Script & Books

Agata MOTTA- Oceano D’Arrigo (“Horcynus Orca”, regia di Collovà, al Teatro Biondo, Palermo)

 

 

Il mestiere del critico

 


OCEANO D’ARRIGO

“Horcynus orca” reinventato per il teatro in uno spettacolo-fiume di Claudio Collovà- Di scena al Teatro Biondo di Palermo

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L’acqua, come elemento di vita e di morte, liquido amniotico che accoglie il feto e massa indistinta che avviluppa cose e persone, l’acqua come l’inizio e la fine dei personaggi, del romanzo, dello spettacolo. Il Teatro Biondo vara con Horcynus Orca – Transito e ricongiungimento (in scena fino al 15 maggio) tratto da Stefano D’Arrigo un progetto ambiziosissimo e lo realizza con un dispendio di forze e di energie che porta all’impeccabile realizzazione, nelle mani cesellatrici e nello sguardo raffinato ed elegante di Claudio Collovà, di uno spettacolo-fiume nel quale immergersi dopo aver rinunciato alla frenesia quotidiana. Chiunque abbia fretta di vedere, di sentire, di capire, chiunque sia avvezzo al consumo di un rito seriale, chiunque non riesca a scollegarsi dagli ultimi post virtuali, dovrebbe rinunciare all’impresa.

Immersione nell’acqua, si diceva, tramite il bellissimo, ipnotico video di Alessandra Pescetta (probabilmente guidata anche dallo stato di allucinazione che conduce ‘Ndrja nel viaggio sottomarino all’inseguimento delle fere che si danno la morte nel cratere vulcanico) che scandisce le tre cantiche del lavoro con un climax sensoriale e percettivo che restituisce nelle inquadrature in primissimo piano e in dettaglio fluttuanti brandelli di esistenze, tessuti, foto, volti, tralci fioriti, fedi nuziali, nuvole di sangue. Il mare paziente raccoglie e custodisce, il mare vorace ingoia e consuma, ieri come oggi, eterno, perché il mare non muore mai. Nell’affrontare un’opera così massiccia e impervia, la scelta drammaturgica di Collovà è stata quella di isolare alcuni personaggi e alcuni episodi, di legarli in un’unità fittizia, rinunciando a quelle affascinanti sfaldature narrative che il romanzo di D’Arrigo presenta per via delle innumerevoli digressioni, dei flashback, delle visioni, del flusso di coscienza che aggrovigliano la lingua preziosa, percorsa da un ardito periodare e irta di neologismi.

Ed è una scelta totalmente vincente, perché, nell’affiancare al protagonista ‘Ndrja le figure del padre Caitanello, della femminota Ciccina Circè, dello spiaggiatore e del fantasma della madre, il regista riesce a dare compattezza e solidità alla storia senza abdicare alle sue molteplici suggestioni. Sin dalle prime battute, lo spiaggiatore, che coglie nel giovane reduce smanioso di rientrare in Sicilia un’ansia conoscitiva, lo allerta sui rischi del “sentito dire” rispetto alle certezze del “visto con gli occhi”, rispettivamente notte e giorno, femmina e maschio. E’ una chiave di lettura che condurrà lungo il percorso. Presto arriviamo al secondo incontro, quello del transito che dà il nome alla prima cantica, quello che porterà ‘Ndrja dall’altra parte dello Stretto sulla barca di Ciccina Circè, seduttiva Caronte dal cuore di brace, traghettatrice, in questo caso, non per necessità ma per scelta.

Lungo il tragitto, la donna incanterà le fere con il suono di un campanello rendendole inoffensive e stordite, blandirà il giovane uomo per poi respingerlo, vorrà infine essere da lui posseduta, ma non senza aver rievocato dolorosamente l’amore per il siciliano Baffettuzzi, soldato suo malgrado, che alla guerra avrebbe preferito le carezze, partito e mai tornato, forse ridotto a pezzi di carne martoriata, frammenti rossi sparsi sul sacro suolo dell’approdo che vedrà l’amplesso tra i due. Insinuanti e aspri, intensi e veri Manuela Mandracchio (Ciccina Circè e poi il fantasma della madre) e Giovanni Calcagno (‘Ndrja) danno sagoma e spessore alla brumosa inquietudine infernale in cui sono calati con una gestualità onirica costretta ad ancorarsi nella concretezza dei gesti rapidi e precisi della navigazione.

