimensione irrazionale dell’esistenza.

Dimensione che Lanthimos fa irrompere nello sguardo dello spettatore con una potenza che ne fa il più originale e perturbante regista europeo contemporaneo. Non esistono soggettive o movimenti di macchina scontati, il microcosmo familiare e professionale di Steven viene esaminato da un occhio onnisciente e deformante, capace di costruire prospettive e cromatismi alterati, annidandosi in punti di osservazione preclusi a un organismo umano, di procedere verso i personaggi o ritrarsi da essi, di sostare in posizione frontale o laterale, di scavare dentro lo sguardo di ciascuno (e sarebbe deplorevole non citare l’interpretazione sbalorditiva di Nicole Kidman, mai così ricca di sfumature, mai così freddamente disperata; davvero una prova da storia del cinema), di schiacciare gli interni sotto il peso di dinamiche senza scampo, o dilatarli per sottolinearne la natura alienante.

Questa dimensione comincia a produrre crepe irreparabili nel soddisfatto, uniforme fluire dei giorni nel momento in cui il sedicenne Martin fa la sua comparsa sulla scena. Suo padre, paziente di Steven, è morto sotto i ferri sei mesi prima per la colpevole leggerezza del chirurgo, arrivato in sala operatoria ubriaco. Pur non riconoscendo le proprie responsabilità – “non avevo bevuto, è morto di ictus” – avverte la solitudine del ragazzo, il senso di deprivazione che lo abita, la consapevolezza – dolorosa in una persona così giovane – che i segni identitari, di appartenenza, che costruiamo per sentirci simili e vicini agli scomparsi, per mantenere un contatto con loro, sono espedienti consolatori, illusioni destinate a cadere all’apparir del vero, ossia la nostra anonima irrilevanza.

Inizia così un bizzarro rapporto, in cui Steven cerca, con imbarazzo, quasi timidamente, di risarcire Martin della perdita subita. Lo incontra regolarmente, gli fa dei regali costosi, si interessa alla sua vita e ai suoi studi, fino ad invitarlo a casa. Questo mentre l’essenza manipolatoria e misterica, ossessiva, di Martin si fa sempre più evidente.

Con un incessante argomentare, metodico e suadente, che ricorda certi personaggi di von Trier, al confine fra metafisica e patologia mentale, il ragazzo si configura come un oracolo incaricato da un’autorità religiosa soprannaturale di risanare l’ordine delle cose, violato dal delitto del medico, per mezzo del sacrificio rituale di uno dei membri della famiglia, che Steven stesso dovrà scegliere.

La storia si sposta gradualmente, mutandosi in grandiosa rappresentazione mitico-antropologica del concetto di ‘capro espiatorio’. I due figli del chirurgo si ammalano all’improvviso, senza spiegazione, senza che i medici riescano a formulare una diagnosi; prima perdono l’uso delle gambe poi smettono di mangiare, aggravandosi velocemente. Secondo le profezie di Martin, quando inizieranno a piangere sangue resteranno loro poche ore di vita e Steven dovrà decidere senza indugio quale familiare uccidere per salvare gli altri.

Martin, entità meta-umana, provoca una crisi interna alla famiglia, simile a una pestilenza biblica, che mina la solidità del nucleo e la sua stessa sopravvivenza per arrivare a una giustizia sommaria e arbitraria legata al principio arcaico della reciprocità violenta, della retribuzione.

Il contagio mimetico annienta ogni legame di solidarietà, la paura animale della morte tende a sopraffare ogni slancio d’amore fra le tre potenziali vittime. Trascinandosi penosamente sul pavimento i due ragazzi cercano con ogni mezzo il favore del Padre per essere risparmiati: Bob tagliandosi i capelli, Kim recitando il monologo di Ifigenia (e a mia volta, sospesa al tuo collo che ora tocco con la mano: ed io t’accoglierò nella mia casa, vecchio, con dolci abbracci e ti ricambierò la fatica d’avermi cresciuta. Io di questo conservo memoria, tu l’hai perduta e vuoi darmi la morte…). Anna incoraggia il marito a uccidere uno dei figli visto che possiamo ancora averne un altro.

Finirà con il gelido orrore di una morte affidata al Fato. Moglie e figli legati e incappucciati, ognuno seduto in una posizione diversa rispetto agli altri due nel salotto di casa, e Steven con un passamontagna nero calato sugli occhi, che gira vorticosamente su se stesso fino a smarrire l’orientamento, imbracciando un fucile. La lieve goffaggine dei movimenti del medico sembra quasi suggerire l’inevitabile inadeguatezza della contemporaneità rispetto al Mito. Il colpo, casuale solo fino a un certo punto, ucciderà il piccolo Bob.

La frenesia mimetica sceglie in genere le proprie vittime in base a caratteristiche psico-biologiche. Il capro espiatorio, il cervo sacrificabile, è quasi sempre l’inerme, il diverso, il più giovane. Magari il possibile futuro corruttore della Norma. La riconciliazione che segue il sacrificio, nelle civiltà arcaiche come nel film, è così improvvisa e perfetta da apparire miracolosa e desolante.

Semplicemente un capolavoro. [3]

The beguiled

Varcando il cancello del collegio descritto in The beguiled si resta subito intrappolati nelle frange vegetali ondeggianti, propaggini inquiete degli alberi che circondano il Farnsworth Seminary, irreprensibile convitto per fanciulle di buona famiglia. Le gallerie e le ragnatele di rami ostacolano il passaggio della luce, sprofondando il luogo in un’eterna penombra verdognola, malata. Rampicanti spogli ed erbacce infestano il parco, risparmiando i cespugli di rose selvatiche sgualcite, fino a spingersi sui gradini, sulle pareti esterne e dentro i balconi della grande villa in stile jeffersoniano. La proliferazione silenziosa, insinuante, di piante d’ogni tipo cinge l’edificio in un abbraccio perturbante, lo assorbe conducendolo a una metamorfosi nella quale religione, raziocinio e buoni sentimenti diventano maschere insufficienti a camuffare un’istintualità ferina legata alla volontà di dominio, alla pulsione sessuale e alla paura.

I boschi impenetrabili isolano il collegio dal resto del mondo, rendendolo un luogo della Soglia, una zona simbolica fortemente ritualizzata. La fitta vegetazione protegge la direttrice e fondatrice, Martha Farnsworth, la sua assistente Edwina e le cinque ragazze rimaste dall’orrore della Guerra Civile Americana, di cui arrivano, qualche volta, solo lontani rimbombi. Siamo nel terzo anno di guerra, il 1864, quando Amy, una delle allieve più piccole – esile, con le trecce e due occhi neri intelligenti e quanto oscuri -, mentre cerca funghi tra i muschi che ricoprono il terreno e le radici degli alberi, trova un caporale nordista ferito a una gamba. L’ospite inatteso, per di più un nemico, produce subito un’incrinatura, che si andrà via via estendendo e ramificando, nel crogiòlo di controllati aneliti e bisogni in cui si è tramutato il collegio.

Un microcosmo nel quale lo scorrere del Tempo è scandito dalle lezioni di francese – accolte da Alicia con ostentata ironia espressiva sul punto di deflagrare in aperta irrisione –, di piano, di canto, di ricamo, da cene illuminate da innumerevoli candele – vengono in mente certe sequenze di Barry Lyndon –, dalla preghiera serale collettiva davanti alla grande Bibbia tenuta aperta sul leggìo (Miss Martha, citando il passo “il mio giogo è dolce, il mio peso sarà lieve” mostra un’inclinazione a immedesimarsi in modo persino eccessivo nella Divinità, assumendosi responsabilità e prerogative proprie dell’Entità Suprema).

L’attenzione a ogni minimo dettaglio è degna di Visconti: accessori da cucito, abiti, stoviglie, utensili da cucina e strumenti chirurgici vengono sottolineati con naturalezza dalle luci accordando poche note cromatiche alonate e pulviscolari, o contraddistinte dal nitore, secondo i principi del pittore James Whistler. E scale e corridoi si mostrano contigui a quelli di Bright Star di Jane Campion, pur con sfumature di inquietudine e indefinitezza che rendono l’atmosfera che li avvolge affine a quella dei racconti del soprannaturale di Edith Wharton, in particolare Il campanello della cameriera.

Il caporale John McBurney è un piccolo mercenario, pavido e opportunista, recalcitrante all’idea di tornare a combattere e abbastanza scaltro da sfruttare a proprio vantaggio i fremiti più o meno nascosti che percepisce in quel “mondo a parte” tutto femminile. Un Valmont in tono minore in grado di cogliere e soddisfare i differenti desideri delle sette donne. Quello di tutte quante di “agghindarsi” per compiacere un’entità esterna ed estranea capace di vederle e quindi di farle esistere per davvero. Quello delle tre adolescenti di appagare la curiosità nei confronti del genere opposto e saggiare timidamente per la prima volta le proprie potenzialità seduttive. Quello della piccola Amy di avere un fratello maggiore con cui esplorare le bellezze naturalistiche del luogo, un giovane uomo che le si rivolge con parole shakespeariane: insegna ai miei piedi maldestri a stare lontani dai nidi degli uccelli. Quello di Alicia (la conturbante Elle Fanning, in continua crescita), la più grande delle ragazze, di violare l’ordine costituito attraverso la deploratissima esuberanza sessuale. Quello di Edwina (una toccante Kristen Dunst che ripercorre empaticamente lo stile di Deborah Kerr) di imbattersi in un sentimento sincero e appassionato che diventi occasione di fuga da un destino chiuso nel gelo delle consuetudini e delle regole.

McBurney alimenta persino l’illusione di Miss Farnsworth (una Nicole Kidman che toglie il fiato e, dopo anni di prove incolori, fa risplendere ogni sfumatura di un talento raro, regalandoci la prova più matura della sua lunga carriera; rivediamo in vari momenti anche lo scintillìo demoniaco di cui avevamo perduto le tracce dai tempi di The Others) di aver trovato finalmente un collaboratore alla propria altezza, un uomo con cui placare le improvvise pulsioni notturne e con cui condividere la gestione della piccola comunità, mantenendolo però in un ruolo subalterno e riservandosi il dominio assoluto.

Pare che i calcoli del caporale dagli occhi neri ottengano i risultati sperati: diventare a poco a poco indispensabile, riportare un ordine canonico nel giardino inselvatichito e, un passo dopo l’altro, assumere una posizione di inattaccabile rilievo, fino all’esautorazione di Miss Farnsworth.

Ma ci vorrebbe il vero Valmont per legare e sciogliere ciascun nodo, per tessere con arte perversa l’ordito e la trama di un disegno che si compone di riverberi fuggitivi, di sensazioni impalpabili, di angolazioni multiple, di rifrazioni di sguardi, di sofferenze occulte, di fioriture precoci e temuti crepuscoli, di cui il soldato McBurney presume incautamente, con supponenza, di capire l’origine. Invece le vite di queste sette donne rimangono volutamente avvolte nel mistero. Salvo alcune allusioni, poco o nulla ci è dato sapere riguardo agli antefatti, alle singole storie.

Proprio la presunzione, il fervore raziocinante – antitetico rispetto alle forme imprevedibili e metamorfiche che può assumere la natura – risulta fatale a John (esemplare la sequenza in cui, in preda a un accesso d’ira, scaraventa in un angolo l’inerme tartarughina di Amy). Diventa a un certo punto così imprudente da introdursi nottetempo nella camera di Alicia, suscitando così la gelosia di Edwina, che lo stava aspettando dopo aver tolto con delicatezza dalla carta velina una camicia da notte preziosamente ricamata.

Trapassata dal dolore, Edwina spinge via McBurney durante il breve scontro verbale sul pianerottolo, facendolo involontariamente cadere per le scale. Le numerose fratture scomposte alla gamba ferita costringono Miss Martha ad amputarla. Non per vendetta, bensì per salvare la vita al soldato. La reazione di John, al risveglio, è selvaggia, feroce, minacciosa, e per lui rappresenta l’inizio della fine.

Individuato dal gruppo come nemico ostile e pericoloso, svelata la sua meschina ipocrisia e i suoi schematici meccanismi interiori, non ha più scampo. Si produce una pressoché immediata reazione chimica di ricomposizione dei vari elementi disaggregatisi nella parte centrale della storia a causa di tensioni e rivalità. Di suggerimento in sguardo si salda la rete della complicità, ordendo un delitto atroce che in un certo modo fa giustizia, riportando il nucleo archetipico alla condizione originaria.

Verrà ammannita una cena raffinatissima, e in tavola appariranno anche i funghi color giallo cupo appositamente raccolti da Amy, saltati in padella con burro e vino. Come in una fiaba cattiva, il caporale uscirà dalla villa avvolto in un sudario bianco accuratamente cucito.

Conciso e visivamente superbo, innervato di sottile sarcasmo hitchcockiano, il finale in cui la salma viene portata dalle donne fuori del cancello, in attesa di una pattuglia secessionista.

Sofia Coppola lascia il precedente La notte brava del soldato Jonathan di Don Siegel (1971), apologo grottesco segnato da evidenti tesi misogine, a una siderale distanza, anche per merito dell’ironia che scorre sottrotraccia, colpendo vanità e rivalità femminili e avventandosi, pur con equilibrio mirabile, sul caporale McBurney, un “uomo senza qualità” a parte quella manipolatoria, proficua in un primo momento, ma in definitiva incapace di mantentenersi all’altezza di un gioco troppo complesso e sottile.

Un’opera, The beguiled, che consacra Sofia Coppola fra i nuovi Maestri del cinema. [4]

Three billboards outside Ebbing, Missouri

Difficile anche restare indifferenti all’epica quotidiana di Three billboards outside Ebbing, Missouri, uno dei film più premiati e amati della stagione. Sulla Drinkwater Road, dopo l’uscita Sizemore, avvolti nei panneggi immobili della nebbia, tre enormi cavalletti per l’affissione di manifesti pubblicitari stanno tornando al loro stato primitivo di scheletri lignei. Restano pochi riquadri colorati, vecchi di trent’anni e scoloriti, a immalinconirsi nel silenzio mescolato alle note di Last Rose of Summer. Ci troviamo poco fuori Ebbing, nel Missouri, una di quelle cittadine derelitte situate nel cuore del Midwest formate da un’unica strada rettilinea ai cui lati stanno appollaiate casette dalla struttura uniforme, guardinghe e predaci come avvoltoi.

