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Enzo NATTA – L’intervista ritrovata. Mario Calzini e gli anni “frementi” del cinema di regime

 

Il Cinema  la Storia – L’intervista ritrovata

 

 

MARIO CALZINI E GLI ANNI “FREMENTI” DEL CINEMA DI REGIME


Ingegnere, docente, redattore di “Cinema”, maestro di fotografia- Tra i massimi esponenti del Guf- Un excursus di testimonianze e  memorie che rischierebbero l’anonimato

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A cinque anni dalla prima edizione torna in libreria Storia della cultura fascista di Alessadra Tarquini (Il Mulino, Bologna), non soltanto una ristampa ma una revisione del testo con cambiamenti di rilievo, fra cui una modifica del quinto capitolo (“La politica culturale degli anni Trenta”), l’aggiunta di un paragrafo e un aggiornamento bibliografico. Ampio spazio, in questa parte, è riservata all’intervento del Partito Nazionale Fascista nella politica per la gioventù, all’opera dei ministeri dell’Educazione Nazionale e della Cultura Popolare, all’organizzazione dei Littoriali, all’uso degli strumenti di comunicazione in ambito culturale, con un’attenzione particolare rivolta principalmente alle fasce giovanili inquadrate nella GIL (Gioventù Italiana del Littorio) e agli studenti universitari, fiore all’occhiello del fascismo fin dai primordi, allorché nel 1920  sorsero i GUF (Gruppi Universitari Fascisti).

Quel che manca nel panorama generale – dove anche il cinema ritaglia la sua parte – è il ruolo svolto dai Cineguf, istituiti nel 1934 con il compito di contribuire alla diffusione del nuovo mezzo espressivo che da poco tempo era entrato nell’era del sonoro, di migliorarne la qualità, di promuoverne la divulgazione, di favorirne il consumo critico e il dibattito: un po’ centri di cultura in cui si elaboravano nuove tendenze estetiche, un po’ banco di prova per cineamatori, un po’ cineforum dove si sperimentavano nuovi modelli di linguaggio, un po’ cineclub in cui si potevano visionare film non in circolazione, un po’ centri editoriali che davano vita a periodici e riviste.
I Cineguf erano tutto questo. E anche qualcosa di più per una generazione che visse intensamente quel periodo a cavallo fra gli anni ’30 e ’40, e consentì a molti intellettuali di condivide un’esperienza unica.

Fra questi intellettuali figurava Mario Calzini – redattore della rivista “Cinema” (diretta da Vittorio Mussolini, figlio  del Duce), ingegnere, docente di ottica al Centro Sperimentale di Cinematografia (fra i suoi allievi Pasqualino De Santis, due volte Oscar per la fotografia), per oltre vent’anni direttore della Tecnostampa e per altri dieci direttore tecnico di Cinecittà, profeta del digitale (nel 1981 ne anticipò le linee in una serie di incontri sulle nuove tecnologie organizzati da Carlo Lizzani alla Mostra di Venezia) – che attraversò una stagione del  tutto particolare,  testimone di un fermento di idee e di iniziative ancora tutte da vivisezionare e da approfondire.

Alcuni anni fa avevo avuto l’occasione di conversare a lungo con Mario Calzini e di registrare un racconto che, seguendo il filo ideale di una storia tanto affascinante quanto coinvolgente, ricostruiva l’identità del Cineguf di Roma . Una vera e propria “history telling”, un resoconto storico che ripercorreva l’esperienza del Cineguf romano, allora considerato il  campione modello di quella istituzione.

La copertina di un numero della rivista Cinema del 1940

Mario Calzini è morto nel 2010 e quei nastri, sbobinati e trascritti,  hanno consentito di  essere riversati in un’intervista postuma.
Cominciamo cercando di capire che aria si respirasse nell’ambiente e che tipo di attività  si praticasse.

“Per noi giovani il fascismo era qualcosa di ineluttabile, qualcosa con cui eravamo cresciuti, una convivenza un po’ noiosa per via dell’obbligo di indossare la divisa, di partecipare alle adunate e di frequentare i campi Dux. Tutto questo senza intuire che cosa , da lì a poco, ci avrebbe riservato l’avvenire.

Eravamo come uccellini nati in cattività, che non sapevano che cosa significasse volare liberi. La stessa aria si respirava nei GUF  e nei Cineguf – 16 in tutta Italia e collegati ad altrettante università – dove si discettava di estetica e di tecnica in lunghe discussioni e si scriveva sui giornali del Guf locale. Pur ligie all’etica fascista, non era raro trovare sulle loro colonne riferimenti a registi sovietici come Pudovkin o Eisenstein, piccoli scantonamenti controllati e astutamente consentiti agli intellettuali, grandi o piccoli che fossero. I Cineguf permettevano la sperimentazione, concedevano di praticare l’attività di laboratorio, di produrre e realizzare film che partecipavano poi ai Littoriali.”

