Memoria e identità: l’Alzheimer come malattia postmoderna. Riflessi su cinema e letteratura

Memoria e identità: l’Alzheimer come malattia postmoderna. Riflessi su cinema e letteratura

‘Blade Runner’

*

Scrive Jonathan Franzen; “l’identificazione delle placche senili nel cervello di mio padre da parte del patologo servì a confermare, come solo un’autopsia poteva fare, il fatto contro cui mia madre aveva lottato quotidianamente per molti anni: come milioni di altri americani, mio padre aveva il morbo di Alzheimer[1].”

L’Alzheimer, una malattia degenerativa del sistema nervoso, contraddistinta da un quadro di demenza senile, è ritenuta da alcuni studiosi una sorta di metafora dell’era postmoderna che vede nel malatouna sorta di “computer sopravvissuto alla perdita della sua memoria, povero contenitore privo di funzione e quindi di senso[2].” (Stefano Tani, Sulle metafore del ventunesimo secolo: lo schermo, lalzheimer, lo zombie, in Il ponte, LIV (3), 2008, p. 110). Con questa malattia diminuisce la “memoria progressiva”, che riguarda sia il passato recente che quello lontano, la “memoria semantica”, che consente di trovare le parole adatte, e la “memoria procedurale”, che si manifesta nella incapacità di compiere le azioni della quotidianità.

DAL MITO AL CINEMA

Anticamente il mito aveva saputo cogliere i termini del problema. Mnemosine, dea della memoria, aveva assegnato i nomi a oggetti e idee che servivano agli uomini per intendersi e per condurre una vita di relazione. Non certo casualmente Mnemosine era anche la madre delle nove Muse, le ispiratrici delle arti e del canto. Così come a lei era anche associato il culto di Asklepios, dio della medicina,[3]quasi a significare lo stretto intreccio tra salute, memoria e creatività umane.

L’uscir fuor di senno era temutissimo e un caso particolare era quello dell’uomo che non ricorda. Se manca l’appiglio mnemonico come può egli mensurare, cioè mantenere il giusto equilibrio mentale che gli permette di vivere armoniosamente nella polis?

Scriveva infatti Platone nel Teeteto: “Figurati nelle nostre mani un blocco più o meno grande, di cera più o meno pura e più o meno dura, o di giusta consistenza a seconda degli individui (…) Si può considerarlo un dono di Mnemosine, madre delle Muse. Tutto quanto desideriamo tenere a mente di ciò che udiamo, vediamo o pensiamo, si imprime come il sigillo di un anello in questa cera che noi sottoponiamo alle sensazioni. Di tutto ciò serbiamo ricordo e coscienza finché ne permanga l’immagine[4].” E quando essa si dissolve cosa resta di noi? Ricordare significa riflettere e farlo attraverso gli strumenti della letteratura e dell’arte in genere vuol dire pensare in modo particolare all’identità dell’uomo.

Più tardi sarà anche Agostino a rifletttere sul tempo e sulla capacità della memoria di contenere nelle sue “stanze” il vissuto ma segnalava la possibilità di dargli ordine e unitarietà come funzione primaria dell’esperienza umana, come confermò, tra gli altri, secoli dopo, Edmund Husserl. Il filosofo tedesco nelle Lezioni sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo (1928), distinguendo tra ricordo primario e ricordo secondario, sottolineava come la memoria avesse una stretta relazione con l’identità del soggetto, che ha nel recupero del proprio passato un momento fondamentale per la propria autocoscienza, perché ricordare è sempre ricordarsi: la memoria ricuce l’esperienza e poi la trasforma. Il suo allievo Heidegger pensava che il fondamento dell’esperienza consistesse proprio in quel movimento della coscienza che recupera il passato nella sintesi nuova del presente in funzione del futuro.