Luoghi in cui nessuno arriva e dai quali nessuno riesce a fuggire, poveri e prevalentemente rurali; microcosmi all’interno dei quali ronzano disperati e aggressivi, sempre sul punto di deflagrare in violenza sterile, sentimenti di frustrazione e dolore.

A Nord le pianure vanno a unirsi a quelle dello Iowa e del Nebraska; la parte meridionale, facendo parte del bacino del Mississippi, è la più bassa e piovosa. La più retriva e legata al passato schiavista.

Alla Drinkwater approda solo chi ha perso la strada o è in ritardo, oppure chi la percorre ogni giorno per tornare a casa, come Mildred Hayes (Frances McDormand, premiata con l’Oscar), il cui sguardo, velato da quella particolare pena senza fine e senza sbocco che caratterizza il senso di perdita, si posa una mattina, casualmente, sui tre cavalletti inutizzati. Decide di prenderli in affitto e commissionare tre manifesti, essenziali scritte nere su fondo rosso, contenenti domande provocatorie e precise alla polizia locale, dirette in specie allo sceriffo Willoughby, sui motivi per i quali, dopo un anno, non siano ancora stati trovati e arrestati coloro che hanno stuprato e ucciso la figlia, dandole fuoco.

Il locale comando di polizia, in particolare lo sceriffo, rappresenta però il cuore pulsante della piccola comunità, ammirato e considerato un baluardo contro ogni forma di pericolosa diversità (negri, donne, forestieri e ragazzi dai capelli rossi troppo cortesi e colti, quindi sicuramente comunisti e gay), per cui Mildred subisce – con burbero, ironico stoicismo, senza indietreggiare di un passo – l’ostracismo dell’intero corpo sociale, compreso l’ex marito violento invaghitosi di una diciannovenne con evidenti problemi cognitivi.

Proprio questo picchiatore dai capelli unticci appiccherà il fuoco ai manifesti di Mildred, distruggendoli. Nella notte turbata dal crepitio della combustione rapida e violenta, il tentativo di spegnere le fiamme con degli estintori messo in atto da Mildred e dal figlio adolescente è una sequenza potente e ansiogena, di quelle che ormai si vedono raramente sullo schermo. La corsa inutile di Mildred sul prato e il suo cadere in ginocchio, arresa, restano incisi nella mente con un’intensità dolorosa.

Esacerbata, cancellando gli ultimi tratti caratteriali femminili, Mildred si vendica lanciando in piena notte delle molotov contro la stazione di polizia, non senza assicurarsi, con due telefonate, che non vi sia nessuno all’interno. Malauguratamente, Dixon (il sorprendente Sam Rockwell, in grado di tratteggiare un ottuso razzista, immaturo lettore di fumetti, omosessuale inconsapevole, succube della mamma alcolista e mascolina) distratto dalla lettera lasciatagli da Willoughby, nel frattempo suicidatosi a causa di un cancro allo stadio terminale, non si accorge degli squilli e resta ustionato nell’incendio.

Ma l’elaborata sceneggiatura di McDonagh, lirica e durissima, magnificamente scritta, prevede molti ribaltamenti e un’evoluzione psicologica dei personaggi. Così, il ragazzo di colore che si era occupato dell’affissione porta a Mildred i duplicati dei manifesti, previsti dal contratto, e l’indiretta caccia agli assassini può ricominciare.

Nessuno dei protagonisti mostra un’unica dimensione, tutti a un certo punto si abbandonano a un gesto di delicatezza. Il giovane agente pubblicitario Red Welby, gettato dalla finestra da Dixon, rivistolo nella stessa camera d’ospedale in cui è ricoverato, offre al poliziotto devastato dalle ustioni un bicchiere di succo d’arancia. Mildred, capace di una metodica invettiva contro la pedofilia cattolica e di varie efferatezze reattive (feroce ed esilarante la sequenza in cui pratica un foro nell’unghia di un dentista obeso e crudele col suo stesso trapano), raddrizza un insetto rovesciato perché non può sopportare la vista di quelle zampette che si agitano a vuoto nell’aria. In un altro momento si siede a conversare con una giovane cerva, immergendosi nella nostalgia della figlia e nella grazia espressa dall’animale. Forse “Dio non c’é e non importa come ci comportiamo gli uni con gli altri”, ma ciascuna di queste anime ferite porta in sé una fiammella, una necessità, la speranza che nonostante tutto ci possa essere una forma di esistenza e di relazioni meno misera di quella fin troppo conosciuta e praticata nel corso della vita.

Willoughby, per esempio, che si spara in testa dopo la giornata perfetta, trascorsa sul lago con la moglie e le due bambine. Non per disperazione, per solitudine “o altre sciocchezze del genere”, ma perché desidera morire dentro quell’istante di felicità, prima che il male lo corroda, prima che la lunga sofferenza logori i familari. Scrive splendide lettere di congedo, lievi, ironiche, sagge, commosse e romantiche, alla moglie, al pupillo Dixon e a Mildred che in fondo stima e a cui confida il dispiacere di andarsene senza aver trovato il colpevole della morte della figlia.

Mildred che piange dentro e non trova pace, crocifissa al senso di colpa germinato dalla riflessione incessante intorno alla sera fatale, a ciò che è successo, a ciò che è stato detto e non può essere cancellato né accettato. La figlia che desidera uscire e chiede in prestito l’auto, Mildred che rifiuta, le due che si insultano in modo irreparabile, la decisione della ragazza di andare a piedi gettando in faccia alla madre la provocatoria speranza di essere stuprata, la madre che risponde esasperata associandosi a questa speranza.

Dixon che accarezza con pudore i capelli della madre addormentatasi sul divano guardando la TV. Ancora Dixon che pensa di aver trovato il colpevole e si sottopone a un pestaggio brutale per procurarsi il dna dell’uomo (un militare in licenza che ha compiuto orribili crimini sessuali nei luoghi della missione – di pace sicuramente – ma non negli Stati Uniti).

Mildred e Dixon che partono in macchina per l’Idaho alla ricerca del militare – non è quello giusto, ma è pur sempre un violentatore -, però strada facendo si chiedono se davvero desiderano uccidere l’uomo. Chissà, forse no, forse l’importante è fare un viaggio insieme, parlare o restare in silenzio, sentirsi. Trovare una forma di requie, perdonarsi. Accettare. [5]

Chiamami col tuo nome

Se queste cinque opere staccano decisamente l’ombra da terra, è innegabile la qualità estetica di altri film. Per esempio, coinvolge emotivamente il nuovo lavoro di Luca Guadagnino Chiamami col tuo nome. Ci troviamo da qualche parte, nel Nord. In teoria nelle vicinanze di Crema, in realtà in uno di quei piccoli Eden dell’adolescenza, sospesi fra turbamento informe e gesto infantile, un attimo prima che diventino tempo perduto e coscienza della perdita, fra il sentiero dei biancospini di Combray e le forme immediate del sentimento – immerse in un’indefinitezza liquida che non si è obbligati a comprendere e spiegare – appena incrinate dai primi fantasmi impossibili.

Elio trascorre l’estate nella villa collinare dei genitori, sbrecciata e ammaliante come certe residenze di campagna descritte da Jane Austen, e circondata da un giardino che è un omaggio commosso a Casa Howard di James Ivory (autore della sceneggiatura). La luce pulviscolare si posa sui frutti rosso chiaro, sfumato di giallo, e sulle foglie stremate dalla canicola, ondeggia sulle increspature dei laghetti formati dall’acqua che discende dalle Alpi Orobie e ricoperti di minuscoli detriti vegetali.

Giardino come simbolo di identità e appartenenza, radice profonda dell’essere, vita che scorre entro il cerchio infinito e sempre ritornante delle stagioni.

La governante Mafalda e l’anziano tuttofare/pescatore Anchise si aggirano protettivi negli spazi interni ed esterni: il frutteto, la zona dove, fra grandi alberi, viene consumata la colazione (succo di albicocche e altre delizie casalinghe), la cucina chiara con gli utensili di rame appesi alle pareti e la campanella per segnalare l’ora dei pasti, la biblioteca dove la famiglia si raduna per condividere il piacere della lettura (da Eraclito a Heidegger) o per ascoltare le vertiginose variazioni pianistiche di Elio.

Arriva in villa Oliver, studente americano che il padre di Elio, professore di archeologia, aiuterà nel corso dell’estate a sviluppare la tesi di post-dottorato. Fra brevi conversazioni e corse in bicicletta che fanno rivivere l’atmosfera impressionista di Une partie de campagne di Renoir, nonostante i toni schivi e a volte bruschi di Oliver, l’amicizia fra il giovane e l’adolescente progredisce. Le ragazze cui Elio a volte si accosta per una pulsione cieca del corpo diventano marginali, quasi moleste. L’immagine abbacinante di Oliver lo invade giorno e notte, assume la forma di un’ossessione nascosta e struggente, di un delirio meridiano, di un’estasi panica continuamente elusa. La sensibilità di Luca Guadagnino sta nel comporre un’opera indimenticabile sul desiderio tout court e non su una storia d’amore omosessuale. Sul desiderio nell’adolescenza – l’età del dubbio, la più vulnerabile -, quando ancora non si sanno decifrare i segni del mondo e i segnali dell’altro, e prevale il timore del rifiuto, l’imbarazzo del possibile malinteso, la paura di perdere quel poco che si è ottenuto. Si tace per non essere respinti, finché la passione non rompe gli argini.

Oliver diventa agli occhi di Elio l’incarnazione della classicità, di un ideale di Bellezza che pensava esistesse solo nell’arte. Quando in fondo al lago di Garda viene ripescata una statua della scuola di Prassitele questa sovrapposizione si accentua. I corpi, nella scultura ateniese, non seguono linee rette, si mostrano sinuosi come se ci sfidassero a desiderarli. Così, la figura perfetta di Oliver – adduttori ginocchia vasti volto capelli – arriva a trascendere nell’elaborazione amorosa di Elio, a sciogliersi da lacci troppo terreni e da ogni morbosità.

Come ci appare naturale l’appagamento erotico che Elio, un pomeriggio, in soffitta, bagnato di sole, cerca nella polpa gocciolante di una pesca enucleata del nocciolo, ci sembra esemplare la discrezione partecipe e affettuosa, illuminata, con la quale i genitori del ragazzo seguono le piccole tracce della storia amorosa del figlio.

Amore che infine Elio scoprirà ricambiato, e aprirà le porte di una conoscenza carnale trascinata dal regista e dagli ammirevoli interpreti (in particolare Timothée Chalamet) verso la ricerca dell’assoluto – forse in questo caso trovato -, in equilibrio fra lotta e abbandono, scontro e fusione, disperazione e gioia.

Alla fine dell’estate Oliver riparte per gli Stati Uniti. Fra i due giovani, durante l’amara, asciutta cerimonia dei saluti, sembra insinuarsi la promessa inespressa di ritrovarsi, comunque, in un futuro assai prossimo.

Ma, come cantava Danielle Darrieux – Grande Dame del cinema francese scomparsa l’anno scorso – nel finale di “8 femmes” di Ozon, il n’y a pas d’amour heureux. In pieno inverno, Oliver telefona alla famiglia, ancora una volta riunita in villa, per annunciare il proprio imminente matrimonio. Elio si stringe in sé stesso per ripararsi dall’urto del dolore improvviso e ulcerante. [6]

The handmaiden

Seguendo il filo capriccioso della memoria, possiamo proseguire citando The Handmaiden di Park Chan-wook, ammirato al Florence Korea Film Fest 2018, che nessuno potrà mai vedere nelle sale italiane, sempre per le scelte incomprensibili della distribuzione. “The Handmaiden” (L’Ancella) si presenta come un trittico che, attraverso rivelazioni successive, ci conduce con ironia e trasporto, stordendoci con immagini di annichilente fascino figurativo, alla naturalezza di una realtà inattesa. La storia si ispira alla complessa trama neovittoriana del romanzo di Sarah Waters “Fingersmith” (di cui la BBC ha realizzato anche un bell’adattamento televisivo), ma immediatamente la trascende, facendola germinare entro la stilizzazione elegante dell’arte giapponese, in cui ombre e colori accesi – spesso legati alle stagioni, agli alberi, alla pioggia, alle nuvole -, linee essenziali, geometriche e interni elaborati si confrontano, riflettendosi in una sorta di ininterrotta, seduttiva dicotomia. L’occhio di Park Chan-wook segue questa vicenda di inganni, sentimenti, disperazione e avidità con movimenti lenti, insinuando sempre nelle sequenze un senso diverso che tuttavia sfugge alla presa. Indugia nelle stanze della villa del sadico bibliofilo Kozuki dalla lingua nera d’inchiostro, e nel parco dove un grande ciliegio dai fiori bianchi, ondeggianti nel vento, si dice abbia assorbito l’anima della moglie di questo laido individuo, impiccatasi a un ramo per orrore nei confronti della vita cui il marito la costringeva.

La luce non è gradita nella dimora di Kozuki, poiché potrebbe danneggiare i libri; nasce quindi dalle emozioni dei protagonisti, grazie alla fotografia di Chung Chung-hoon, in grado di dare vita a ogni dettaglio, ogni sguardo dissimulato o timido tocco. In quest’opera qualsiasi elemento e personaggio assume una natura duplice, dalla villa dotata di un’ala giapponese e una arredata all’occidentale alle due lingue parlate dai protagonisti (coreano e giapponese). Le frasi chiave rimbalzano come riflessi sull’acqua da una sezione all’altra, talvolta cambiando senso talvolta acquisendone uno ulteriore. I morti non muoiono mai per davvero, ma rimangono presenti e vagano senza pace nella mente turbata dei superstiti, sovrapponendosi alla loro forma interiore.

Quella che sembra all’inizio la lineare traccia narrativa, ossia il complotto che due truffatori – la giovane e graziosa Sook-hee e il vanitoso “Conte” Fujiwara – ordiscono ai danni di Lady Hideko, ricchissima nipote di Kozuki e sua promessa sposa, si rovescia progressivamente svelando un lato oscuro speculare e opposto, che a sua volta viene stravolto dall’irrompere della passione amorosa.