-Come avvenne il suo ingresso nel Cineguf?

“La prima volta che andai a bussare alle porte del Cineguf, che a Roma aveva sede in Palazzo Braschi, mi fu detto chiaro e tondo che, data la scarsa dotazione di apparecchiature, non c’era alcuna possibilità di svolgere alcuna funzione. L’opportunità si presentò con la guerra. Gli operatori dell’Istituto Luce non erano sufficienti a coprire il fabbisogno di una produzione che intendeva documentare ampiamente le operazioni militari di terra, di mare e di cielo, e il Cineguf, dopo averci proclamato tutti volontari di guerra, pensò di usare alcuni di noi per le riprese cinematografiche organizzando un corso per ‘Volontari operatori di guerra’. Fu così che mi ritrovai fra le mani una modesta Movex 16 mm caricata con l’invertibile dell’Agfa.

Con tanto di diploma mi fu concesso di frequentare gli uffici dell’Istituto Luce, dove vedevo entrare e uscire registi e operatori diventati famosi come Fernando Cerchio, Otello Martelli, Mario Damicelli. Al Cineguf, comunque, il mio compito iniziale era molto umile: dovevo tenere in ordine i locali. Ma, grazie all’aiuto di un giovane e solerte funzionario, Marcello Bollero (in seguito affermato  organizzatore di produzione), mi fu possibile migliorare sensibilmente la condizione dei locali stessi. Riuscimmo a liberare un salone abbastanza grande per contenere una quarantina di persone, a foderarne le pareti con un prodotto assorbente per il suono, a dotarlo di seggiole e ad acquistare un proiettore Zeiss 16 mm sonoro. Iniziammo così un’attività da circolo del cinema.

Sempre per l’interessamento di Bollero, la Cineteca del Centro Sperimentale, a quell’epoca ancora aggregata a una scuola media di via Foligno, ci concedeva gratuitamente un film alla settimana e dal salone del Cineguf passammo a un cinema dislocato in via Borgognona, nato come seconda sala dell’Imperiale in via del Corso. Vi proiettammo tutti i film più importanti della Cineteca Nazionale: da  Alleluja di King Vidor a Lampi sul Messico e all’Aleksandr Nevskij di Eisenstein, da Entr’acte e A nous la liberté di René Clair a Crainquebille di Jacques Feyder. L’iniziativa richiamò un pubblico enorme e tra i più assidui frequentatori ricordo Anna Proclemer, Sergio Sollima, Ruggero Jacobbi, Turi Vasile. Insomma, il Cineguf stava riscuotendo larghi consensi e la nostra attività di cineclub fu premiata con il regalo di un proiettore portatile sonoro della Cinemeccanica Balilla, che ci permise di presentare film a 35 mm anche nel salone originariamente attrezzato per le proiezioni.”

-Tutto ciò consentiva di respirare un’aria insolita rispetto a quella stagnante dell’ufficialità.

“Esattamente. Tanto è vero che, sempre grazie a quella specie di zona franca che era il Cineguf, potemmo vedere alcuni film americani, ricordo  soprattutto Il mago di Oz di Victor Fleming che ci impressionò per la saturazione del Technicolor, trovati in Grecia dalle nostre truppe e depositati in custodia presso un esercente di via XX Settembre. Tutte queste cose facevano del Cineguf un’area protetta e privilegiata che attirava gli appassionati di cinema come le mosche sul miele. Uno di questi fu Carlo Lizzani, grazie al quale organizzammo una serie di incontri con personaggi che nel cinema erano impegnati professionalmente: Aldo Tonti, Michelangelo Antonioni, Giuseppe De Santis, Antonio Pietrangeli, Cesare Zavattini, Mario Alicata, i fratelli Dario Puccini e Massimo Mida. Fu attraverso loro che arrivai alla rivista “Cinema”.”

-Che merita un discorso a parte.

