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Federico PONTIGGIA e LUIGI LOCATELLI- La moviola del tempo. “Sette opere di misericordia” (pro e contro)

Rai Movie ha trasmesso di recente “Sette opere di misericordia” (2012), primo lungometraggio di narrazione dei fratelli De Serio, noti viceversa per la loro coerente, determinante attività di documentaristi. Il film partecipò al Festival di Locarno provocando reazioni diverse. Noi mettiamo a confronto quelle di Federico Pongiggia (Il Fatto Quotidiano) e Luigi Locatelli (Nuovocinemalocatelli.com)  La prima a favore, la seconda di stroncatura. Attenzione: il film ‘ripasserà’ sul piccolo schermo: chi  vorrà, potrà autonomamente giudicarlo (così come ci auguriamo…se no che si lavora a fare?)

 

 

La moviola del tempo


SETTE OPERE DI MISERICORDIA

Un film dei fratelli De Serio- Interpretato da Stefano Cassetti, Cosmin Corniciuc, Roberto Herlitzka, Olimpia Melinte, Ignazio Oliva- Due opinioni contrapposte

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-Una Antiparabola cartesiana

Sette opere di misericordia e un’opera d’arte. Classe ’78, artisti, videoartisti, documentaristi ed esordienti al lungometraggio narrativo con Sette opere di misericordia, già in concorso a Locarno e poi vincitore di tanti riconoscimenti, da Annecy a Villerupt, passando per Marrakech e gli RdC Awards. Sono i gemelli torinesi Gianluca e Massimiliano De Serio, che sublimano in chiave artistica e cinefila – sì, sono duri e puri – la misericordia caravaggesca, ovvero le sette opere di misericordia corporale: dar da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, visitare gli infermi, i carcerati, seppellire i morti.

Il loro è un cinema autoriale, ma non chiuso, nella misura in cui chiede e concede allo spettatore di essere altrettanto. E non da qui, ma da sempre: cortometraggio d’esordio nel 2002, Il giorno del santo, poi Maria Jesus, L’esame di Xhodi, le installazioni (Love e No fire zone) in giro per il mondo e i documentari (Bakroman), i De Serio – perdonate il gioco di parole – fanno sul serio.

La loro ultima “anti-eroina” è Luminita (Olimpia Melinte), una giovane migrante clandestina che sopravvive in una baraccopoli: ha un piano di salvezza – si fa per dire – e per portarlo a termine incrocia Antonio (Roberto Herlitzka), un anziano malato. Incontro-scontro, con ricadute inattese, almeno per gli spettatori: si parte dal nero dei titoli di testa, si arriva al bianco di quelli di coda, e il passaggio non è solo cromatico, ma morale. In mezzo, forse la scena più bella del cinema italiano ultimo scorso: nottetempo, Luminita muove avanti e indietro una palla cangiante per acquietare un neonato, ed è il cardine etico e drammaturgico del film. Non solo, questa coincidenza di luce e buio illumina il paradosso del visibile da cui muovono le Sette opere: il bianco, ovvero una luce abbacinante che non permette di vedere, e il nero, l’oscurità che pure lascia intuire.

Analogamente, la misericordia è esplorata con modalità laiche e laicizzate, senza sovrastrutture fideistiche, perché si possa ricondurla alla pietas di Enea e Anchise. E alla pratica di vita nicciana: non il cristologico, ma il cristico, affidato a un percorso sensibilmente estraneo all’affabulazione e all’esemplarità delle parabole cinematografiche con le “solite” figurae christi.

Perché, dicono i De Serio, si può non essere malvagi e comunque vendere un neonato, facendo soldi a prezzo della vita altrui: non solo l’occasione, ma il corpo (del reato) fa l’uomo ladro, in una anti-parabola che fa della aconfessionalità il grimaldello per accedere al sacro, alla sua irredimibile violenza e al capro espiatorio già cari a Girard. Si può chiedere di più a un’opera prima? Domanda retorica, viceversa, la risposta stilistica dei due registi-sceneggiatori è antiretorica: Sette opere di misericordia non è un film italiano, almeno nel primato alla forma – parolona – eidetica, ovvero a uno stile in cui già risiede buona parte del “contenuto”.