Hideko, nipote della moglie defunta di Kozuki e tormentata dal suicidio della zia, ha subìto fin da bambina dal bibliofilo malato di mente, o semplicemente malvagio e ossessionato, un’educazione degna del Marchese De Sade, fra percosse, limitazioni, moniti, terribili storie di orchi nascosti negli angoli della camera e pronti a soffocare la bimba con il loro corpo (narrate dalla sinistra governante Sasaki, prima moglie ripudiata di Kozuki), minacce di indescrivibili punizioni, lezioni di lettura su argomenti inadatti alla sua età. Tutto questo allo scopo di prepararla a sostituire la zia nelle “sedute di lettura” che periodicamente l’uomo organizza per intrattenere gli amici. Nella biblioteca in cui domina il nitore di un giardino zen, Hideko indossando un costume tradizionale, legge composta i rari testi pornografici collezionati dallo zio (che mira a impalmarla proprio per poter alimentare all’infinito la sua mania, grazie al patrimonio della ragazza, acquisendone di nuovi). Con pause e tonalità di perfetta eleganza riesce far vibrare come una musica pagine che di per sé sarebbero solo squallide.

Chiusa in un assoluto riserbo, staccata dal corpo e dalle pulsioni, fredda come un uccello d’acqua, Hideko aspira alla libertà. E Fujiwara racconta a Sook-hee il piano escogitato per sedurla, sposarla e, una volta arrivati in Giappone, farla dichiarare pazza e internarla in manicomio. Il ruolo di Sook-hee è quello di introdursi nella casa come ancella di Hideko e manipolarne la psiche per indurla a sposare Fujiwara. Questo ci viene fatto credere nella prima parte, mentre nella seconda si alzano i veli della storia e veniamo a sapere che l’accordo è fra Fujiwara e la stessa Hideko: contrarre un matrimonio “bianco” e far internare Sook-hee con l’identità di Hideko, in modo che Kozuki non abbia più motivo di cercarli.

Risuona anche l’eco di Rashomon nel raffinato montaggio di scene mostrate in momenti diversi da un’altra angolazione. E del Bergman di Fanny e Alexander nelle fiabe spaventose raccontate da Sasaki con intenti di vendetta e riscatto.

Il meccanismo assemblato da Fujiwara sembra perfetto, eppure succede qualcosa che, sottotraccia, a poco a poco, ne inceppa il movimento. Qualcosa di eversivo. Nella confidenza quotidiana dei corpi e dello spirito, durante gesti di cura ripetuti ogni giorno dall’ancella – il bagno profumato che sprigiona lieve vapore di essenze e di pelle diafana, luminosa, il vestire e lo spogliare la Signorina dalla bellezza quasi irreale – germina in entrambe la passione inducendo Hideko alla reciprocità, a cercare nell’altra fanciulla il doppio, il rifugio, la famiglia mai avuta e, durante una cerimonia in cui le ragazze sciolgono a vicenda, piano piano, i lacci dei corsetti ricamati – mostrati quasi al microscopio nel loro sinuoso abbandonarsi alle dita – l’amante.

Si procede per slittamenti progressivi, che né ragione né volontà possono arrestare. Una caramella il cui succo passa da una bocca all’altra, diventando da amaro aspro, da aspro dolce, da dolce salato, salmastro. Poi i corpi cercano con delicatezza, ed ebbrezza elegante, i molti modi per unirsi, per cercare il piacere stupefatto, dissetato. Compongono forme perlacee simmetriche abbaglianti, ricadono in abbracci innamorati. Il Tempio di Giada dischiude i suoi petali. Le mani si uniscono tracciando la linea orizzontale di una corda, tesa fra le due ragazze sospese sulla corrente dell’eros, metafora di un’unione solidale salvifica.

Arriveranno presto a confidarsi i piani contrapposti, quello fittizio e quello reale, in cui Fujiwara le aveva imprigionate, per costruirne un terzo che avrà esito felice. Le due fanciulle riusciranno a espatriare – non senza aver distrutto i libri pornografici di Kozuki in una sequenza capolavoro -, fuggendo verso un’esistenza libera e (si presume e si auspica) felice, mentre Fujiwara, dopo essere stato seviziato e mutilato da Kozuki nel sotterraneo della villa, avvelenerà entrambi con il fumo freddo e blu di una sigaretta al mercurio. [7]

 

Julianne Moore in ‘Suburbicon’

Ci preme molto ricordare un film sfortunato, fin dall’uscita alla Mostra del Cinema di Venezia 2017: Suburbicon di George Clooney, sostenuto dalla formidabile sceneggiatura di Joel ed Ethan Coen. Viene spontaneo cominciare dalla fine, per quietare l’agitazione. O per dare il tempo ai pensieri di tornare a radunarsi nel nido, come una piccola tribù dispersa dal turbamento. E’ domenica mattina, abbiamo tutto il tempo del mondo. Mancano le compiacenze dell’accappatoio, caffè e arance, su una sedia al sole (1); c’è invece l’oscuro peso della catastrofe, quasi una bonaccia che oscura luci d’acqua (1).

Gardner Lodge è riverso sul tavolo della cucina, morto per aver mangiato durante la notte la merenda al sonnifero preparata per il nipote dalla cognata-amante Margaret (uccisa la sera prima da uno dei due killer ingaggiati da Lodge per eliminare la moglie Rose). Il figlioletto Nick, dopo aver spento la tv, raggiunge l’amico di colore nella casa di fronte per giocare a baseball. E’ l’unico spiraglio di luce concesso dal film, proprio sul filo di lana; mostrare la capacità dei bambini di riprendere il gioco con serietà, nonostante famiglie disfunzionali e persecuzioni razziali, delitti orrendi e un’abiezione morale che trascina via l’intera comunità.

Ci troviamo nel grazioso quartiere residenziale di Suburbicon, uno di quegli inferni dai colori pastello, con casette linde e praticelli verdissimi, che abbiamo imparato a conoscere bene in film come The hours (episodio di “Laura Brown”), Far from Heaven e persino Edward Scissorhands. Doveva essere fantastico viverci, negli anni ’50, se eri bianco, maschio, etero, avevi un buon lavoro e facevi parte di una delle numerose chiese evangeliche, avventiste o pentecostali. La sceneggiatura si è inizialmente ispirata alla vicenda dei Myers, una famiglia afroamericana che proprio negli anni ’50 si trasferì nel quartiere per soli bianchi di Levittown, vero prototipo delle funzionali linee di assemblaggio riservate a membri della “razza caucasica”.

Questa storia di delirio ariano collettivo che sfocia gradualmente in paranoia, persecuzione, boicottaggio, assedio rimbombante di invettive urlate senza interruzione, percussioni, inni pseudoreligiosi, fino alle minacce e agli atti di vandalismo che provocano il tardivo intervento della polizia e il ritorno a una calma di superficie, fa da cornice dimostrativa e cassa di risonanza alla narrazione principale, come se Clooney, impeccabile nel raccontare l’inquietante crescendo di violenza contro l’elemento a qualsiasi titolo xeno, volesse mostrare il brodo di coltura di una middle class di scarso intelletto, forti tendenze individualistiche, assenza di qualsiasi scrupolo morale e ambizioni inadeguate alle possibilità economiche e alle qualità professionali.

La prima sensazione che si prova è di venire spinti, in modo brusco, dentro una stanza non troppo grande e priva di finestre. Come nel pensiero degli chassidim bresloviani, cui più o meno sembra rifarsi tutta l’opera dei Coen,  la natura umana viene amaramente ridicolizzata fino al disprezzo. Gli esseri angusti che agiscono soltanto in base a pulsioni primarie non possiedono alcuna facoltà o volontà di spingersi a osservare la natura fluida e cangiante della realtà, resa tale dall’essenza sottile del divino (del trascendente). Questa dialettica o contaminazione incessante fra infinito e tangibilità delle Cose, per essere compresa necessiterebbe di una liberazione dagli istinti subumani di cui Gardner Lodge e l’intera cittadinanza di Suburbicon sembrano incapaci.

In questo script lucidamente disperato manca persino una figura capace di riscattare, almeno in parte, il male del mondo, come la poliziotta flemmatica e determinatissima di Fargo, mossa da un senso etico tanto forte quanto poco ostentato e verbalizzato.

Lunghe fasi della narrazione vengono sviluppate in soggettiva, assumendo il punto di vista del piccolo Nick, costretto a una precoce maturazione. Questo permette al regista di sfruttare al meglio notturni, ombre, luci, scantinati, strade troppo deserte, dalle linee troppo perfette, trasformando un possibile hard boiled qualunque in un incubo infantile che toglie respiro e difese intellettuali. Spesso l’obiettivo si ferma all’altezza delle mani o delle scarpe degli adulti per aderire allo sguardo del bambino, ed è una tecnica che usava Dickens nei suoi romanzi. Persino volti e atteggiamenti ci arrivano attraverso lo svelamento deformante operato dallo strumento ottico particolare che abbiamo in dotazione nell’infanzia, un po’ come se Nick usasse un grandangolo capace di far diventare le figure che gli gravitano intorno brutte come rospi o belle come principi azzurri (2).

I fili di trama e ordito li abbiamo già parzialmente descritti. Un omuncolo senza qualità dissipa i risparmi della moglie e della cognata per mettere in piedi un’attività economica che non riesce a gestire e che lo sta portando al dissesto economico (sono già tre le rate del mutuo non pagate). Per intascare la lucrosa assicurazione sulla vita di Rose simula un incidente d’auto, nel quale però la moglie non rimane uccisa bensì paralizzata, quindi diventa un doppio intralcio. Si fa presto a diventare un intralcio in quest’amena e domestica valletta, basta ostacolare in qualche modo la cupidigia bestiale che anima quasi tutti.

Lodge diventa l’amante di Margaret – altro personaggio poco edificante – e insieme complottano contro la povera Rose sognando una nuova vita ad Aruba, isola del Mar dei Caraibi dalle spiagge di sabbia bianca. Lodge ingaggia due killer pressoché cerebrolesi (altro elemento in comune con Fargo) per simulare una rapina in casa durante la quale i due devono incidentalmente eccedere con il cloroformio usato per sedare Rose e così mandarla in coma irreversibile. Il piano sembra riuscire, ma prima Lodge “dimentica” di pagare i due, poi Bud Cooper, un ringhioso e sorridente detective assicurativo (un travolgente Oscar Isaac, già protagonista nel 2013 di Inside Llewyn Davis), piomba in casa accolto da Margaret con quella rispettabile svampitezza perfettamente intonata  agli abiti a corolla, gialli, albicocca e celestini, da prigioniera del tinello. Tinello inteso, of course, come paradigma, principio ordinatore, luogo identificativo, “primo motore immobile” d’ogni definizione di femminilità.

Cooper, giovane sciacallo divorato dalla brama di denaro e ricattatore alle prime armi, finirà malissimo: prima chiedendo un caffè cui Margaret avrà cura di aggiungere qualche goccia di soda caustica, poi trapassato per strada dalla fiocina di Lodge (sempre deserte queste strade…non c’è da meravigliarsi, gli abitanti sono tutti impegnati a intonare salmi intorno alla casa dei disdicevoli invasori afroamericani).

Corpo e macchina del detective verranno fatti sparire da Lodge in un cantiere periferico, nelle stesse ore in cui Margaret viene uccisa da uno dei due balordi. Il male si diffonde più facilmente e diventa fine a se stesso quando trae alimento dall’ottusità.

La forma che emerge dalle acque della nostra dissonanza interiore, e ci bracca senza requie stringendoci dentro il confine di un’ansia sempre più incontrollabile cieca e rabbiosa, può anche non avere l’alta immagine mitteleuropea e metafisica della Bestia di Caproni – mozartiana, direbbe il grande poeta livornese – o la mostruosità allegorica del Colombre buzzatiano, squalo smisurato apportatore di morte e distruzione. La Morte (fisica e interiore) può anche non provenire da onde oceaniche ribollenti di colori stregati, come in Rime of the Ancient Mariner, ma, molto più modestamente, dalle frustrazioni di microscopici borghesucci che hanno sbagliato i conti della vita.

Un film da vedere e rivedere, e meditare, alla cui splendida riuscita contribuisce in maniera determinante l’ennesima performance di classe inarrivabile di Julianne Moore. Non fa giochi di prestigio o illusionismo Mrs. Moore, non ha effetti speciali nascosti nella manica, non pratica le arti marziali e non sfoggia migliaia di identità. Non fa nessuna delle molte cose che vanno di moda oggi, però in pochi minuti ci racconta con lo sguardo e il corpo la consapevolezza amareggiata di Rose, confinata su una sedia a rotelle, e alla fine ci coinvolge come adolescenti mentre, nel ruolo di Margaret, cerca invano di ammansire la sagoma espressionista del sicario restando di spalle, rassicurandolo per allontanare da sé l’ombra della morte. Sorride e sussurra, perché sa che si tratta di un tentativo inutile, e gli occhi si arrossano piano piano di lacrime. I suoi e i nostri. Non c’è perdizione che meriti la morte.

  1. Wallace Stevens, Sunday morning (1924)
  2. Virginia Woolf, On being ill (1926-30) [8]

 

Kate Winslet in ‘Wonder Wheel’

Questa stagione ha segnato il ritorno di Woody Allen ai suoi massimi livelli, purtroppo la sorte di Wonder Wheel è stata funestata al di qua e al di là dell’oceano da un’ostilità preconcetta che niente ha a che fare con la valutazione artistica del film. Ennesima riprova che fondamentalismi e moralismi irrazionali si annidano persino nel cuore radical dell’Occidente. Lo sguardo di Ginny, protagonista di Wonder Wheel, ogni tanto si spegne, perdendosi chissà dove. Nella memoria di un passato da attrice trascorso in un soffio, di un marito batterista geniale e molto amato, eppure tradito per un abbaglio dei sensi. Uno sguardo che sembra dibattersi, oscuro e smanioso, nel presente disadorno e senza prospettive: un lavoro come cameriera al Ruby’s Clam House di Coney Island, un appartamento angusto e trascurato scosso dal frastuono e dalle luci intermittenti del Luna Park, un figlio che cerca una via di fuga interiore appiccando incendi – forse per osservare la materia diventare energia attraverso la combustione –. E Humpty, il nuovo marito, l’ultimo gradino della discesa: un manovratore di giostre grezzo, sgraziato, alcolista e violento che se un tempo l’ha salvata dalla rovina, adesso appare soltanto un molesto carceriere.

E’ una magistrale variazione sul tema della deriva esistenziale, dei paradisi perduti e continuamente rimpianti, della quotidianità repellente da cui la protagonista cerca di proteggersi per mezzo dell’abuso alcolico. Impossibile non ricordare la logorrea disperata di Jasmine, cui Cate Blanchett faceva percorrere con arte impareggiabile tutte le stazioni del declino e della follia nel film di Allen del 2013.