“Sì, perché essendo diretto da Vittorio Mussolini quel mensile era considerato non solo la rivista più rappresentativa del regime, ma addirittura  l’organo ufficiale del cinema italiano. Gianni Puccini,  che vi collaborava da tempo, vi aveva introdotto Giuseppe De Santis e questo, a sua volta, aveva portato con sé Carlo Lizzani, affascinato dai suoi scritti su “Roma fascista” che tuonavano contro il cinema dei “telefoni bianchi” sostenendo la causa del realismo. Come in una processione, dove si cammina uno appresso all’altro, dietro a Carlo Lizzani anch’io varcai il portone di piazza della Pilotta, dove aveva sede la rivista. Mi fu assegnata la rubrica di fotografia, qualche servizio fotografico, incarichi relativi a interviste alle attrici e agli attori del momento. La redazione era un club dove ci si incontrava per parlare e discutere di idee, proposte, progetti. Il tema dominante era quello di imprimere una svolta radicale al cinema italiano. E il modo di cambiare rotta non poteva essere che una decisa sterzata verso il realismo. Modello ispiratore e punto di riferimento diventa la poetica veristica di Giovanni Verga. Gianni Puccini ci raccontava che, essendo un amico del padre  (Mario Puccini, inizialmente editore di Papini, Cecchi e Pirandello, collaboratore de “La Voce”, scrittore affermato) da ragazzo aveva avuto modo di conoscerlo bene. Un altro frequentatore di casa Puccini era un nobile milanese della famiglia Visconti, che in Francia era stato aiuto di Jean Renoir e che a quell’insegnamento  intendeva rifarsi per portare sullo schermo i racconti di Verga, ottimi soggetti per un cinema nuovo. Insomma, quella era l’atmosfera in cui si viveva all’interno di “Cinema”.”

-E in quell’atmosfera nacque appunto” Ossessione”.

“Infatti. Dopo lo sfortunato tentativo di portare sullo schermo L’amante di Gramigna, inesorabilmente bocciato da Alessandro Pavolini, allora ministro della Cultura Popolare, Luchino Visconti, De Santis, Alicata, Aldo Scagnetti e i fratelli Gianni Puccini e Massimo  Mida  cominciarono a lavorare a Ossessione. Del gruppo di sceneggiatori faceva parte anche Moravia, il cui nome non poteva però figurare per via delle leggi razziali. Inizialmente il film avrebbe dovuto intitolarsi Palude e non sarebbe riuscito a passare fra le maglie della censura preventiva se non avesse trovato uno strenuo difensore nel futuro presidente dell’Anica, Eitel Monaco. Ricordo che mentre a Roma visionavamo il girato, Mario Serandrei, il montatore del film, commentò quelle bellissime immagini di Aldo Tonti con un termine passato alla storia: neorealismo. Ossessione diventò il manifesto della rivista, il suo fiore all’occhiello, espressione di  una nuova estetica e il suo gruppo diventò l’anima di “Cinema”.”

-E Vittorio Mussolini?

“Lo si vedeva poco. A rappresentarlo era il segretario di redazione, Rosario Leone, un ufficiale dell’Aeronautica, sempre in divisa, che appena arrivava il direttore ci mandava tutti nelle proprie stanze. Ma, nonostante si cercasse di salvare le apparenze, Vittorio Mussolini era ben conscio di non annoverare gente entusiasta del regime fra i suoi più stretti collaboratori. Nel 1942 Mario Alicata e i fratelli Puccini-Mida furono arrestati. Stava per concludersi un’epoca. Eravamo ormai nel 1943. Ossessione aveva fatto una breve uscita a Ferrara e subito sequestrato. Forti del fatto che il Cineguf di Milano, appoggiato dalla Cineteca Italiana di Comencini e Lattuada, aveva presentato La grande illusione di Renoir, film che nonostante la Coppa della Giuria alla Mostra di Venezia non aveva ottenuto il visto di censura, decidemmo di presentare Ossesione nella sala del Cineguf. Temendo rogne il proiezionista si era defilato e io stesso mi misi al proiettore. Quella fu l’ ultima iniziativa del Cineguf romano e anche della rivista “Cinema”. L’intera redazione era tenuta sotto controllo e, vista la situazione, cominciammo a squagliarcela uno dopo l’altro.”

-Giusto in tempo, anche se il bombardamento del quartiere San Lorenzo del 19 luglio e la caduta di Mussolini in seguito al voto del Gran Consiglio  avrebbero cambiato completamente lo scenario nel volgere di poche settimane. Ma che cosa successe dopo?

“Il dopo fu più velleitario che altro. Presi dall’euforia del momento, il gruppo dei redattori e collaboratori di “Cinema” si riunì il 26 luglio in casa di Sergio Amidei, lo storico sceneggiatore di Roma città aperta di Rossellini, che abitava in uno splendido attico affacciato su piazza di Spagna. Amidei, da capopopolo qual era, cominciò a impartire ordini a destra e a manca. La scena era comica, perché, il suo tono autoritario contrastava con l’aspetto. Dato il gran caldo, infatti, Amidei era in mutande, guardato con disapprovazione e disgusto dall’impeccabile Visconti. Fra i vari ordini autorevolmente dispensati, a me e a Domenico Purificato toccò quello di occupare la redazione di “Cinema”. Purificato era l’impaginatore della rivista e come tale era in possesso di un mazzo di chiavi. La sede era deserta e dopo un’occupazione di poche ore, tanto simbolica quanto inutile, ce ne tornammo  a casa. Così, mestamente, si concluse l’avventura della rivista ‘Cinema’. E con   lei quella del Cineguf.”