Il fascino discreto dell’indeterminatezza. “Hannah” di Andrea Pallaoro
Una tacita regola della buona scrittura, non solo cinematografica, vuole che quando non c’è sviluppo narrativo ci sia quello interiore del personaggio e viceversa.
Quando quindi sullo schermo non succede nulla per un’ora e mezzo, ci si aspetta che il protagonista subisca una trasformazione, positiva o negativa che sia.
Questo è ciò che non succede ad Hannah, la quale rimane uguale a sé stessa nonostante le piombi addosso un evento destabilizzante. Il marito infatti viene arrestato per un reato che non ci è dato sapere ma che possiamo intuire da alcuni elementi; la reazione categorica del figlio, l’anonima chiamata al citofono e le foto nascoste fanno supporre che si tratti di pedofilia. Hannah continua la sua vita come se niente fosse successo e questa scelta narrativa sarebbe stata anche interessante se supportata da un minimo, seppur impercettibile, spessore psicologico.
Hannah potrebbe essere l’automa del racconto L’uomo della sabbia di Hoffmann, che agisce esteriormente come un essere umano ma che è priva di anima. La donna infatti cucina, lavora come domestica, partecipa ad un corso teatrale, va a trovare il marito in prigione e nuota in piscina, ma il tutto avviene in modo macchinoso e privo di autenticità. E se questo forse era il senso originario immaginato da Pallaoro qualcosa deve essere andato storto durante la fase di realizzazione perché piuttosto che un’impermeabilità caratteriale si percepisce una sciattezza narrativa.
La macchina da presa è costantemente sul corpo di Charlotte Rampling, che come sua consuetudine si è prestata generosamente in tutti i sensi (apparendo anche in scene di nudo) meritando la Coppa Volpi alla Mostra di Venezia 2017.
Peccato che il regista non abbia sfruttato il suo talento per andare a fondo e si sia limitato ad un mero esercizio stilistico.