Si va avanti così, fra l’odore del pesce e le illusioni perdute, finché Ginny non incontra Mickey, giovane bagnino e aspirante scrittore con l’abitudine di recitare situazioni e sentimenti per poi raccontarli (a se stesso e all’obiettivo), come se la vita fosse un esercizio di stile preparatorio in attesa di comporre uno dei tanti grandi romanzi americani. Questo giovane vanesio, occasionalmente moralista, sempre alla ricerca della frase poetica adeguata alla situazione, che Allen seziona con finezza e disincanto, diventa nell’animo di Ginny la possibile salvezza, mentre per il ragazzo non è che uno dei tanti volti resi incantevoli dalla luce che segue la pioggia.

La vicenda si complica ulteriormente con l’arrivo di Carolina, figlia della prima moglie di Humpty. La ragazza, sgualcita e scompigliata nell’abito aderente a rose gialle, si aggira entro l’ipercromatismo delle insegne e dei chioschi sovrastata dalla gigantesca Wonder Wheel rosa azzurra e verde, simbolo di quella luccicante tempera che nell’America degli anni ’50 veniva stesa su ogni turbamento, su qualsiasi deviazione rispetto ai canoni sociali. Una coartazione all’allegria esibita e all’efficienza che negava la possibilità stessa dell’identità individuale, in particolare quella femminile.

Carolina ha fornito alla polizia informazioni sul marito mafioso per evitare un’incriminazione e cerca riparo presso il padre a Coney Island, mentre due sicari la inseguono per ucciderla. Dopo un’accoglienza risentita e nonostante l’ostilità di Ginny, Humpty decide di ospitare la sua principessa e di usare i risparmi per pagarle la scuola serale e darle l’opportunità di una nuova vita. Purtroppo la casualità non-lineare, sconnessa e intricata, sempre protagonista (con varie tonalità) nei film di Allen, determina i presupposti di un innamoramento fra Mickey e Carolina che addensa le speranze di Ginny in un grumo buio di delusione rancorosa.

La donna, accortasi per caso che i due sicari hanno intercettato Carolina, avrebbe l’opportunità di avvertirla e salvarla con una semplice telefonata. E, in effetti, cerca in un primo momento, affannosamente, una cabina telefonica e compone persino il numero. Ma quando si è prigionieri senza speranza è difficile riflettere e fare la cosa giusta. Il male, il delitto, possono diventare un’opportunità di riscatto (come per Chris Wilton in Match point) e fermarsi al di qua della colpa è spesso impossibile. Il ricevitore viene riappeso, ma Allen da molti anni osserva carnefici e vittime con la stessa partecipazione malinconica, senza giudizi morali, quindi non condanna Ginny, sapendo bene che con quel gesto inutile ha eternato la propria dannazione.

Le resterà soltanto un lungo monologo alla Blanche DuBois davanti all’attonito Mickey, durante il quale la sensibilità intrerpretativa di Kate Winslet nel raccontarci dolore, autoinganno e immaturità di questa donna raggiunge quelle profondità abissali dove la luce esterna non arriva più, assumendo la forma di una figurazione indifferente. [9]

 

Loveless

Spesso, nel corso dell’anno, lo sguardo degli autori si è focalizzato sul dolore dell’infanzia e dell’adolescenza, in chiave ironica o drammatica, e questa disperazione precoce è stata elemento portante ed architrave di Loveless, nuovo film, impassibile e crudele, del regista russo Andrej Zvjagincev. Primi giorni di scuola. Ultimo giorno di famiglia. Al grigio e umido silenzio del paesaggio che circonda i sobborghi di Leningrado – dove la vicenda è ambientata – si contrappone il tumulto interiore e il cinismo dei protagonisti, un padre e una madre, di “Loveless” di Andrej Zvjagincev, tornato nel 2017 a Cannes dopo “Leviathan” con cui aveva vinto il Premio per la sceneggiatura.

La perfezione sinistra delle loro solitudini di genitori sull’orlo del divorzio accerchia ed esclude il dodicenne figlio Alëša, che nessuno dei due “vuole avere tra i piedi” e per il quale i servizi sociali sembrano l’unico orizzonte.

Ma la tragedia di questa narrazione si svolge e vive solo all’altezza del piccolo Alëša (Matvey Novikov) nel silenzio impetuoso e tragico delle poche scene che lo inquadrano: su tutte quella lancinante di un pianto disperato e segreto in un angolo della casa durante l’ennesimo litigio dei suoi genitori. Un figlio che non è un figlio dunque, ma solo una presenza ingombrante: per lei rimasta incinta “per sbaglio”, ora impegnata a ricostruirsi un’altra vita e un matrimonio consapevole; per lui preoccupato solo della politica aziendale e del suo capo ortodosso e ultraconservatore che disprezza i divorziati e dall’arrivo di un altro figlio, da una nuova e giovane compagna. Tutto il film vive dell’assenza immanente di Alëša e di una disperazione senza scampo e senza redenzioni.

In fondo “Loveless” racconta la vita dei genitori “senza” il fardello del figlio. Indugia sui loro corpi (e su quelli dei loro nuovi partner), sulla loro quotidianità spoglia del ruolo di madre e di padre, sulle loro piccole e miserevoli paure.

Poi Alëša si dilegua: dopo l’ennesima lite esce e non fa ritorno a casa. Anzi: non tornerà più. La sua scomparsa rende ancora più drammatica la collisione delle personalità di Ženja (Maryana Spivak) e Boris (Alexei Rozin): con la polizia prima e con il gruppo di volontari impegnato a cercare il ragazzo poi; quella scomparsa anzi li accomuna ferocemente in una continua lotta senza quartiere, fatta di ripicche, di dispetti, di insulti reciproci. Nemmeno la nonna materna vuole “che gli rifilino quell’impiastro” dopo il divorzio. Tutti loro, mentre l’autunno si volge lentissimamente in un gelido inverno, chiusi ottusamente nella fortezza del proprio egoismo, di fronte al quale anche le immagini e le notizie della guerra in Ucraina diventano un sottofondo quasi insignificante, l’altra voce della Russia putiniana. Almeno fino a quando – in una delle sequenze più penose e sconvolgenti del film – Alëša ricompare sul freddo banco d’acciaio della sala autoptica. Di questo figlio “senza amore” rimane solo la stanza spoglia di una casa ormai venduta. Una finestra aperta sul gelo russo e un volantino sbiadito con la sua foto.

Il film di Andrey Zvyagincev – scritto dallo stesso regista in collaborazione con Oleg Negin – ci è parsa un’opera durissima e cruda, di un realismo spietato e mai fine a se stesso. L’elemento più significativo, a nostro avviso, è costituito dalle grandi finestre a specchio su cui spesso si sofferma la macchina da presa: a restituirci non solo i volti dei due protagonisti ma a segnare il confine che li separa – irrimediabilmente – da una realtà altra, una natura superba e affascinante, a cui vorrebbero accedere ma che rimane solo sospesa, paesaggio da osservare e desiderare.

“Loveless” ha anche il pregio di non esprimere almeno direttamente giudizi morali – quello politico è al contrario, più che esplicito – lasciando allo spettatore la responsabilità di riflettere su un mondo lacerato dal disinteresse e dall’egoismo e su un piccolo paese-figlio (l’Ucraina) che ha disperatamente bisogno di essere ma al quale una Russia, ormai matrigna, ha definitivamente voltato le spalle. [10]

 

The Florida Project

Un timbro opposto, limpido, pieno di rifrazioni in movimento, caratterizza la sorpresa della stagione: Un sogno chiamato Florida di Sean Baker. E’ l’altra America. Non l’altra America di frontiera, isolata e brutale, di Three Billboards outside Ebbing, né quella alleniana delle illusioni perdute di pseudointellettuali logorroici alla deriva che abbiamo visto in Wonder Wheel. E neppure quella posticcia e fumettistica di The Shape of Water, opera così politically correct da risultare stucchevole e sospetta.

E’ il lato miserevole di cui gli Stati Uniti si vergognano. La zona d’ombra dei marginali, dei soggetti borderline, di quelli che credono di essere sposati con Gesù, che vivono di espedienti, che abitano in mezzo alle cimici in motel dai nomi accattivanti come Magic Castle, dipinti di un irreale color viola. Coloro il cui unico traguardo è arrivare al giorno dopo e mettere insieme un pasto qualsiasi per sé e per i figli, cibo spazzatura che ingrassa senza nutrire.

L’assoluta originalità e freschezza del film di Sean Baker sta nella tenace volontà di mostrare questo microcosmo situato in un sobborgo della Florida usando la lente della percezione infantile. Per l’adorabile teppistella Moonee, e per i suoi amici Scooty e Jancey, grazie alla particolare capacità di trasfigurare e fantasticare propria dei primi anni di vita, persino miseria e appariscente kitsch suburbano diventano elementi di avventura, magia e irridente, innocente ribellione.

C’è incanto vero nei colori del cielo e delle palme, nell’arcolbaleno che invade l’intera volta celeste e segnala la presenza di un tesoro difeso dagli gnomi, nei muri abbacinati dal sole contro i quali oziare senza un pensiero al mondo, storditi dal calore estivo, nelle pozzanghere che si formano durante scrosci improvvisi di pioggia, nei ‘safari’ in mezzo alle mucche che bivaccano nei prati spelacchiati, nei compleanni festeggiati di sera sul bordo di un’autostrada, con una pasta sormontata da un’unica candelina, guardando i fuochi artificiali lanciati chissà dove e per chissà quale ricorrenza. E sentiamo l’eccitazione palpabile dei bimbi durante le imprese allegramente vandaliche, come quella di dare fuoco a una casa abbandonata e scappare di corsa.

Come i surfisti, i tre bambini prendono l’onda. Bevono la schiuma dei giorni provocando gli inquilini del motel, o il pacato, protettivo custode tuttofare dell’edificio, un Willem Dafoe da antologia del cinema.

Non è un’umiliazione, bensì una piccola vittoria, estorcere ai passanti o ai turisti qualche spicciolo per godersi un gelato in tre. O accompagnare, come fa Moonee, una mamma troppo giovane e squilibrata (però innamorata della figlia) a vendere per strada profumi contraffatti per racimolare i soldi dell’affitto settimanale. Si prostituisce, Halley, la madre di Moonee, con la noncuranza di chi è abituato a considerare il proprio corpo soltanto uno dei tanti strumenti di sopravvivenza. Proprio quest’attività attirerà l’attenzione dei servizi sociali – che non forniscono aiuti, ma pretendono che i bambini siano cresciuti in maniera adeguata –.

Di fronte alle assistenti sociali arrivate al motel per condurla “temporaneamente” presso una famiglia migliore (persino i bimbi intuiscono che per la burocrazia le questioni temporanee tendono a diventare definitive), Moonee per la prima volta si sente indifesa. Fugge a perdifiato a casa dell’amica del cuore Jancey, nel Futureland motel, per un bye disperato che non riesce a pronunciare, travolta da un pianto che la mostra per ciò che è: una bambina di sei anni trascinata via dalla piena della disperazione. Come il piccolo Alëša, protagonista di Loveless.

Jancey, con un gesto istintivo, la prende per mano e unite in una corsa che il regista accompagna con movimenti di macchina incerti, finalizzati a riprodurre il disorientamento delle due piccole amiche, si dirigono verso il tanto desiderato Castello del Walt Disney World per concedersi ancora un sogno. Forse l’ultimo. [11]

 

Kristin Scott Thomas in ‘The Party’

Altra commedia sulfurea di scatenata intelligenza si è rivelata la nuova opera di Sally Potter, The Party. Presentato nel 2017 alla Berlinale e alla Festa del Cinema di Roma, The Party (il cui titolo in inglese significa “festa” ma anche “partito”) è una black comedy dal ritmo incalzante e dalla sceneggiatura brillante quanto una pièce teatrale.

Il film, ambientato a Londra, racconta della serata in onore di Janet, appena nominata Ministro della Salute. I suoi amici, venuti a festeggiarla rappresentano in modo variegato l’upper middle class inglese: c’è l’intellettuale impegnata in politica, il professore universitario, la coppia lesbica in attesa di figli, il broker della City e il life coach.

La festa però non si svolge nel modo atteso, e piano piano si innescano reazioni a catena che portano tutti i personaggi a svelare i propri segreti.

Un plot già visto diverse volte, soprattutto in un certo cinema francese, che però Sally Potter riesce a rendere originale. The Party infatti raggiunge uno spessore esistenziale pur non prendendosi mai troppo sul serio. I protagonisti discutono temi di una certa pregnanza, come la situazione politica inglese, la costante ricerca della sovraesposizione, la maternità come ossessione, i metodi di guarigione alternativi e perfino la morte, ma sempre con una battuta caustica che strappa la risata (amara).

Lo stile è asciutto e funzionale allo sviluppo delle dinamiche tra i personaggi. Potter si è avvalsa, come per i suoi precedenti film (a partire da Orlando) del direttore della fotografia Alexey Rodionov che ha optato per un minimalista bianco e nero, un’estetica che non prevale mai sullo sviluppo narrativo.

Ma un altro fattore che ha sicuramente contribuito al successo del film è un cast di ottima qualità tra cui brillano Kristin Scott Thomas, perfetta nel ruolo della posata ma ambiziosa Janet, l’eclettico e intramontabile Bruno Ganz e la straordinaria Patricia Clarkson che primeggia su tutti con il suo humour cinico.

Il finale, spiazzante e memorabile, rovesciando di colpo tutto ciò che la regista ci aveva fatto vedere fino a quel momento, con un elegante, perfido depistaggio, rivela la vera (?) trama e lascia la storia sospesa nell’aria, come a volte amava fare Hitchcock. [12]

Emmanuelle Riva e Dominique Abel in ‘Parigi a piedi nudi’

Divertimento allo stato puro, simile alla sensazione avvertira da bambini leggendo gli albi a fumetti, lo abbiamo provato davanti a Parigi a piedi nudi di Abel & Gordon. Ci sono molte componenti in questo film franco-belga diretto e interpretato dal duo Dominique Abel e Fiona Gordon (lui belga, lei canadese) architettato e messo in atto con la ben determinata idea di far ridere, divertire anche scriteriatamente sul filo di una vicenduola tutta godibile secondo gli schemi classici del cosiddetto burlesque. Che, a dire dei testi canonici, sarebbe un ben definito genere comico basato “sulla distruzione della logica”, uno spettacolo “folle e assurdo che contraddice la realtà e l’evidenza”. Originariamente nato in Inghilterra fu presto adottato negli Stati Uniti ove con precipitoso sviluppo sconfinò presto nel vaudeville, nella pantomima grottesca, nella commedia slapstick (infarcita di nonsense e spesso di volgari digressioni).