L’assenza di memoria diviene così assenza di coscienza, essendo queste inesorabilmente connesse. Il ricordo ci permette di poter comparare ciò che stiamo vivendo con ciò che abbiamo registrato in passato e poter così percepire, ricostruire correttamente e vivere consciamente le cose intorno a noi. Senza il ricordo come possiamo vivere la realtà esterna in maniera corretta e coerente con gli altri? Non si parla solo di memoria autobiografica, ovvero ciò che è necessario per formare la nostra identità, ma della traccia mnemonica come fulcro per l’esistenza stessa all’interno del mondo. La realtà vissuta senza memoria interrompe l’interazione con i propri simili, rendendo l’uomo non più membro della sua specie, ma un estraneo agli altri.

È così, per esempio, che vive Leonard, protagonista di Memento (2000), film diretto da Christopher Nolan: incapace di uscire dal circolo vizioso di un presente che continua quotidianamente a dimenticare a causa di un’amnesia retrograda (disturbo che coinvolge la memoria a breve termine). Egli vive una realtà distorta, che riesce in qualche modo a ricostruire solo tramite gli indizi che marchia continuamente sul suo corpo, che è l’unico paradossalmente ad avere memoria. Come si può vivere in un mondo che si dimenticherà nel giro di ventiquattro ore?

OLTRE LA MODERNITA’

Alcuni decenni prima l’americano Philip K. Dick – e certo con lui non siamo nello specifico dell’Alzheimer – aveva in qualche modo precorso i tempi. Si pensi a The Simulacra (1964), uno dei suoi migliori romanzi, su cui “ non è un caso che proprio Baudrillard (…), facendo esplicito riferimento alla narrativa di Dick, abbia proposto una interessante ridefinizione della propria teoria dei simulacri[5].” Oppure a Time is out of joint (1959) a cui molto deve Thomas Pynchon per il suo Gravity’s Rainbow (1973) fino a i più celebri Counter-clock World (1966) e Ubik (1969), in cui le tematiche dell’invecchiamento precoce, dell’alterazione del tempo e dell’innesto artificiali di ricordi hanno aperto la strada a innumerevoli epigoni nel cinema e nella letteratura. Conosciuto prima solo da una cerchia ristretta di appassionati di fantascienza, Dick divenne famoso grazie a Blade Runner, film del 1982 di Ridley Scott, ispirato dal suo Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968). Gli androidi – creati dagli uomini come propri schiavi- sono stati fatti per non provare emozioni in modo da essere facilmente individuabili grazie a un test specifico. Considerati oggetti con innesti mnemonici, si possono “ ritirare” dal mercato quando necessario. Esiste una forza di polizia apposita per lo scopo. Solo che le cose si complicano quando il cacciatore Rick Deckard si renderà conto che non è più facile come prima distinguere gli umani dai replicanti poiché questi ultimi “leggono” i loro innesti mnemonici come veri e propri ricordi: percepiscono la possibilità di sentirsi umani.

Che le anticipazioni dickiane cogliessero nel segno, diventando poi mainstream, viene confermato dal successo, anni dopo, della serie televisiva Westworld ( 2016, prima stagione) di Jonathan Nolan. E’ ambientata in un futuro dove gli androidi sono indistinguibili dagli esseri umani. Col tempo, a causa di un virus che permette loro di ricordare frammenti della loro vita precedente (essi vivono schiavi degli umani con degli ordini prestabiliti che non gli permettevano di andare oltre una traccia mnemonica giornaliera), questi umanoidi arrivano a sviluppare una coscienza propria, tramite la fusione di queste memorie nella formazione di un’identità personale. La memoria, dunque, è fondamento per la costruzione dell’identità. Quando essa viene a mancare anche l’autopercezione e l’autocoscienza del soggetto inizia a sfuggire. Questa situazione paradossale ci rivela come proprio i ricordi che permettono la percezione cosciente delle proprie azioni, portano di conseguenza all’autodeterminazione, tratto distintivo dell’essere umano che lo differenzia dalle macchine stesse.

