Lessico intellettuale in caduta di senso. “Mariti e mogli” di Allen/Guerritore

Lessico intellettuale in caduta di senso

Mariti e mogli tratto dal film di Woody Allen

adattamento e regia di Monica Guerritore

con Monica Guerritore, Francesca Reggiani, Ferdinando Maddaloni, Cristian Giammarini, Enzo Curcurù, Lucilla Mininno, Malvina Ruggiano, Angelo Zampieri

Al Teatro della Pergola di Firenze dal 27/12/2017 al 02/01/2018

 

Ci si chiede se adottare l’unità di luogo, con flashback esplicativi, fosse davvero l’unica maniera possibile di portare in palcoscenico la partitura alleniana di “Mariti e mogli” – una di quelle composizioni polifoniche del maestro newyorkese modellate su un andamento allegretto, acidulo e pungente –. L’incrociarsi dei destini sentimentali è ambientato in una grande stanza disadorna immersa nella semioscurità pressoché costante (che a momenti diventa buio completo); stanza che somiglia a una sala da ballo periferica, o a un alberguccio con porta girevole dai vetri appannati, o a un lounge bar in decadenza dove si ritrovano fianco a fianco, senza guardarsi, i nighthawks di Hopper. Cuori infranti in cerca di un ballo effimero.

Fuori, un temporale ha svuotato le strade di presenze umane. Lo immaginiamo sollevare le sue particelle liquide fino a velare il luccichio nero dell’asfalto nelle strade intorno a Columbus Park e impedire al gruppo di amici riunitisi, come ogni settimana, nell’appartamento di raggiungere il ristorante dove sono soliti cenare insieme. Sarà la prima di molte abitudini rassicuranti a venire infranta. Il vero fulmine, non atmosferico, che carbonizza le fragili sicurezze di Judy e Gabe prende la forma dell’apparentemente disinvolto, sorridente annuncio di separazione (temporanea, così…tanto per fare una prova, per prendersi una pausa, ma nulla cambia, siamo tranquilli) degli inseparabili amici Sally e Jack.

E’ risaputo che la solitudine a quattro è di gran lunga più sopportabile della carcerazione di coppia, quindi le risentite recriminazioni di Sally ci appaiono nello stesso tempo comprensibili e irritanti. L’impossibilità di esistere singolarmente, di non poter vivere senza adeguare il proprio movimento al baricentro del nucleo sociale (più o meno grande) di appartenenza, si traduce in spaesamento e terrore di fronte allo sbriciolarsi dei rituali originati dal comune milieu, al lessico intellettuale e borghese destinato da quel momento in poi a non trovare più corrispondenza, quindi a perdersi echeggiando nel vuoto galattico.

Soprattutto, suscita sgomento la coscienza della sostanziale inconoscibilità degli esseri umani con cui crediamo di condividere l’esistenza. Si aprono abissi di inquietudine nella sceneggiatura di Woody Allen, vengono sfiorati temi – la paura di invecchiare e morire, la ricerca di novità spesso futili, il sesso meccanico scambiato per amore, la crescente nevrosi delle conversazioni autoreferenziali, l’amore come inganno della mente, la creatività stessa mostrata come fallimento, illusione e millanteria – che troveranno pieno sviluppo nel 2010 in You will meet a tall dark stranger, capolavoro di soave e implacabile meditazione morale legata all’affabilità del disincanto yiddish.

Si notano purtroppo alcuni difetti abbastanza gravi nell’adattamento teatrale di Monica Guerritore. Alcuni dovuti forse a un numero esiguo di prove, che non ha consentito di raggiungere il necessario affiatamento nelle scene di gruppo, in particolare di ballo. Altri che sembrano strutturali e legati a scelte precise: i ritmi troppo lenti, che in vari momenti conducono l’azione verso una stasi completa, antitetica al continuo andirivieni (anche e soprattutto interiore, spesso amaramente esilarante) dei personaggi alleniani; l’impostazione un po’ troppo didascalica di dialoghi e monologhi; la tenebra (cechoviana o strindberghiana, o semplicemente di maniera) entro la quale si aggirano gli attori, davvero lontana dal mood di Woody Allen, in cui persino il crepuscolo reca in sé un bagliore autunnale, e finanche dall’impostazione della regia, basata su concatenazioni legate alla tonalità più immediatamente evidente del testo, senza curarsi di rintracciare l’eterodossia ritmica fondamentale in Allen.

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