Oggigiorno la cifra del burlesque è pressoché scomparsa dagli schermi – pur vantando una carriera non lontana di “specialisti” di valore del genere senz’altro impareggiabili come Jacques Tati e Pierre Etaix e finanche precedenti classici quale lo stesso Chaplin – e unicamente riesumata per la maestria di autori-attori eclettici come i menzionati Abel e Gordon (sconosciuti dalle nostre parti ma celebri in Francia) tanto da trovarci ora a chiosare questo davvero eccezionale Parigi a piedi nudi.

Un’altra particolarità di questo tardivo (ma riuscito) burlesque è costituita dall’ultima presenza della scomparsa Emmanuelle Riva, già storica figura nel memorabile film di Alain Resnais Hiroshima mon amour (1959), qui nel ruolo della fantasmatica, vecchia zia Martha, fonte e causa delle avventure, sventure della maldestra bibliotecaria canadese sbalestrata inopinatamente a Parigi per infilare una serie infinita di piccoli disastri.

Ma andiamo con ordine. Fiona, dunque, vive in uno sperduto paesucolo canadese perso tra i ghiacci allorché viene precettata a Parigi da una non meglio identificata zia Martha (come si diceva, Emmanuelle Riva). Soltanto che, una volta nella capitale francese, la signora in questione non si trova da nessuna parte. E qui il gioco degli equivoci, delle contraddizioni modulato tra infinite gags si fa subito vorticoso. Al posto dell’introvabile Martha salta fuori un tale Dom che, mentre Fiona passa di avventura in avventura (anche con ripetuti bagni involontari nella Senna), subito abbagliato dalla ragazza canadese le si appiccica addosso presto pazzo d’amore, anche se non corrisposto.

Di qui, Parigi a piedi nudi si distende in trovate, colpi di scena orchestrati con calibrata bravura ritmica: da un’insolita, esilarante “danza dei piedi”, al grottesco discorso funebre di Dom, iniziato con un elogio e concluso poi tra gli insulti. Insomma, si tratta di un film per tanti versi unico, che mutuando tecniche, modi spettacolari anche desueti si proporziona sullo schermo in una azzeccata misura aurea, grazie, come si diceva, ai collaudati autori-attori Abel e Gordon, soprattutto per la loro affiatata performance con un’esile traccia destinata a suscitare il riso con nativa essenziale ironia. [13]

Ghost Stories

A proposito di fumetti, generi ecc., è venuto il momento di abbandonarci all’antica passione per l’horror di qualità, citando le due magnifiche pellicole che prendendo le mosse da regole stilistiche e situazioni tipiche del cinema orrorifico, sono riuscite a elaborare complesse meditazioni sul Male nelle sue varie sfumature. Parliamo in particolare di Ghost Stories di Dyson & Nyman, ma anche della nuova versione di IT diretta da Andreas Muschietti.

IT

I Morti hanno freddo. Vivono nei sottosuoli di grandi o piccole città: cantine, condotti fognari smisurati, cisterne esalanti costante umidità e disagio, luoghi paralleli battuti dalla pioggia. Adolescenti e bambini spaventati dalla solitudine, ancora più marginali di quanto siano stati in vita. Piangono chiedendo calore, e una possibilità di ritorno, invocano l’abbraccio dei fratelli maggiori e la casa, il nido, il mondo di sopra, la vita di prima.

Ma noi, i vivi, abbiamo smarrito da tempo la capacità di illuderci, di trattenere o ridare forma. Sappiamo che il Tempo è perduto per sempre, e non tentiamo neppure – assurdamente – di abbracciare le Ombre fuoriuscite dall’Erebo. Alle lacrime “dei ragazzi, e dei vecchi che hanno molto sofferto, delle fanciulle con un dolore recente nel cuore” possiamo rispondere solo con lo strazio impotente, con il dolore che ci ronza nelle orecchie come uno sciame di vespe, con l’illimitato rimpianto.

Quello che ci resta è un disegno in qualche modo eroico: unire le nostre debolezze, le nostre ferite, le nostalgie, gli handicap apparenti (stigmatizzati e perseguiti dalla comunità solo perché segno di diversità rispetto al canone; invisibili lettere scarlatte che attirano vessazioni sistematiche), e un sotteso senso di giustizia. Le piccole o grandi qualità interiori che contraddistinguono ciascuno – irrise, spesso, dalla grettezza farisaica del mondo adulto circostante, dall’ottusità bestiale della maggior parte dei coetanei – si amalgamano in un processo alchemico, dando vita a una materia composita come gli scafi dell’800, fatti di ossatura d’acciaio e fasciami di legno eppure perfettamente funzionali.

Questa sostanza nuova, scaturita dalla saldatura dei percorsi esistenziali accidentati dei sette ragazzi protagonisti di IT, permetterà loro di fronteggiare e ricacciare nell’oscurità infera il Male, incarnatosi in un sinistro e suadente clown, Pennywise, da vari decenni rapitore e uccisore di bambini e adulti nell’apparentemente idilliaca cittadina di Derry, nel Maine.

Ma se Pennywise non è che la rappresentazione della concreta quanto occulta violenza di un intero villaggio, elevato a simbolo di ogni possibile abiezione umana, la vera battaglia per il gruppo dei Perdenti (il balbettante Bill, ossessionato dalla scomparsa del fratellino Georgie, l’obeso ma intelligente e sensibile Ben, il coloured Mike, Beverly dai capelli di fiamma, devastata dalle molestie del padre pedofilo, il sarcastico Richie, fool della banda, l’esile Eddie tormentato da una madre/mostro che per tenerlo stretto a sé lo convince di essere gravemente malato, Stan, ragazzino ebreo inseguito dalle allucinazioni procurategli dalla lettura obbligatoria della Tōrāh) sarà affrancarsi, anche in modo sanguinoso, dalle famiglie disfunzionali e dai persecutori d’ogni età.

Prima ancora, poiché si tratta di creature poste sulla linea invisibile che separa l’infanzia dall’adolescenza, quindi ancora capaci d’incanto, trovare gli istanti irripetibili, epifanici che renderanno eterna quell’estate: il bagno nel fiume increspato di sole, le corse in bicicletta, tutti insieme, verso l’orizzonte.

Alla fine, vera prova iniziatica, salveranno gli scomparsi non ancora uccisi da Pennywise – fra i quali Beverly –, i cui corpi galleggiano nell’aria, presi da una forma di astrazione immemore e atona, entro una caverna conica scavata nella roccia dalle unghie dei giganti, alla cui sommità è situata un’apertura che lascia filtrare una luminescenza d’acquario. Come nelle Carceri di Piranesi, lo spaesamento è dato dai volumi e l’impossibilità di fuga psicologica dal dissolversi nell’aria del concetto stesso di speranza e realizzazione dell’identità. Tormento ulteriore, immaginiamo, quella lontana fenditura, attraverso la quale alle creature sprofondate nell’ipnosi può giungere, irraggiungibile e sottile, l’odore del grano insieme  alla nostalgia della vita. [14]

Ghost Stories

In Ghost Stories, coloro che inopportunamente chiamiamo defunti, ossia sciolti dagli obblighi e dai travagli della vita, sono soltanto usciti dalle nostre possibilità percettive, diventando gli intervalli oscuri di uno spettro a bande. Ma continuano a esistere nel nostro sangue, mangiano e assaporano con la nostra bocca, ascoltano il verso delle tortore con le nostre orecchie, sentono il vento attraverso i nostri occhi, il gusto della risacca sulla nostra lingua. Diventano simili a figli fragili e infelici, o pieni di rabbia. Imprigionati in un’eterna nostalgia, nella mente dei sopravvissuti assumono la forma di una presenza colma di pena, di un conforto e insieme di una dannazione.

Il Prof. Phillip Goodman, di famiglia ebrea ortodossa, è oppresso nell’infanzia da un padre anaffettivo e manicheo, la cui figura tende a incarnare una Legge autoritaria quanto irragionevole. Facile intuire che ci troviamo dalle parti di Casa Kakfa. Una volta laureatosi in psicologia, Goodman dedica la propria esistenza in modo totalizzante e ossessivo a smascherare i falsi medium, gli imbonitori dell’occulto che sfruttano lo strazio di chi ha perso un congiunto e non si rassegna, non può rassegnarsi all’idea che tutto si estingua con la morte, che una persona di cui fino a poco tempo prima sentivano il calore delle mani, e potevano osservare sulla battigia – i capelli scompigliati dal vento della moorland -, semplicemente non ci sia più.

Si muove implacabile, ripetendo come un mantra la frase il cervello vede ciò che desidera vedere, refrattario a ogni dubbio, finché un giorno, convocato in una lurida roulotte in riva al mare da un altro detective del paranormale scomparso misteriosamente da anni e ormai morente, viene in possesso di una busta contenente i dossier di tre casi inquietanti e invitato a risolverli.

Non si pensi a una narrazione lineare. I tre episodi che costituiscono il corpo del film sono tre tessere di un puzzle estremamente sofisticato, dove il disegno va componendosi sotto i nostri occhi entro il cerchio tracciato dalla sequenza iniziale e quella finale (una tendina gialla illuminata dal sole che si muove appena nella cornice di una finestra), identiche e solo in ultimo rivelatrici. Nello stesso tempo l’opera si muove anche in verticale, facendo saltare cronologia e compartimenti stagni fra realtà e rappresentazione metaforica, fra elementi oggettivi e trasfigurazione allegorica, giocando molto e magistralmente con paesaggi e luoghi (coste e brughiere dello Yorkshire, case in vario modo sinistre) frequentati dalla letteratura anglofona (Blackwood, Dickens, le sorelle Brontë, ma anche Lovecraft e King) e qui fotografati da Ole Bratt Birkeland in modo da rendere subito visibile, grazie a un iperrealismo a tratti divertito e realmente perturbante, il loro carattere allucinatorio.

In tutte le Ghost Stories analizzate si agitano interrogativi morali, etici, sociali, e la meditazione sul male connaturato nell’uomo, sulla sopraffazione di classe e di genere, ha la profondità dei racconti di Hawthorne unita a una sorprendente leggerezza. Nel primo “caso”, il cui preludio si svolge in un bar deserto e metafisico a metà fra l’Overlook Hotel di Kubrick e i caffè frequentati dai tanti Nighthawks  di Hopper, il guardiano notturno Tony Matthews, diffidente e dedito all’alcol, rivive dolorosamente davanti a Goodman l’esperienza che gli ha reso la vita ancora più amara e insopportabile. Durante il turno di sorveglianza in un edificio fatiscente ha subìto l’abbraccio di uno spirito infelice. Questa costruzione un secolo prima era adibita a manicomio femminile. Vi venivano recluse tutte le donne non rispondenti ai criteri sociali di piena normalità: ragazzine rimaste incinte (i cui bambini erano gettati via subito dopo la nascita), prostitute, isteriche, mogli ritenute inadeguate (chissà quante), personalità devianti (*). Nella realizzazione e rappresentazione scenografica degli sterminati interni manicomaniali, avvolti nell’ambiguità della notte, Dyson e Nyman riescono a esprimere l’angoscia di una concezione dell’esistenza come eterno, inarrestabile ritorno (o persistenza) del dolore. La sopraffazione di esseri inermi viene evocata dai corridoi labirintici invasi da rifiuti e masserizie, dagli inganni prospettici (perfettamente controllati dalla macchina da presa), dal moltiplicarsi delle distorsioni ottiche originate dall’approssimarsi di una dimensione ignota e sofferente, dalla paura di Tony, che tuttavia non può soffocare il desiderio di capire, di sapere, di cercare un contatto con la bambina fantasma, derelitta e affamata d’amore, reclusa per chissà quale motivo in una delle terrificanti camere di correzione.

Nel secondo episodio il giovane Simon Rifkind, un ragazzo assediato dall’angoscia che vive chiuso a chiave nella propria camera dalle pareti coperte di immagini demoniache, agitato e sull’orlo di un pianto nervoso parla a Goodman del suo incontro nel bosco con un’entità malvagia. Forse una via di fuga al rancore ansioso e al senso di inadeguatezza provocati dalla famiglia.

Nel terzo, Mike Priddle, un broker ricco e cinico, così abile da essere soprannominato “il profeta”, guidando Goodman a passo svelto nella brughiera, gli descrive il gelo tutto metallo e vetro della sua villa hi-tech persa nella campagna inglese, e il salotto così asettico da apparire irreale nel quale si era manifestato una sera lo spettro già morfologicamente alterato e minaccioso della moglie, morta pochi istanti prima in ospedale dopo aver partorito un figlio-mostro, grumo organico generato da due moderni e iperpragmatici vampiri.

Quest’ultima storia apre un canale di comunicazione, per mezzo di passaggi fascinosamente surreali, con il passato di Goodman. Scopriamo così che da ragazzino era puntualmente vessato, perché ebreo e perché timido, da un paio di quei bulli che infestano ogni adolescenza. E un giorno, tornando a casa da scuola attraverso il bosco, i due lo avevano costretto ad assistere alla prova iniziatica fatale imposta a “Kojak”, ragazzo ritardato e ansioso di accettazione. Kojak avrebbe dovuto entrare in una caverna che proseguiva all’infinito diventando un cunicolo sempre più stretto, e contare i primi dieci numeri incisi nella roccia.

Solo che i numeri sono nove, il decimo non esiste. Così Kojak continua il cammino finché il panico arriva a scatenare una crisi epilettica tale da ucciderlo.

Tutta la vita successiva di Goodman è dedicata alla rimozione, anzi al rifiuto violento di questa colpa. Non è stato lui a convincere Kojak, non è stato lui ad assassinarlo. Ma è stato lui a non avvertirlo, ed è stato lui a non chiamare i soccorsi. L’omissione può dannare come l’azione.

Per questo motivo si affanna a negare i fantasmi, il soprannaturale, perché uno di loro gli pesa al centro del cuore. Se un essere umano contribuisce ad uccidere, e non accetta la propria colpevolezza, la sua intera esistenza si trasformerà in una fuga inutile. Fino alla rovina.

Goodman cerca di suicidarsi, ma, purtroppo (per lui)  non muore, e cade in uno stato di coma irreversibile. Diventa una casa con tutte le luci accese ma vuota, un organismo destinato a guardare per sempre la tendina gialla che oscilla piano nel riquadro della finestra di un’anonima clinica.