ALZHEIMER MALATTIA POSTMODERNA

Il morbo di Alzheimer catapulta l’individuo in una nuova realtà in cui ciò che era non è più, in cui ogni oggetto che gli appare è sconosciuto, in cui ogni sua interazione è solo momentanea potendo sfuggire dalle sue mani da un momento all’altro. La sua stessa identità è compromessa, l’autocoscienza è frammentata, se non assente, la sua esistenza risulta altalenante tra un passato che non c’è più e un presente privo di quel passato. “I think I may be beginning to disappear[6]”, così Fiona, protagonista del racconto The Bear came over the mountain di Alice Munro, dichiara la sua inesorabile perdita di identità e, probabilmente, di umanità trascinata dalla memoria che vacilla.

La letteratura mondiale è piena di personaggi sofferenti (turbati, visionari, ossessivi, deliranti, ipocondriaci, malinconici), spesso intrappolati in convinzioni e percezioni distorte, i quali si misurano con la propria condizione umana in una infinita galleria di squilibri individuali e di disagi familiari, sforzandosi – attraverso e nonostante il dolore – di raggiungere o ripristinare un nuovo ordine di vita. Oggi le ricerche sul cervello umano sono progredite a un punto tale che non ci sembra più fantascienza quel che prima lo era. In un processo crescente di interazione tra arte, letteratura e studi neuroscientifici, si è assistito negli ultimi anni ad un interesse a raccontare, in una gamma vastissima di strategie narrative, la mente umana e i suoi difetti. E’ l’uomo colpito dalla malattia mentale un uomo? Come ci si comporta davanti ad essa? Come si convive con gli ammalati? Come se ne deve scrivere? La scrittura è testimonianza irrinunciabile, momento di liberazione per ammalati e familiari.

Scrivere sulla condizione della nostra psiche è qualcosa di artisticamente attraente ma anche umanamente doloroso. L’Alzheimer, tra le malattie cerebrali, appare una delle più particolari proprio perché caratterizzata dal decadimento progressivo delle funzioni cognitive. L’invecchiamento precoce, la perdita della memoria e della completa autonomia personale risultano affascinanti agli occhi degli scrittori perché consentono di affrontare, tra microcosmi familiari e macrocosmi sociali, temi letterari problematici. Come hanno fatto due romanzi notevoli, che si sono confrontati con l’Alzheimer e le sue conseguenze: Barneys Version di Mordechai Richler (1997) e The corrections di Jonathan Franzen (2001).

Lo scrittore canadese racconta di Barney Panofsky che un giorno viene pubblicamente accusato dallo scrittore Terry McIver dell’omicidio del vecchio amico Bernard Moscovitch, detto Boogie. Per discolparsi da questa accusa Barney racconta la storia della sua vita, sempre refrattaria a qualsiasi regola fin dai tempi parigini, con tre mogli, due divorzi, tre figli. Il romanzo, sul filo sempre più flebile dei ricordi del protagonista, ha una struttura narrativa caotica, popolata da personaggi calati in situazioni che vengono presentate senza alcun ordine. È subito evidente che tutto ciò è frutto del morbo di Alzheimer. Barney sta solo raccontando la sua versione dei fatti, e lo fa in maniera spietata e irriverente, talvolta anche malinconica. Avvenimenti, commenti e riflessioni vengono presentati per associazioni e richiami lungo i percorsi di una memoria sempre più incerta e deformata. Man mano che si prosegue nella lettura sempre più dubbi attanagliano il lettore: tutto ciò di cui parla Barney è realmente accaduto? Le varie correzioni dei ricordi del padre nelle note da parte del figlio accentuano ancora di più questa domanda: quanto è estesa la distorsione della realtà? Barney nella stesura delle sue memorie rende chiaro il problema della realtà nelle persone affette da Alzheimer, entriamo nella sua mente, viviamo il flusso di ricordi e ci avviciniamo al buco nero che li sta risucchiando. Il protagonista per salvarsi dalla realtà che si sta sgretolando si rifugia nei ricordi, anch’essi fallaci e a tratti ricorretti.