Se i De Serio cercano intenzionalmente l’austerità, la rarefazione a volte indulge nella programmaticità (a scapito dell’emotività) oppure nel calligrafismo, ma sono aporie che non sballano le coordinate di un discorso cartesiano, che si concede la bella immagine – d’altronde, sanno girare come pochi – ma non viene mai meno a una partitura cerebrale eppure umana, troppo umana.

Così umana da non trattare i migranti come categorie protette (vedi, tra gli ultimi, Terraferma di Crialese, escluso dagli Oscar), ma semplicemente esseri umani, né usare guanti buonisti e paternalistici per raccontare il disagio, la marginalità, la malattia e la vecchiaia. Senza illustrazioni consolatorie e affabulazioni alla volemose bene: davvero, sono italiani i fratelli De Serio? Per ora, tra video art e doc, li conoscono di più all’estero, e per come siamo messi – ci mancava giusto Schettino per ricordarcelo…- suona come un complimento. Ma mandiamoli a memoria, il cinema italiano ne ha un disperato bisogno. (f.p.)

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– Prendersi sul Serio, e non per gioco di parole

I due gemelli piemontesi De Serio, anni 31, hanno sì un buon curriculum di documentaristi e cortisti, ma qui sono al loro primo lungometraggio di finzione, e qualcuno avrebbe dovuto dirgli che raccontare una storia (una qualsiasi storia) è un’altra cosa, un altro mestiere e richiede altre abilità. In questo film dal titolo pretenziosissimo non si capisce niente. C’è un’immigrata moldava e c’è un anziano signore malmesso, che è un Roberto Herlitzka che da solo salva quel pochissimo che si può salvare del film, capace di recitare anche con le ciglia o le pieghe della pancia nuda (sì, perché i due gemelli lo mettono a nudo in una lunga sequenza).

I due si incontrano, lei pensa di approfittarne. La ragazza, che si chiama Luminita ma forse no, ha bisogno di soldi, forse per comprare i documenti e l’identità di una straniera custodita all’obitorio. Ha un bambino, che forse è suo e forse no, forse gliel’hanno dato perché la recita della nuova identità sia più convincente. Forse forse forse. Perché i signori autori non si degnano di spiegarci niente e niente ci fanno capire lasciandoci al buio, forse (forse!) convinti che più si esagera in silenzi e non detto e mistero più ci si avvicina al Sublime. Si sa, in simili visioni alto-autoriali la trama è vista come un impiccio, una volgarità, roba ad uso di povere casalinghe disperate. Sette opere di misericordia è il frutto di questa visione anoressica e martirizzante del cinema. Sicchè sotto ai nostri occhi i personaggi si muovono e agiscono catatonici senza apparente motivo, in un vuoto narrativo che finisce col diventare anche vuoto di significato.

Vediamo la ragazza che maltratta e lega il vecchio per rubargli i soldi, però misteriosamente il vecchio non sembra serbarle rancore, anzi diventa poi suo alleato quando si tratta di ritrovare il bambino rapito (ma perché?) da loschi figuri. Il tutto naturalmente immerso in una landa desolata di campi simil-rom, case fatiscenti, copertoni bruciati, ceffi orrendi. Come nei vecchi Godard anni Sessanta, quelli più militanti e brechtiani, il film è diviso in blocchi, introdotti da titoli che corrispondono alle opere di misericordia: Visitare gli infermi, Vestire gli ignudi, Dar da mangiare agli affamati, Seppellire i morti ecc. Qualche volta le sequenze che seguono i suddetti titoli c’entrano qualcosa, altre volte no. All’inizio Sette opere di misericordia sembra almeno evitare le solite sabbie mobili del politically correct, e quando ci mostra la badante che deruba il vecchio pare suggerirci che gli immigrati, svantaggiati socialmente, non sempre sono angeli, che la miseria materiale e la bontà non sempre vanno di pari passo.

Ma i De Serio si pentono presto di questo cattivo pensiero e trasformano la loro Luminita in una martire e la sua storia in una via crucis, come vuole il paradigma dei film sui migranti. I modelli di riferimento sono evidenti: Olmi, Kieslowski, i Dardenne. Ma siamo molto lontani. Va certo riconosciuto ai due registi il coraggio di provarci con un cinema impervio, e di avere qua e là uno stile, purtroppo però i migliori propositi non necessariamente producono buoni risultati. (l.l.)