La speranza è che i cinefili puri vincano i pregiudizi contro i film di genere e vadano a vedere questo piccolo, autentico gioiello splendidamente scritto, girato e interpretato.

(*) Nel corso dell’Ottocento, sia in Europa che negli Stati Uniti, l’ablazione del clitoride è stata usata come rimedio alla masturbazione. Con la clitoridectomia venivano ‘curati’ disturbi psichici come l’isteria, l’epilessia e la ninfomania. Nell’Inghilterra vittoriana l’asportazione del clitoride è stata adottata da una parte della medicina ufficiale e praticata negli ospedali psichiatrici sino ai primi decenni del secolo scorso. Anche secondo Sigmund Freud, è noto, l’eliminazione della sessualità clitoridea rappresentava un requisito indispensabile per lo sviluppo di una femminilità matura. (Danilo Zolo – Jura Gentium, Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale) [15]

Millicent Simmonds in ‘Wonderstruck’

Per restare nell’ambito del bildungsroman, va esaminato l’ultimo film di Todd Haynes, La stanza delle meraviglie, discontinuo ma interessante. Il tema è quello della fuga formativa, alla ricerca di sé e del mondo, incontro alla meraviglia dell’arte e della vita intesa come narrazione incessante, come continuo incrociarsi di sentieri apparentemente distanti. Esistere diventa in questo film tratto dal romanzo Wonderstruck di Brian Selznick, ed è nella realtà di ogni giorno, una germinazione di storie interconnesse.

L’avventura di una bambina sorda dalla nascita, Rose, che nel 1927 evade dall’atmosfera severa e ottusa della casa paterna per cercare nei teatri di New York la madre divinizzata, una celebre attrice del muto, si interseca con quella del piccolo Ben, che ha appena perso l’udito a causa di un fulmine e la madre, amatissima ed elusiva, in seguito a un incidente stradale. A 50 anni dalla prima vicenda, quella di Ben ne ripercorre specularmente la traccia. Sempre a New York, ma nel 1977, il ragazzino segue un labile indizio trovato su un segnalibro nella speranza di conoscere il padre ignoto, una figura indistinta persa nella reticenza della madre.

Senza dubbio un’opera raffinata, visionaria, che porta alle estreme conseguenze alcune soluzioni tecniche di Carol (avvalendosi della collaborazione del compositore Carter Burwell e di quel virtuoso del montaggio che è Affonso Gonçalves), come le soggettive mentali create attraverso dettagli esemplari e sfocature dell’immagine, senza però riuscire a riprodurre una magia forse irripetibile. Haynes cade anzi nel gioco puramente formale, a causa dell’insistito gusto miniaturista e crepuscolare che affiora ovunque, e di ricercatezze stucchevoli. Possiamo citare, per esempio, le prospettive manieriste dei diorami e il proliferante cabinet of curiosities presenti nel Museo di Storia Naturale di New York.

Coinvolgente e ironico, invece, è l’omaggio al cinema muto di Victor Sjöström, con tanto di sequenze melodrammatiche, ricostruite in un nebbioso b/n d’epoca. In questi meravigliosi frammenti, che da soli rendono imperdibile il film e vanno ad accostarsi alla sezione ‘londinese’ di I’m not there, Julianne Moore giganteggia, dispensando alla Mater Dolorosa di Lillian Mayhew, percossa dalla pioggia battente mentre attraversa un rado bosco tentando di proteggere il piccino stretto al seno – un braccio levato verso la furia delle intemperie o, chissà, verso qualche divinità crudele –, una potenza tragica che, nello stesso istante in cui si manifesta, viene destrutturata grazie alla distanza consapevole e incredula di cui poche attrici sarebbero state capaci, forse nessuna.

Pochi minuti dopo, durante l’incontro in camerino con la figlia Rose, Lillian Mayhew esprimerà tutta la futilità e superficialità, la mistificazione illusoria, del concetto stesso di finzione, trattando la bambina come un seccante intralcio. E viene in mente un altro dei personaggi esemplari di J. Moore, l’attrice autoreferenziale e disadattata di Maps to the Stars, che le valse il Prix d’interprétation féminine al Festival di Cannes 2014.

Intensi e sinceri anche i due piccoli protagonisti Oakes Fegley e Millicent Simmonds, vista anche nel recente A quiet place con Emily Blunt, toccanti ed essenziali nella costruzione interiore di un mondo senza suoni, in cui l’assenza di rumore, persino quello della propria voce, se da un lato si traduce in isolamento sociale e difficoltà di comunicazione, dall’altro aumenta la capacità di concentrazione e osservazione dei particolari di un universo combinatorio imprendibile e imprevedibile.

Purtroppo nel finale Haynes si mette a inseguire con visibile affanno la ricomposizione del puzzle emotivo-temporale, e solo Julianne Moore, ancora lei, questa volta nei panni di Rose anziana (nonna di Ben), impedisce agli ultimi 20 minuti del film di crollare disastrosamente nel conformismo mieloso. Bastano impercettibili movimenti delle labbra, una sfumatura melanconica nel sorriso, un riflesso di consapevolezza negli occhi, e l’atteggiamento del corpo da piccolo uccello solitario durante una passeggiata, a cancellare ogni sospetto di artificio, inverosimiglianza o accomodamento un po’ troppo edificante. [16]

Dogman

Vincere il tedio e prestare un minimo di attenzione al poco o pochissimo di decoroso che propone il cinema italiano rappresenta ogni volta una grande fatica. Premesso che per la cultura anglofona che contraddistingue Guadagnino (meno male), non riusciamo a considerarlo un regista indigeno, l’oggetto di pregio 2017-18 è senza dubbio Dogman di Matteo Garrone. Tocca corde profonde il chinarsi umile e acuminato di Matteo Garrone (e di Ugo Chiti) sulla mite crudeltà degli uomini, sull’imperfezione inevitabile che si annida in ogni individuo, sulla solitudine e sul bisogno di essere visti, sui microscopici destini enormemente infelici che ci scorrono accanto.

Impressionante, in Dogman, la derelizione morfologica del paesaggio, comune a molte  no man’s land del mondo, da Detroit alla Magliana. L’analisi dell’entropia come misura dell’indifferenziazione di sistemi solo in apparenza lontani, e il delitto come forza dissipativa che, pensando di arrivare a una rivendicazione di sé, dà invece luogo a un processo di annichilazione. [17]

Napoli velata

Eppure è l’imperfezione di Napoli velata ad averci colpiti. Se il nuovo lavoro di Ozpetek si poneva lo scopo di “svelare” il lato misterico di Napoli, di indagare la sua natura di palude argolica, di porta d’accesso allo Stige, di palcoscenico arcaico dove si rigenerano incessantemente i cerimoniali oscuri delle lernèe, possiamo dire che il risultato è raggiunto solo in parte.

Suscitano, ad esempio, una certa perplessità le luci museali da archistar che se da un lato raffreddano la materia trattata, evitando visceralità e folklore, dall’altro danno ai corpi di pietra un’evidenza patinata che contrasta con le scelte formali che caratterizzano lunghi tratti del film. Certi interni high-tech privati e pubblici sembrano rispondere alla stessa necessità, pur restando a un’incolmabile distanza dall’apocalisse irreversibile di capolavori come Nocturnal Animals.

Del fastidio maldestro e scettico provato da Ozpetek quando decide di avventurarsi in territori che lambiscono la ghost story, ci eravamo già accorti ai tempi di Cuore Sacro e Magnifica presenza. Troppo loquaci, troppo materici e quotidiani i suoi fantasmi per riuscire perturbanti e condurci davvero dietro lo specchio. Pur pallidi, e a volte persino smagriti e disorientati, non sono che il riflesso di un desiderio umano diventato ossessione.

Persino la complessa trama del film, una volta dipanata, si riduce a sceneggiatura da fiction televisiva, con cadute nella sgradevolezza di un grottesco eccessivo e ridicolo (la sequenza della medium allettata, o quella in cui si srotola fra luoghi comuni d’ogni sorta la riunione di anziane trans malvissute), nell’ode alla sana normalità familiare (il poliziotto buono con annesso figlioletto), o nella frase a effetto autobiografica (secondo quanto dichiarato dal regista) che in un fotoromanzo degli anni ’50 avrebbe sicuramente colpito al cuore le trepidanti lettrici: domattina farò tardi perché passerò la notte con te.

Quanto alle pubblicizzatissime sequenze erotiche, si avverte una netta sensazione di déja-vu, come se Ozpetek avesse compiuto un’operazione di copia/incolla servendosi della lunghissima scena d’amore contenuta in La vie d’Adèle. Solo che, nella realizzazione tecnica di quest’omaggio (chiamiamolo così), non avendo Ozpetek la potenza e la profondità di Kechiche, vanno perduti i riferimenti a Pasolini, alla carne illune di Mantegna, alla fragile immanenza dei corpi che si scontrano alla ricerca di un’impossibile fusione, di una temporanea eternità che continuamente si sottrae alla presa.

Cosa resta? Reperti anatomici molto belli, molto ben fotografati, che ripetono i movimenti famelici del desiderio, di un amour fou per sciampiste che avrebbe gettato nello sconforto, o fatto inorridire, la povera Adèle Hugo di Truffaut.

Di positivo c’è il tentativo di comporre un’opera nera e visionaria con pochissimi precedenti in Italia; vengono in mente soltanto L’amore molesto di Martone e tre film di Tornatore: Una pura formalità, La sconosciuta, La migliore offerta. Puntando quasi tutto sulla forza evocativa e deformante delle immagini, Napoli velata riesce qua e là a produrre effetti di grande suggestione, alcuni indimenticabili. Possiamo ricordare le scale interne dei palazzi, che assumono sotto i nostri occhi la forma di spirale galattica per rappresentare lo smarrimento umano davanti alla perdita barocca di ogni punto di riferimento. O le luci acide, scortecate, che inducono un reale malessere entro i corridoi dell’Istituto di Medicina Legale, e mostrano la morte con una crudezza silenziosa e asciutta che evidenzia la maturità raggiunta dal regista rispetto alla morgue pop e canterina di Saturno contro.

O ancora, gli spunti inquieti da Cunto de li Cunti: il ragazzo in preda ai dolori del parto nella rappresentazione teatrale privata che dà inizio alla storia; le carni corrose dalla lebbra millenaria del disincanto; il riso addolorato e sommesso di Peppe Barra, grandioso e misurato cantore della vicenda, ironico Nume destinato al sacrificio; il ballo, lento antico perverso, fra le due collezioniste d’arte Ludovica e Valeria, legate da una relazione saffica e probabili omicide. Lina Sastri e Isabella Ferrari, sottilmente crudeli, si servono di una maschera antica (un reperto archeologico, motore dell’intera vicenda delittuosa, un po’ come, in chiave di commedia, il simulacro priapesco con cui viene soppresso il laido architetto Garrone in La donna della domenica) per blandirsi e occultarsi durante la danza rarefatta da Lamie.

Da citare l’eleganza di Anna Bonaiuto, cui basta accennare qualche movimento su una musica perduta e ritrovata per portarci via, lontano, verso esperienze iniziatiche: Yet still stedfast, still unchangeable,/Cheek-pillow’d on my fair Love’s ripening breast,/To touch, for ever, its wam sink and swell,/Awake for ever in a sweet unrest,/Still, still to hear her tender-taken breath,/And so live ever—or else swoon to death. (1)

E, senza dubbio, la combustione ininterrotta (di desiderio, di dubbio, di sperdimento, di illusione, di paura, di perdita) che avviene negli occhi di Giovanna Mezzogiorno, splendida interprete di Adriana, segnata dalla sensazione di scivolare sul piano inclinato di una realtà sempre più inconoscibile.

  1. John Keats, Bright Star (sempre/costante ed immutabile posare/il capo sul bel seno maturante/del mio amore e sentire eternamente/il suo dolce abbassarsi e sollevarsi,/per sempre desto in una dolce ansia,/sempre udire il suo tenero respiro/e vivere cosi perennemente -/o svenire altrimenti nella morte.) [18]

 

Dove cadone le ombre

L’esordio nel lungometraggio della brava documentarista Valentina Pedicini, autrice di un film dall’atmosfera mittereuropea, si è rivelato inaspettatamente felice. C’è una costante penombra verdognola o azzurrina, ovattata, nelle stanze e nei corridoi infiniti dell’Istituto per anziani svizzero dove si avvita ininterrottamente la serpentina temporale di Dove cadono le ombre. Abbiamo la sensazione di muoverci, con un vago senso di allarme o timore, dentro le particelle liquide dell’aerosol, di sentire gli odori onnipresenti di farmaci, medicamenti, brodo caldo, abiti e scialli portati troppo a lungo.

Con una timidezza impotente osserviamo una donna al tramonto della vita cadere seguendo il fantasma di un uomo amato in gioventù. E piangere, come una bambina, per il ginocchio ferito e ancor più per la consapevolezza della propria solitudine. Perché siamo tutti vittime della memoria, per lo più incapaci di andare avanti, di superare il dolore (della perdita, di qualsiasi perdita, che si tratti degli affetti, dell’autonomia fisica, della propria identità). Anche Anna, che lavora come infermiera e fisioterapista nella casa di riposo, vive murata in un dolore che le si stringe addosso di giorno in giorno, di momento in momento. Il dolore di essersi sentita rifiutata, diversa, sbagliata, per tutta l’infanzia a causa dell’appartenza all’etnia jenisch, e rinchiusa insieme a tanti altri bambini (il genocidio, reale e sconosciuto, venne attuato nella civile Svizzera dal 1926 al 1986) in quello stesso Istituto, un tempo ufficialmente orfanotrofio, anche se di orfani fra quei bimbi non ne figurava neppure uno.

Tolti alle famiglie, venivano sottoposti a torture ‘educative’, per esempio il bagno nei cubetti di ghiaccio, nel tentativo malato di correggerne la cattiva indole originata dal patrimonio genetico ‘inferiore’, e a esperimenti di eugenetica, nonché sottoposti a pratiche mediche varie come la sterilizzazione, il coma insulinico e altre amenità di marca nazionalsocialista.

La ragazza, cortese con gli anziani ospiti ma inevitabilmente fredda, perché priva dell’alfabeto del corpo necessario  a esplicitare un’emozione, si dibatte come una cavia, oltre che nella sofferenza, in un senso di colpa che la costringe a rimanere fra quelle mura, aggrappata al passato.