Se il romanzo di Richler si concentra su un solo protagonista, quello di Franzen è un’opera più corale, che “all’apertura del nuovo millennio sembra voler ribadire e canonizzare lo shift dal romanzo-mondo al romanzo familiare[7]”. Al centro del romanzo di Franzen sta la storia di una famiglia problematica, le cui vicende ruotano attorno alla malattia del padre, Alfred Lambert, sposato con Enid e con tre figli: Gary, dirigente di banca, vittima di una depressione e di una moglie infantile; Chip che ha perso il posto all’università per comportamento sessuale scorretto nei confronti di una studentessa; infine Denise, chef di successo, che ha sposato un uomo anziano, ma sempre più consapevole delle sue tendenze lesbiche. Mentre i genitori continuano a vivere a St. Jude, cittadina del Midwest, i figli sono andati a vivere sulla costa. Alfred ed Enid trascinano le giornate accumulando oggetti, ricordi, delusioni e frustrazioni del loro matrimonio. Alfred, ex ingegnere ferroviario ora in pensione, è vittima della malattia che lo rende sempre più autoritario e ingestibile: “Denise e Chip trovavano, chissà come, la pazienza per sedersi accanto a lui e conversare degli scenari dementi in cui abitava[8].” Enid, consapevole dell’aggravarsi delle condizioni del marito, tenta di tenere unita la famiglia grazie a un pranzo di Natale per poterne correggere errori e sconfitte. La demenza senile, la perdita di memoria, l’incapacità di muoversi, il carattere di Alfred, reso sempre più problematico dalla malattia, sono il catalizzatore dei problemi della famiglia Lambert.

“ … non appena perdeva di vista la luce della radura da cui era entrato, si accorgeva che le briciole che aveva seminato per orientarsi erano state mangiate dagli uccelli, esseri che sfrecciavano silenziosamente nelle tenebre e che lui non poteva vedere […] da qui era nato il panico di un uomo abbandonato nel folto della foresta, la cui oscurità era quella degli storni che cancellavano il tramonto o delle formiche che assalivano il cadavere di un opossum, un’oscurità che non solo esisteva ma consumava con risolutezza i punti di riferimento che lui aveva saggiamente fissato per non perdersi…[9]

Anche i figli, però, hanno bisogno di mettere ordine nel caos delle loro vite, non solo il padre. Proprio per questo l’unico personaggio che emerge con forza è la madre, Enid, che ha lottato per tutta la vita, e fino alla fine, per loro ma soprattutto contro e per suo marito Alfred. Per correggerli. Inutilmente. Forse aveva ragione Philip K. Dick quando indicava nei suoi romanzi che “Il tradizionale concetto di normalità mostra tutta la sua insensatezza in una società alienata e criminale, nella quale regna il culto del potere, la ferrea legge dello sfruttamento di classe e il perverso accoppiamento di dominio e servitù[10].”

E allora se essere normali in questo nostro mondo è un processo indotto e omologante, forse è “l’anormale” che può aiutarci – qualora ci rispecchiassimo in lui – ad aprire gli occhi, a scoprire la verità: più che sulla sua identità, sulla nostra.

 

[1]          Jonathan Frenzen, Il cervello di mio padre, in Come stare soli, Einaudi, p.10.

[2]          Stefano Tani, Sulle metafore del ventunesimo secolo: lo schermo, lalzheimer, lo zombie, in Il ponte, LIV (3), 2008, p. 110

[3]          Lucia Impelluso, Miti. Storie e immagini degli dei e eroi dell’antichità, Mondadori, Milano

[4]          Platone, Teeteto, 191 b-d

[5]          Francesca Rispoli, Universi che cadono a pezzi. La fantascienza di Philip K. Dick, Bruno Mondadori, p.20

[6]          A. Munro, L’orso attraversò la montagna, in Nemico, amico, amante, Einaudi, 2003

[7]          Luca Briasco, Americana. Libri, autori e storie dell’America contemporanea, p.248, minimum fax

[8]          Jonathan Franzen, Le correzioni, Einaudi, p. 598

[9]          J. Franzen, cit. p.12

[10]        Linda De Feo, Philip K. Dick. Dal corpo al cosmo, Cronopio, p.60