Agata MOTTA- Trilogia del naufragio (“Lampedusa way” di scena al Biondo di Palermo)

 

Il mestiere del critico 



TRILOGIA DEL NAUFRAGIO

“Lampedusa way” di Lina Prosa di scena al Teatro Biondo di Palermo   

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In viaggio con la speranza di ritrovare Shauba e Mohamed., in viaggio per recuperare pezzi sparsi di famiglie disgregate, in viaggio per tentare di ricucire frammenti di storie mancanti all’appello della conoscenza prima e della memoria dopo. In sottofondo il cuore della grande Africa che pulsa per i suoi figli dispersi, lento come una nenia, ineluttabile come il destino.

E’un dolente pellegrinaggio quello condotto da Lina Prosa – in veste di autrice e di regista – con Lampedusa way, capitolo conclusivo della sua Trilogia del Naufragio che ha già riscosso grande successo in Francia (la traduzione è di Jean Paul Manganaro) e che adesso giunge in prima nazionale alla Sala Strehler del Biondo, che della Trilogia è stato anche produttore. Sono, infatti, i personaggi dei due atti precedenti ad essere oggetto della ricerca disperata dei parenti più prossimi: Shauba, la giovane donna naufragata in mare proprio in vista dell’isola/terra promessa, della quale abbiamo amato i pensieri dispiegati nel tempo lento dell’annegamento, e Mohamed, il giovane ingegnere in attesa di smistamento asceso in un’innevata cima alpina  con un opposto percorso di annientamento.

Mahama e Saif, già in parte conosciuti attraverso le parole di Shauba e Mohamed, partono con la mente ingombra di sogni incomprensibili e di presagi che somigliano spesso alla realtà, specie quando parole come naufragio e neve attraversano le loro bocche inconsapevoli. Giunti a Lampedusa, la loro strada deve seguire le orme di chi li ha preceduti, le loro domande devono trovare risposte logiche e sicure. Aspettano un uomo che può darle, il Capitalista, gigantesco Godot che incombe sul loro limitato orizzonte senza mai materializzarsi.

Maddalena Crippa e Graziano Piazza, in totale sintonia con il testo, imprimono la forza dello loro robusta e solida esperienza ai personaggi; hanno volti espressivi dietro i quali si leggono, senza che siano visibili, i solchi profondi lasciati dalla vita. La Prosa chiede loro una certa solennità rituale nei gesti e nelle parole, una scansione vocale che crei talvolta un rallentamento, una sospensione che vuol suggerire l’implicito. La scenografia di Paolo Calafiore, evocativa e realistica insieme, è realizzata da piani inclinati rivestiti da grosse reti da pesca e da fragilissime quinte, sembrano carta velina appena increspata, su cui le luci scandiscono un tempo che passa implacabile.

Sullo sfondo si stagliano degli ombrelloni divelti, piccolo sorriso malinconico di spiagge estive, un tempo affollate di turisti, ormai divenute triste simbolo di disperazione. Proprio quei grandi ombrelloni devono appartenere al Capitalista che dovrà pur venire a riprenderli per custodirli durante le ore notturne, ma le mani che li chiuderanno sono nere, non sono le bianche mani di chi possiede e dispone.

Una musica, un vigile, un postino, uno sciopero si offrono come intermittenze quotidiane in un’attesa altrimenti puramente surreale; il linguaggio intessuto di metafore può accogliere la realtà di un’isola dall’identità ormai snaturata sulle cui sponde si muovono passi scalzi e nella quale è preferibile non mangiare tonno, macabra allusione ai pasti che quel mare offre ai propri pesci. Nella condivisione di uno spazio e di un dolore comuni, i due imparano a conoscersi, con il pudore legato all’età non più fresca e alla situazione non certo lieta e si ostinano a trovare risposte ai loro dubbi, ma il tempo a loro disposizione corre veloce e non sarà la loro rabbia o la loro determinazione a bloccare la partenza della grande nave e a decretare la necessità del ritorno.

Un ritorno che non potrà avvenire a mani vuote, perché, quand’anche la sorte si fosse rivelata infausta per i loro giovani, ai corpi morti è necessario dare sepoltura e onore di pianto. Lina Prosa, sulle orme di illustri predecessori, sceglie un teatro engagée, un teatro che si trasformi in impegno politico, in provocazione letteraria, in urlo di protesta che vuol diventare voce di misericordia e di accoglienza.

Essere clandestini non significa rinunciare alla propria identità per divenire numeri indesiderati, non significa rinunciare ai propri diritti né schierarsi dalla parte dei cattivi, perché non si è tali se si è nati in un angolo di mondo che profuma di paradiso ma può trasformarsi in inferno. Ai clandestini, proprio a quelli che per definizione non dovrebbero averne, la Prosa vuol lasciare almeno una speranza – delicato e tenero il ballo finale che unisce i due corpi stanchi in una primavera di promesse – una via d’uscita dall’incubo di una ricerca che non potrà avere un esito fortunato, sebbene loro non lo sappiano ancora.

Ed è proprio questo a legare il pubblico ai personaggi in una sorta di muta complicità, verrebbe quasi la tentazione di sussurrare a mezza bocca: “Basta… non cercate più… sono morti entrambi!”, ma sarebbe altro sale sparso sulle ferite e si preferisce tacere e magari augurarci che Shauba e Mohamed non siano morti davvero e che l’autrice li tiri di nuovo fuori dal cappello con una becera manovra da telenovela che ovviamente non sarà propinata come pasto caldo e consolatorio. Si chiudono due storie che potranno generarne un’altra, ma non si chiude sicuramente un percorso umano, quello che l’autrice ha voluto affrontare con la piena coscienza del suo valore etico.