I bambini sentono un disperato, primario, bisogno di sentirsi accolti, di far parte di qualcosa. E Anna, dotata di tratti fisiognomici ariani, aveva accettato la protezione di Gertrud, il medico posto alla guida del progetto di genocidio. Accettato la protezione e insieme la sfida della donna a diventare forte, diversa dai suoi compagni, degna della stima di un’etnia superiore; era diventata allieva di Gertrud, fino ad assisterla durante le pratiche mediche. E tutto questo, adesso, le grava sul cuore come una pietra amara. La pena che si autoinfligge, come espiazione e riscatto, è di cercare ostinatamente, nel parco dell’istituto, il corpo dell’amatissima amica Franziska, che crede sia stata uccisa molti anni prima proprio da Gertrud e in quello stesso luogo sepolta.

L’arrivo nella casa di riposo di Gertrud, anziana e malata, giunta lì proprio per cercare Anna, per riallacciare quel lontano rapporto, imprime alla narrazione un ritmo più serrato e cattivo. Gertrud provoca Anna con frasi di sottile crudeltà, le rimprovera di non riuscire a dimenticare il passato, rivendica e difende le proprie azioni. Anna, esasperata, la sottopone allo stesso supplizio patito da bambina: il bagno gelato. Non per crudeltà, ma per rabbia e disperazione. Non sa ancora che i carnefici gioiscono intimamente per aver raggiunto il loro scopo quando le vittime di un tempo riproducono gli stessi comportamenti efferati. Sei come me, le dice Gertrud mentre si trova immersa nella vasca, rivolgendole uno sguardo duro e trionfante in cui scintilla, azzurra e tangibile, l’essenza stessa del Male (Elena Cotta, Coppa Volpi alla Mostra di Venezia 2013 per Via Castellana Bandiera di Emma Dante, si produce in una rappresentazione insinuante e caparbia, memorabile, delle tecniche manipolatorie). Persino Anna ne è convinta, ma così non è.

Sarà la morte dell’anziana, inerme signora convinta di aver ritrovato in Anna la madre perduta, una madre che l’avrebbe portata di nuovo a pranzo sul mare (e per dolce un gelato con i pezzetti di cioccolata), insieme a quella domanda innocente, appena sussurrata, morirò?, a riportare la ragazza entro una tenerezza umana che pensava le fosse stata sottratta per sempre. La lunga sequenza del lavaggio post-mortem di quel corpo vecchio e informe, un blocco unico, è la più struggente e densa del film: non è possibile distogliere l’attenzione dalla delicatezza con cui la ragazza passa spugne e salviette sulla pelle deturpata dalle macchie del tempo, sulle gambe offese dalle vene sclerotizzate.

Arriverà anche a superare il risentimento e sollevare fra le braccia Gertrud, svenuta per un malessere. A portarla in una doccia e abbracciarla sotto il getto d’acqua, perché non si smette mai di essere una madre e una figlia; non ha importanza che il legame possieda il calore delle ore meridiane o abbia la forma di una shakespeariana cosa di tenebra.

Potrà persino dire addio, stavolta sul serio e in maniera definitiva, a Franziska, non uccisa fisicamente bensì adottata da Gertrud, quindi uccisa nell’anima. Resa pragmatica, avida, fatua, indifferente, finge di non riconoscere l’amica d’infanzia, e trova nei motivi per i quali ha soppresso le proprie origini la forza di nascondere le lacrime che pure le inondano gli occhi.

Se ne va, lasciandosi alle spalle Anna (Federica Rosellini) e il loro pupazzo preferito, liberando così la ragazza, in quel preciso istante, dal peso dei ricordi.

Valentina Pedicini, documentarista di valore, compone un kammerspiel austero e di intensità implacabile, che non avrebbe sfigurato nella sezione principale della 74. Mostra del Cinema di Venezia, al posto di qualche ingombrante e ombelicale bluff “d’autore” (vedi Foxtrot), anziché nelle Giornate degli Autori[19]

 

Emmanuelle Seigner ed Eva Green in ‘Quello che non so di lei’

Anche se verrebbe voglia di glissare sui film di Polanski e Ozon, la grandezza dei due autori lo impedisce. In Quello che non so di lei (D’après une histoire vraie), Delphine, una famosa scrittrice alle prese con un blocco creativo, incontra una strana e seduttiva donna che pian piano le cambierà la vita.

Un film che sulla carta aveva tutti i requisiti per avvicinarsi al capolavoro (regia di Polanski, collaborazione di Assayas, presenza di due attrici come Emanuelle Seigner ed Eva Green), ma che a conti fatti rappresenta un’occasione mancata.

La ragione è la presenza di troppe teste pensanti e la più ingombrante paradossalmente è quella di Delphine de Vigan, l’autrice dell’omonimo romanzo dal quale è tratta la sceneggiatura. E così il doppio atteso diventa una figura esagonale che non crea ambiguità ma solo confusione. L’aspetto più deludente è Assayas che risulta limitato e bloccato come invece non era stato nello straordinario Sils Maria, in cui racconta sempre la storia di due donne coinvolte in una dinamica di identificazione/sdoppiamento.

Per quanto riguarda le due attrici protagoniste nulla da eccepire. Ma nonostante Seigner e Green abbiano fatto del loro meglio e abbiano creato una buona chimica, questo rapporto “simbiotico” non risulta mai accattivante. E forse il regista piuttosto che ispirarsi a Misery non deve morire avrebbe fatto meglio a guardare Inserzione pericolosa.

Quello che non so di lei non si può certo definire un film brutto o noioso ma sicuramente non raggiunge le sue potenzialità. La responsabilità finale di questa incompiutezza è da attribuire a Polanski che l’ha girato stancamente come fosse il suo stesso Uomo ombra; il ghostwriter di quel regista che in passato ha realizzato capolavori come Rosemary’s baby, Chinatown, L’inquilino del terzo piano e più recentemente film interessanti come L’uomo nell’ombra e Venere in pelliccia. Inoltre è un peccato che non abbia sfruttato le incredibili potenzialità di un’attrice come Eva Green, che invece di citare Kathy Bates avrebbe potuto ricreare una Carmilla che seduce e vampirizza la propria vittima. [20]

 

Jérémie Renier e Marine Vacht in ‘L’amant double’

Passiamo a Doppio amore (L’amant double) di Ozon. Chloé è una ragazza che soffre da anni di uno strano mal di pancia di cui non si conosce la causa. Per questo decide di rivolgersi a uno psichiatra, Paul, che pian piano l’aiuterà e di cui si innamorerà. Dopo essersi rivelati i propri sentimenti i due decidono di interrompere le sedute e di andare a vivere insieme. Poco dopo Chloé scopre casualmente l’esistenza del gemello di Paul, anche lui psicoterapeuta e decide di intraprendere con lui (di nascosto) un percorso di analisi.

La protagonista è eccitata all’idea di frequentare due persone identiche ma allo stesso tempo diverse. Questo rapporto però si trasformerà in una tormentosa relazione che farà emergere alcuni segreti del passato e culminerà in un imprevedibile finale.

Il tòpos dei gemelli, considerati come doppio speculare e morboso, era già presente in Inseparabili di Cronenberg, con protagonista Jeremy Irons. Ozon aggiunge però una spietata competizione tra i due, in cui uno vorrebbe dominare l’altro e possederlo quasi fino a cannibalizzarlo. Più recentemente sono state due serie tv che hanno riproposto questo tema: American Horror Story. Freak show dove Sarah Paulson incarna due gemelle siamesi e The Deuce con James Franco. E sembra che Ozon si sia ispirato proprio al primo per girare una scena particolare in cui viene visualizzata la fantasia più estrema di Chloé.

Un altro riferimento inevitabile è Rosemary’s baby di Polanski. Anche in Doppio amore a film concluso ci si chiede dove finisca la realtà e dove comincino i deliri paranoici di Chloé. Quasi tutti i personaggi infatti sono deformati dalla sua mente paranoica e sembra che nascondano una natura maligna. A cominciare dalla vicina di casa, amante dei gatti, che ricorda proprio Minnie Castevet/Ruth Gordon, predatrice diabolica di Rosemary/Mia Farrow. Ma in qualche modo viene in mente anche un’altra celebre vicina, la Coco di Mulholland drive. In questo senso tutti i personaggi di Doppio amore sono lynchiani, figure evanescenti e fantasmagoriche che non si capisce più da quale sogno provengano.

Ozon ha scelto di girare in digitale per avere una maggiore libertà espressiva e in effetti alcune suggestioni visive sono degne del miglior cinema sperimentale. Ma se il film ne ha giovato da un punto di vista stilistico, la narrazione sembra arrovellarsi su stessa, come se il regista a un certo punto, perso il controllo della storia, si fosse smarrito nei meandri della mente di Chloé. [21]

Richard Jenkins e Sally Hawkins in ‘The shape of water’

A proposito di delusioni parziali, è il momento di affrontare il film più sopravvalutato, visto, discusso e premiato da settembre ad ora: l’ipertrofico The shape of water (La forma dell’acqua) di Guillermo del Toro. Non sembra casuale che in questa stagione alcuni autori più o meno importanti, da Woody Allen a George Clooney, abbiano deciso di puntare una lente anamorfica sulla società statunitense degli anni ’50. E’ evidente il tentativo, riuscito in entrambi i casi citati, di trovare corrispondenze insidiose fra quel decennio e l’attuale “epoca Trump”, caratterizzata dalla grossolanità degli enunciati tracimanti razzismo, omofobia, machismo e liberismo privo di qualsiasi regola o vincolo.

Dietro la perfezione laccata dell’America come “migliore dei mondi possibili” – pianeta luccicante abitato da uomini laboriosi e rosee, cinguettanti massaie e segretarie alla Doris Day – si celavano congegni di controllo sociale, nonché persecuzione individuale e collettiva, degni del Kgb post-rivoluzionario e dei tanto temuti bolscevichi. Non soltanto gli orrori del maccartismo, ma ancor più la capillare organizzazione tendente a normalizzare o eliminare (le porte dei manicomi si aprivano con allarmante facilità) ogni devianza.

Si unisce a questo filone cinematografico anche The shape of water del regista messicano Guillermo del Toro, Leone d’Oro Miglior Film all’ultima Mostra di Venezia e insignito di 13 nominations agli Oscar 2018.

La struttura e l’iconografia del film sembrano accostarsi alla narrativa weird di ascendenza gotico-ottocentesca, cui possono essere ascritti Angela Carter, con venature grottesche e visionarie, e Jeff VanderMeer, che innesta nella tradizione distopica elementi fiabeschi, portando alle estreme conseguenze la lezione dell’appena scomparsa Ursula Le Guin, grande miscelatrice di generi e prima teorica della fluidità del gender (La mano sinistra delle tenebre).

La vita di Elisa è scandita da rituali quotidiani immutabili: la bollitura delle uova – anch’esse omologate, irrealmente pulite e tutte di uguale grandezza e colore –, la preparazione dei sandwichs da portare con sé al lavoro, chiusi in un sacchettino di carta stretto al petto, l’onanismo privo di perversione praticato nella vasca da bagno, la visita al vicino di casa e amico Giles, un disegnatore pubblicitario di mezz’età, licenziato a causa dell’avvento delle foto e dell’omosessualità non troppo latente. Con questo gentile e malinconico compagno Elisa condivide le minute avventure di ogni giorno: i film musicali trasmessi in tv (i due esclusi improvvisano anche un divertito tip-tap rimanendo seduti sul divano), le uscite in un “caffè per famiglie” per l’acquisto di iperboliche torte azzurre e verdi glassate di bianco che Elisa non riesce a deglutire. Qualcuno forse ricorderà la disperata Laura Brown di Julianne Moore in The hours di Daldry, e i suoi vani tentativi di confezionare una torta perfetta anziché gli strani oggetti sbilenchi, metafora di una condizione interiore lacerata, che escono dal forno della cucina iperattrezzata quanto alienante.

In quello stesso caffè Giles subirà l’ostilità perbenista e aggressiva del giovane commesso, scatenata da un inoffensivo gesto di tenerezza.

Imprigionata nel mutismo per le sevizie subite nell’infanzia, di cui vediamo le cicatrici fin dalle prime inquadrature, su entrambi i lati del collo, Elisa ha sviluppato una percezione acutissima e una sensibilità estrema. Lavora come donna delle pulizie in un centro aerospaziale il cui interno, in alcune sequenze di straordinaria bellezza, viene raffigurato come il ventre di un gigantesco cetaceo dalle vertebre e costole formate da tubi metallici. Altri locali, più angusti, deteriorati da un inizio di entropia, suggeriscono l’imminente endgame della modernità. O meglio la sua progressiva metamorfosi in cloud provider, paradigma perverso utilizzato dal capitalismo immateriale, potente e manipolatorio quanto inafferrabile, indifferente al destino di cose e persone.

Elisa trova una protezione materna nella pragmatica collega di colore Zelda (la brava Octavia Spencer). Le due donne un giorno incrociano l’arrivo di un nuovo soggetto misterioso, chiuso in una capsula piena di acqua salmastra e accompagnato da un addetto alla sicurezza arrogante e violento, il colonnello Strickland. Questo energumeno, prototipo del maschio ariano fautore della supremazia della razza – per il quale si potrebbe azzardare un passato nel Ku-Klux-Klan –, oltre a urinare con le mani sui fianchi come dimostrazione di carattere virile e chiudere la bocca alla moglie con una mano durante gli amplessi per ridurla a oggetto inanimato, brandisce con orgoglio un manganello elettrificato fuor di misura (simbolo fallico?) atto a torturare a sangue la Creatura prelevata nei corsi d’acqua amazzonici, per mortificarne l’aspetto divino ed estraneo, per umiliare e piegare – incatenandolo e privandolo dell’elemento vitale, riducendolo a una povera cosa martoriata – un Essere che incarna il lato perturbante della Natura.

Nella cornice dell’intrigo internazionale fra USA e URSS legato alle missioni spaziali e agli esperimenti sull’Essere primordiale – entrambe le potenze arrivano alla conclusione di sopprimere l’anfibio umanoide e la sua strana bellezza per danneggiarsi a vicenda –, nasce attraverso piccoli approcci delicati (l’offerta di uova, l’ascolto della musica) un sentimento profondo fra i due diversi: Elisa e il Dio delle Acque. Un’attrazione dei sensi e dello spirito, una comunanza fra reietti che in realtà possono essere considerati eletti, happy few, perché in grado di percepire quel che è nascosto dietro il visibile. La realtà non basta a far diventare vera l’esistenza, e il decadimento delle qualità umane non può che far desiderare l’avvento di forme di vita pre-umane o addirittura post-umane; ad esempio gli androidi empatici e cortesi mostrati da Spielberg in A.I., o la donna-robot che riesce ad emanciparsi in Ex-machina. Per tacere dei replicanti di Blade runner, così infinitamente poetici nell’evocare in punto di morte le astronavi in fiamme alle porte di Tannhauser.

