Genesi dello sguardo. (A suo modo) un coming out, probabilmente…

Genesi dello sguardo

(A suo modo) un coming out, probabilmente…

Kristen Stewart in ‘Personal Shopper’

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Ci si chiede a volte per quale motivo? Per quale ragione un’opera ci pone di fronte all’Ombra, al riflesso nello Specchio, alla Soglia, al Doppelgänger che procede dietro di noi silenzioso, tenace, il più delle volte invisibile? Probabilmente grazie alle correnti carsiche di sollecitazioni ctonie, iconiche (nel senso etimologico di immagine sacra, tenendo conto delle innumerevoli accezioni individuali che può assumere il termine “sacro”).

Così, se una giovane attrice interessante ma non ancora carismatica, viene vestita e acconciata come Kim Novak in Vertigo, e apparteniamo alla schiera dei cinefili inguaribilmente citazionisti, possiamo provare quella stessa sensazione di perdita di equilibrio fisico e mentale, quello smarrimento avvertito la prima volta che ci siamo imbattuti nella labilità del concetto di identità attraverso le vicende di Madeleine, fantasma di Carlotta e doppio di Judy, perdendoci nei simboli spiraliformi di cui è disseminato il film di Hitchcock.

Kim Novak in ‘Vertigo’

Altra suggestione – irresistibile – è rappresentata dalla canzone di Marlene Dietrich che scorre in una sequenza della pellicola di Assayas. Fluisce, cade, riprende il corso come un valzer disincantato, malinconico, infinitamente seduttivo. E la scena che abbiamo davanti agli occhi si dissolve, o comunque passa in secondo piano, lasciando il proscenio a un’altra che fa parte della mitologia personale: quella in cui il capitano Quinlan, corrotto e sfatto nel corpo e nell’anima, pieno di sotterranee paure, entra in un locale di infimo ordine nella località di Los Robles, in mezzo al deserto, al confine fra Stati Uniti e Messico (anche qui il tema della Soglia). E’ notte, Quinlan raggiunge la porta sul retro della taverna passando da un vicolo sordido, mentre il vento desertico fa volare qua e là delle cartacce appallottolate.

Marlene Dietrich e Orson Welles in ‘L’infernale Quinlan’

La proprietaria è una specie di Zingara (Marlene Dietrich) cartomante, una discendente delle Streghe del Macbeth, sarcastiche e sibilline, una Maga annoiata e cinica, stanca della vita come Elina Makropulos. Tenendo il sigaro fra le labbra, legge nelle carte la fine di Quinlan e rifiuta bruscamente di parlare, lasciando il poliziotto ai suoi presagi shakespeariani.

Si potrebbero anche citare alcune inquadrature che richiamano Kubrick (i corridoi dell’albergo percorsi a ritroso dalla macchina da presa) o Lynch (il clima allucinatorio nell’appartamento di Maureen dopo la scoperta delle buste con i gioielli Cartier).

Quanto alla prova dell’abito bondage, proprio sulle note di Das Hobellied, è un’invitation au voyage nelle zone più sofisticate del feticismo. Le strisce di pelle nera che s’incrociano sul corpo androgino e brusco – di un biancore che ricorda le Dame ibride e inquiete di Coleridge e Le Fanu – di Maureen/Kristen (creando un effetto spiazzante, paradossale), possono assumere nell’immaginario la consistenza e l’essenza di un serpente primordiale. Né maschio, né femmina, perché dotato delle caratteristiche di entrambi i generi. Prepotente e insinuante. Forse l’ouroboros senza inizio né fine eppure in eterno movimento, forse il waugal aborigeno che sogna i canti degli antenati e seguendo il sogno crea con il proprio corpo i corsi d’acqua.

Emmanuelle Seigner e Mathieu Amalric in ‘Venere in pelliccia’

Vogliono deliberatamente ricordare la figura del serpente anche la cerniera dello stivale di Vanda, in Venere in pelliccia di Polanski, aperta con lenta devozione da Thomas, e la cintura di Charlie in Stoker di Park Chan-wook, sfilata con un fruscìo di serpe per commettere un delitto.

Cate Blanchett e Rooney Mara in ‘Carol’

Persino il corpo nudo di Carol Aird, nel capolavoro di Todd Haynes, suggerisce i movimenti di un serpente (ancora una volta dalla sessualità duplice), mentre risale con anse di fiume verso la bocca di Therese. Lievemente arrossata, scosta i capelli girando appena la testa e accende un flusso di atomi e ioni che rapidamente forma fili di impercettibile sostanza, sospesi nell’aria fra l’una e l’altra. Rallenta, sembra interrompersi tanto si allunga, riprende, accelera, si quieta. Vibra nella sua tenace fragilità, crea tenui fasci luminosi, rifrange o cancella i suoni. Carol si trasforma in acqua con la potenza e la dolcezza di un mito dimenticato (là, nel motel disadorno di una piovosa cittadina del Midwest), trascinando Therese in una luce azzurrina primigenia, inducendo i sensi della ragazza ad aprirsi come ninfee bianche e disfarsi in cerchi concentrici, tremando.

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