La donna teme le anime vaganti che il mare ha ingoiato, i fantasmi dei marinai che la compagnia delle fere dovrebbe scoraggiare e l’uomo in qualche modo se ne lascia turbare. Complici del loro viaggio interpretativo i gioielli  scenografici di Enzo Venezia. Si era appena apprezzata la spiaggia costituita dai sacchi ispirati a Burri, quando, nel riferimento alle atmosfere dell’Isola dei morti di Böcklin e, soprattutto, nel tributo offerto a Boltanski e al suo tentativo di intrappolare la labilità della memoria per sottrarla alla morte, Venezia ottiene un effetto di struggente bellezza: il fondale si trasforma in pinacoteca a cielo aperto con un reticolo intessuto di foto d’epoca (nello stile del fotografo francese), ogni volto è dentro una cornice perché ogni vita è un’opera d’arte, anche quella incompiuta dei morti ammazzati.

Inutile sottolineare che per analogia la mente corre allo stesso mare di oggi insanguinato da altri cadaveri, da altre speranze recise, ma piace che l’accostamento resti implicito, che la collocazione temporale non sia alterata dal regista a vantaggio di un’attualizzazione che non necessita di essere gridata. Vincenzo Pirrota, già saggio spiaggiatore, è il protagonista della seconda cantica, quella del ricongiungimento, quella purgatoriale di un padre e di un figlio che si ritrovano a distanza di anni, che hanno graffiati gli affetti e aperto il varco alle delusioni.

Pirrotta si appropria dei suoi timbri migliori, quelli della rabbia e della dolcezza, del dolore e della gioia, e li addomestica, li rende funzionali alla complessità degli stati d’animo che il vecchio, astioso e ferito deve esprimere. In un antro terrigno addolcito dalle luci di Nino Annaloro, concreto e surreale insieme, le reti stese ad asciugare – la foto del figlio marinaio appesa come si usa per i defunti – e l’enorme pesce messo ad essiccare, le grandi vasche necessarie al lavoro del pescatore che dall’alto sembrano enormi lumini cimiteriali, la gioia dell’incontro è smorzata dall’incalzare dei ricordi e dei torti subìti e poi velata da malinconica tristezza per l’apparizione del fantasma materno. Gli sposi felici erano Aci e Galatea, amanti mitologici i cui nomignoli ‘Ndrja orecchiava da bambino, erano Granvisire e Masignora, nobiltà d’animo e di sentimenti in corpi umili di popolani innamorati.

La Morte, ultima cantica, giunge infine per ‘Ndrja, in fondo condotto per mano nel viaggio di ritorno che è stato anche rito iniziatico al più grande dei misteri, e per l’Orcaferone, mostro marino ammorbante considerato immortale (e riaffiora Melville già metabolizzato da D’Arrigo). Il padre silenzioso lava il figlio con dedizione, è un lavacro che presagisce la fine, è un atto pietoso compiuto su un corpo ancora vivo come se fosse già cadavere. Il figlio chiede consigli sui facili guadagni prospettatigli dalla partecipazione ad una regata, ma il padre tace perché il cuore conosce. L’enorme carcassa dell’Orcaferone incombe su entrambi, un altro presagio e un altro capolavoro scenografico, anche per essa la fine è vicina ed è narrata da Caitanello con magico realismo.  Poi il silenzio, non più vivificato dalle musiche di Giuseppe Rizzo. Ed è ancora il mare a sopravvivere.

Claudio Collovà firma uno dei suoi migliori lavori e si conferma studioso colto e sensibilissimo ed eccezionale maestro nell’orchestrazione dei vari elementi scenici, niente appare superfluo pur nella sovrabbondanza, tutto contribuisce alla resa di uno spettacolo che non si lascerà dimenticare.