Il tentativo di portare la Creatura fuori dal Centro sembra in un primo momento avere un epilogo tragico, ovvero la morte di Elisa. Tuttavia, trascinata nelle profondità marine dall’uomo anfibio, la ragazza muta sarà riportata in vita da un suo bacio. Questo finale immerso (alla lettera) nel realismo magico sudamericano (Marquez docet) è però il vero punto debole del film. Troppo zuccheroso e hollywoodiano, più che commuovere irrita e rischia di compromettere la credibilità complessiva dell’opera.

Nonostante le scelte stilistiche, qua e là da graphic novel, gli interpreti riescono quasi sempre a superare l’unidimensionalità dei personaggi, trovando accenti toccanti o connotati da una comicità triste alla Buster Keaton. In particolare, Sally Hawkins (vista e molto apprezzata in Blue Jasmine di Allen) crea un raffinato intarsio di emozioni, trasalimenti, sogni. [22]

Charlize Theron e Sofia Boutella in ‘Atomic Blonde’

Last but not least, riserviamo la chiusura al film che ha aperto la stagione e che a distanza di molti mesi continuiamo ad amare senza riserve: Atomic Blonde. Ci congediamo così, all’insegna del lasciateci divertire, dell’eresia e della faziosità che fin dalla nascita caratterizzano questa rubrica. Immagini concise e connotate dalla velocità rappresentano con efficacia il crinale di un mondo in cambiamento, o in dissoluzione destinata a rigenerarsi in altra forma, come avviene in modo ciclico dalla fine del XVI° secolo. Lo scardinamento di un ordine – sociale, politico, individuale – comporta, in particolare nella transizione da ancien régime a novità apparente, la perdita delle coordinate interiori, collettive e personali.

Nell’imminenza del crollo del muro di Berlino, la neve copre, e nello stesso tempo fa risaltare, la fatiscenza urbana originata da 35 anni di incuria arrogante e ottusa. Un grigio verdognolo muffoso ristagna nei corridoi delle stazioni, ancora sorvegliate ossessivamente dalla Stasi, mentre le rampe di scale e gli appartamenti diventano labirinti ciechi, disadorni, insidiosi, da racconto kafkiano, e la polizia politica massacra giovani dissidenti in capannoni industriali dismessi, nei quali la luce naturale, biancastra, definisce linee di un nitore duro e metallico che non concede vie di fuga, neppure mentali.

Accanto ai ruderi della DDR già si innalzano nuove costruzioni di moderna concezione ultraoccidentale. Assumono un ruolo fondamentale nel film le luci al neon, in grado di modificare la percezione delle cose creando sfumature eccessive e acide che lasciano spazio alle ombre underground dei primi locali trasgressivi, antitetici rispetto al minculpop dominante, muniti di spazi dove potersi appartare per incontri (o scontri) sessuali repentini e rapaci. Luci che generano quasi un corpo ulteriore, o rivestimento metamorfico, capace di aderire e sottolineare vicende e caratteri, così come la trascinante colonna sonora che riporta in vita le atmosfere di un intero decennio: Depeche Mode, David Bowie, New Order, Queen, Falco, Duran Duran.

I movimenti giovanili, animati dallo spirito anticonformista punk, premono sempre più forte contro i bunker metaforici e reali della Repubblica Democratica, organizzando proteste, manifestazioni e fughe verso Berlino Ovest. Occasionalmente, collaborano con i servizi segreti occidentali. E Atomic Blonde è proprio una spy story, adrenalinica e lisergica, ispirata alla graphic novel “The Coldest City”, il cui plot ricorda i romanzi di Le Carré. O, per via del disincanto e dell’assenza di speranza, per la consapevolezza di trovarsi al di là del confine estremo del canone di umanità, certi racconti coloniali di Maugham o Conrad.

Una lista di nomi di agenti NATO che collaborano con il Kgb è contesa da MI6, CIA e DGSE, mentre l’intelligence russa cerca di intercettarla per neutralizzarne gli effetti. Come nelle spy story classiche le soglie appaiono evanescenti, nessuno conosce esattamente il proprio ruolo e la propria fazione, né dove militi o che finalità abbiano l’avversario o il presunto alleato. Persino l’aspetto esteriore è funzionale alla strategia adottata e allo scopo da raggiungere. Ci si riveste di un’aura eroica, invece, a un certo punto della vita, nella Terra di Nessuno di Berlino Est, si scopre di essere collaboratori del demonio. Intanto i contorni si sfumano, ciò che si presume ormai noto si fa, per un effetto di straniamento, lontano, mostruoso, incomprensibile, portando la cognizione di sé alla deriva, verso un’esistenza basata sul senso di allarme, sulla diffidenza, sulla percezione animale del pericolo, perché il mondo è fondato sui segreti, allora come oggi. Però Atomic blonde va oltre. Oltre persino un esercizio di stile superbo, con montaggio e prospettive come punto di forza e sequenze di grande potenza visiva ed emotiva (per esempio, l’annegamento di Spyglass, figurina patetica e gogoliana di spia senza vocazione).

Il regista David Leitch, con il contributo essenziale di Charlize Theron, grandiosa Lorraine Broughton, e di un ottimo cast (James McAvoy, James Faulkner, Toby Jones, Eddie Marsan, John Goodman, Sofia Boutella), ci racconta come l’inevitabilità e la normalità di uccidere ed essere uccisi non solo si innestino nella carne dei protagonisti, ma a un certo punto si disconnettano da motivazioni reali diventando automatismo patologico (assai attuale), in un crescendo di violenza insostenibile e a suo modo ipnotizzante. Violenza, per inciso, non ritualizzata e citazionista, quindi inoffensiva, come quella che attraversa i film di Tarantino, bensì terribilmente materica, brutale, legata alla parte arcaica della mente e votata alla pura sopravvivenza fisica e all’eliminazione dell’antagonista.

Persino l’incontro fra Lorraine e Delphine, giovane agente francese spaventata e impreparata, pur avvolto dal lento trascolorare di una speranza possibile sullo sguardo di Lorraine (ed è un momento di grande recitazione), ha i caratteri dell’aggressione fisica; e la successiva scena di sesso fra le due ragazze si distingue per la disperazione appassionata e rapinosa, priva di orpelli, facendo svanire finalmente (ma era già successo anni fa in Il cigno nero) il luogo comune della dolcezza dell’amore saffico, ma con eleganza, senza scadere nell’insistita carnalità di La vita di Adèle. [23]

 

[1] Lucia Tempestini & Sergio Cervini, I tredici volti di Cate. ‘Manifesto’ di J. Rosefeldt con C. Blanchett (Scénario 02/07/2017)

[2] Anna Di Mauro, La giovinezza fragile delle rughe.’Visages, villages’ docufilm di Agnès Varda e JR (Scénario 17/04/2018)

[3] Lucia Tempestini, La vendetta arcaica di Martin. ‘Il sacrificio del cervo sacro’ di Yorgos Lanthimos (Scénario 11/07/2018)

[4] Lucia Tempestini, Il “mondo a parte” del Farnsworth Seminary. ‘The beguiled’ di Sofia Coppola (Scénario 03/09/2017)

[5] Lucia Tempestini, La ballata dolente di Mildred Hayes. ‘Tre manifesti a Ebbing, Missouri’ di Martin McDonagh (Scénario 04/03/2018)

[6] Lucia Tempestini & Sergio Cervini, Desiderio impressionista. ‘Chiamami col tuo nome’ di Luca Guadagnino (Scénario 05/02/2018)

[7] Lucia Tempestini, La corda tesa di Hideko e Sook-hee. ‘The Handmaiden’ di Park Chan-wook (Scénario 05/04/2018)

[8] Lucia Tempestini & Sergio Cervini, Un tragico mattino domenicale. ‘Suburbicon’ di G. Clooney con J. Moore

[9] Lucia Tempestini, La mente prigioniera di Ginny. ‘La ruota delle meraviglie’ di Woody Allen (Scénario 12/01/2018)

[10] Giuseppe Condorelli, Il pianto segreto di Alëša. ‘Loveless’ di Andrej Zvjagincev (Scénario 22/06/2018)

[11] Lucia Tempestini, Tre bambini sulla schiuma dei giorni. ‘Un sogno chiamato Florida’ di Sean Baker (Scénario 07/04/2018)

[12] Simona Almerini, La ‘black  comedy’ politica di Sally Potter (Scénario 04/02/2018)

[13] Sauro Borelli, Avventura burlesque. ‘Parigi a piedi nudi’ di Abel & Gordon (Scénario 20/05/2018)

[14] Lucia Tempestini & Sergio Cervini, Le “Carceri” di Stephen King. ‘IT’ di Andreas Muschietti (Scénario 25/10/2017)

[15] Lucia Tempestini, La tendina gialla del Prof. Goodman. ‘Ghost Stories’ di Dyson & Nyman (Scénario 05/05/2018)

[16] Sergio Cervini, Il gioco combinatorio di Todd Haynes (Scénario 05/07/2018)

[17] Lucia Tempestini, da Cannes 2018. Le scelte programmatiche della Giuria (Scénario 22/05/2018)

[18] Lucia Tempestini & Sergio Cervini, Il piano inclinato di Adriana. ‘Napoli velata’ di Ferzan Ozpetek (Scénario 12/01/2018)

[19] Lucia Tempestini, La pena di sentirsi sbagliati. ‘Dove cadono le ombre’ di Valentina Pedicini (Scénario 19/02/2018)

[20] Simona Almerini, Quello che non so di lei (D’après une histoire vraie), ovvero quello che Polanski non sa della seduzione (Scénario 13/03/2018)

[21] Simona Almerini, Le quattro facce dell’amore. ‘Doppio amore’ di François Ozon (Scénario 14/04/2018)

[22] Sergio Cervini, La divinità prigioniera di Guillermo del Toro: ‘The shape of water’ (Scénario 04/03/2018)

[23] Lucia Tempestini, I labirinti ciechi di Berlino Est. ‘Atomic Blonde’ di D. Leitch, con Charlize Theron (Scénario 22/12/2017)

 

Appendice

Per la prima volta i due principali artefici del ‘giornale di bordo’ si permettono di stilare una sorta di palmarès ciascuno di sapore hollywoodiano. Sperando di non suscitare sdegno (oppure di suscitarlo). Il gioco deve essere gioco fino in fondo.

 

1. Lucia Tempestini:

 

Miglior film THE KILLING OF A SACRED DEER

Migliore regia SOFIA COPPOLA (The Beguiled)

Migliore sequenza ATOMIC BLONDE: ‘incontro’ fra Lorraine e Delphine

Gran Premio della Stagione THREE BILLBOARDS OUTSIDE EBBING, MISSOURI

Premio Speciale ex aequo CATE BLANCHETT e PARK CHAN-WOOK

Miglior commedia ex aequo WONDER WHEEL e THE FLORIDA PROJECT

Miglior documentario VISAGES, VILLAGES

Miglior film italiano NAPOLI VELATA

Migliore sceneggiatura originale JOEL & ETHAN COEN  (Suburbicon)

Migliore sceneggiatura non originale JAMES IVORY (Chiamami col tuo nome)

Miglior soggetto YORGOS LANTHIMOS & EFTHYMIS FILIPPOU (The killing of a sacred deer)

Miglior fotografia ALEKSEI RODIONOV (The Party)

Migliori costumi STACEY BATTAT (The beguiled)

Migliori scenografie GRANT MONTGOMERY (Ghost Stories)

Make-up e hairstylist IT

Effetti visivi GHOST STORIES

Montaggio YORGOS MAVROPSARIDIS (The killing of a sacred deer)

Colonna sonora THE KILLING OF A SACRED DEER (Ligeti, Gubaidulina, Schubert, Bach)

Miglior attrice NICOLE KIDMAN (The killing of a sacred deer)

Miglior attore TIMOTHEE CHALAMET (Chiamami col tuo nome)

Miglior attrice np JULIANNE MOORE (Wonderstruck)

Miglior attore np SAM ROCKWELL (Three billboards outside Ebbing, Missouri)

Miglior esordiente MILLICENT SIMMONDS (Wonderstruck)

 

2. Sergio Cervini:

 

Miglior film CHIAMAMI COL TUO NOME

Migliore regia MARTIN MCDONAGH (Three billboards outside Ebbing, Missouri)

Migliore sequenza THREE BILLBOARDS OUTISIDE EBBING, MISSOURI: incendio dei manifesti nella notte

Gran Premio della Stagione IL GIOVANE KARL MARX

Premio Speciale FRANCES MCDORMAND (Three billboards outside Ebbing, Missouri)

Miglior commedia WONDER WHEEL

Miglior documentario non assegnato

Miglior film italiano NAPOLI VELATA

Migliore sceneggiatura originale PASCAL BONITZER & RAOUL PECK (Il giovane Karl Marx)

Migliore sceneggiatura non originale JAMES IVORY (Chiamami col tuo nome)

Miglior soggetto HENRI CHARRIERE (Papillon)

Miglior fotografia BEN RICHARDSON (I segreti di Wind River)

Migliori costumi PAULE MANGENOT (Il giovane Karl Marx)

Migliori scenografie DENIZ GORKTUK KOBANBAY & IVANA GARGIULO (Napoli velata)

Make-up e hairstylist IT

Effetti visivi GHOST STORIES

Montaggio BILLY SNEDDON (Ghost Stories)

Colonna sonora THE KILLING OF A SACRED DEER (Ligeti, Gubaidulina, Schubert, Bach)

Miglior attrice NICOLE KIDMAN (The killing of a sacred deer)

Miglior attore GASPARD ULLIEL (Eva)

Miglior attrice np ANNA BONAIUTO (Napoli velata)

Miglior attore np MARTIN HANSON (I segreti di Wind River)

Miglior esordiente TIMOTHEE CHALAMET (Chiamami col tuo nome)

 

Menzioni:

 

  • Dialogo fra Elio e suo padre in CHIAMAMI COL TUO NOME
  • Incontro, a Bergamo, con i nottambuli e ballo in strada in CHIAMAMI COL TUO NOME
  • ARMIE HAMMER per l’interpretazione di Oliver in Chiamami col tuo nome
  • Notturno in piscina in THE STRANGERS