Lucia TEMPESTINI – La moviola del Tempo. Un “nostos” impossibile (“Nella valle di Elah”, un film di P. Haggis)

 

La moviola del Tempo

 

UN “NOSTOS” IMPOSSIBILE



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NELLA VALLE DI ELAH

Regia Paul Haggis

Con Tommy Lee Jones, Charlize Theron, Susan Sarandon

Produz. USA 2007

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Come in un’esecuzione da camera (vengono in mente certi severi quartetti schubertiani), il frastuono immane della Guerra – la derelizione isterica, gli svaghi macabri, le reazioni inconsulte, feroci, alla paura inflitta o subita e al rancore generalizzato, la droga – ci arriva attraverso la memoria di un cellulare semidistrutto dal fuoco. Brevi, deteriorate riprese – lacerti di dolore ghignante o attonito dispersi da una forza centrifuga – le cui urla interrotte ci consegnano un resoconto dell’inferno.

Con acutezza e discrezione Haggis ci fa notare la presenza costante della Holy Bible, che non ha la funzione di dare conforto ai militari, bensì quella – ben più importante per la Nazione – di elidere il confine fra dettami religiosi e azione civile – individuale e collettiva – al fine di creare la convinzione di un’investitura “divina” da Vecchio Testamento e, di conseguenza, istigare al combattimento in base alla necessità di ripristinare ordine e giustizia nel mondo.

Il ritorno a casa rappresenta solo un diverso girone del medesimo inferno terreno. Il “nostos” oggi non è più possibile, non esiste più un luogo caldo di affetti e rassicurante a cui tornare. Tutto è desolazione e infinita assenza. La dead zone, desertica, senza vento, disseminata di boli vegetali spinosi, il cui limite è segnato da radi lampioni, i “Burger King” bisunti ed escrementizi – prezzo speciale e birra omaggio -, le stanzette e docce della base militare di Fort Rudd (cubicoli spersonalizzanti, monocromia scialitica da morgue o camera operatoria), i locali hard dove si può incontrare una povera donna in topless con faccia da capra spaurita che serve scotch al bancone per sbarcare il lunario. I divertimentifici riproducono le stesse tristi coazioni e ritmi del quotidiano da cui si vuole sia pur temporaneamente fuggire, non ci sono uscite di sicurezza dalla costrizione.

Il deragliamento psichico originato dalla collisione rabbiosa fra anestesia morale e senso etico ancora parzialmente vigile genera un delitto segnato dalla bestialità e dalla casualità. In seguito a una lite banale Mike Deerfield viene ucciso da tre compagni di reggimento, fatto a pezzi e bruciato.

Colpisce il pudore con cui Haggis racconta (quasi sottovoce). La stretta, dura necessità di ogni dettaglio. L’onestà con cui rinuncia ai virtuosismi del precedente “Crash”.

Quello che atterrisce è l’ottundimento dello spirito, l’atonia, l’assenza di sgomento dei colpevoli (senza scomporsi, il commilitone omicida argomenta: “un’altra sera sarebbe stato lui a uccidere me”) e dei testimoni (ciascuno narra un frammento della storia: l’ostile commessa del fast food, il proprietario del negozio di armi e sua moglie che descrivono l’impressionante odore di carne bruciata). L’Orrore diventa qualcosa di quotidiano, inevitabile, un intralcio in fondo trascurabile e facile da rimuovere.



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Chi salverà il mondo? O almeno lo renderà migliore? Forse una madre, con gli occhi sbarrati, che accarezza il vetro oltre il quale si trovano i poveri resti straziati e carbonizzati del figlio. Esprime in sussurri il timore che la stanza sia troppo fredda (o la speranza, visto che un incorporeo trasalimento di Mike sarebbe il segnale – invisibile – di una qualche forma di residua “permanenza” del ragazzo). Poi si allontana nel corridoio con un lieve barcollio, diventando sempre più piccola, mentre il braccio sinistro rimane parzialmente sollevato, come un timone rotto o abbandonato a se stesso.

Forse una giovane poliziotta – ruvidamente malinconica, soggetta al dileggio machista di superiori e colleghi – che nel corso della storia scopre il senso di colpa (stringendo in lacrime la mano di una donna uccisa dal marito nella vasca da bagno, con la consapevolezza di non aver fatto abbastanza), l’importanza di non trascurare i dettagli, i “segni” del mondo, le richieste di aiuto (tutti vittime, anche i carnefici, in questo tempo “fuor di sesto”: chi uccide e chi viene ucciso, le donne massacrate da mariti impazziti d’angoscia e i mariti stessi), e quanto sia determinante fare i conti con la menzogna studiata o involontaria, e con se stessi, “fare due più due” come, nel bel Leoni per agnelli, afferma la giornalista che oppone scetticismo e onesta stanchezza al sorriso da Stregatto del senatore repubblicano.

Forse un padre ex-militare che si accorge a poco a poco di essere sempre stato – in buona fede – dalla parte sbagliata (non mi riferisco a fazioni belligeranti, ma a forme di pensiero) e issa al contrario la bandiera sfilacciata inviatagli dal figlio. Esponendo la bandiera capovolta Hank Deerfield si fa rappresentante di un’America smarrita che chiede aiuto, conscia della propria disperazione, a un qualche dio maggiore o minore che venga a salvarla da se stessa (se mi posso permettere un commento, sono molti gli Stati che avrebbero necessità dello stesso tipo di soccorso: Iran, Arabia Saudita, Sudan, Pakistan, Cina, Corea del Nord…la lista sarebbe infinita).

luciatempestini0@gmail.com