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Danilo AMIONE- Il cinema di chi osa farlo (note su “Taxi Teheran” di Jafar Panahi)


Il mestiere del critico


IL CINEMA DI CHI OSA FARLO


“Taxi Teheran”  di Jafar Panahi. Prod.Iran-2014\2015   Con Jafar Panahi e attori non citati per motivi di sicurezza.

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Un taxi-cinepresa corre per le strade di Teheran. Il tassista-regista è Jafar Panahi, uno dei massimi esponenti della Nouvelle Vague iraniana, costretto a girare in clandestinità nel suo paese, l’Iran, per una assurda condanna “politica” a 20 anni di proibizione di ogni attività artistica e di divieto all’espatrio, oltre che a 6 anni di reclusione. Poiché la sua vita coincide con il cinema e non il farlo significherebbe non respirare, sono sue parole, Panahi si è genialmente inventato, seppure ispirandosi in parte a “Ten” del suo maestro Kiarostami, un film capace di sfuggire, in fase esecutiva, ad ogni controllo statale, mettendosi egli stesso in scena come tassista e raccontandoin stile cinema-vèritè tutto quello che può, perché la cinepresa agisce, “costretta”, solo all’interno dell’auto anche quando si “proietta” verso l’esterno In questo aiutato, a loro rischio e pericolo da un gruppo di attori suoi amici.

L’automobile, da sempre simbolo di libertà anche e soprattutto al cinema, diventa dunque qui “veicolo di immagini in movimento” capaci di raccontare, nelle tante forme della soggettiva e del piano sequenza, un paese, l’Iran, dalle mille contraddizioni, ancora incapace di darsi un’identità, sospeso fra tradizione e modernità. Emblematica, in tal senso, la prima sequenza del film in cui una donna dibatte con un uomo sconosciuto all’interno del taxi sulla validità morale della pena di morte, sentendosi dare ad ogni risposta, già di per sé sconfortante in quanto a contenuti, del tu dall’interlocutore. Sono passati 15 anni da “Il cerchio”, capolavoro di Panahi, Leone d’oro a Venezia, ma la condizione della donna, purtroppo, sembra suggerirci il regista è sempre la stessa.

Ma non soltanto le donne sono state soggetto privilegiato dei film del regista iraniano, che con “Il palloncino bianco” e “Lo specchio” ha raccontato poeticamente l’infanzia come metafora di libertà. Anche stavolta, Panahi “approfitta” dell’innocenza dello sguardo infantile, attraverso la figura della nipotina,impegnata a girare un film secondo le “direttive” della maestra, che prevedono anche l’esserne “distribuibile e censurabile”, per mettere in primo piano il cinema come strumento naturalmente libero da ogni influenza, impossibilitato ad essere ingabbiato. Come lui, tra l’altro, nel fare il suo film sta dimostrando. E la sequenza in cui lo sguardo di Panahi sul mondo è sostituito da quello, finalmente libero, della camerina agita dalla nipote a bordo del taxi è da annali del cinema.Metacinema non fine a sé stesso, né compiaciuto, dunque, ma occasione per dire anche tanto sulla “pedagogia” di un paese che come tutti i regimi totalitari tende ad ingabbiare forme e contenuti entro limiti innaturali e forieri di future deflagrazioni.

Così non è certo un caso che salga sull’auto di Panahi anche un suo amico in possesso di immagini registrate da una videocamera di sorveglianza,che inchioderebbero un ladro. La sua rinuncia ad utilizzarle in nome della pietà per chi ha commesso un crimine per bisogno e disperazione e soprattutto per la sproporzione della pena, la condanna a morte, a cui andrebbe incontro il colpevole, la dice lunga sull’altro volto del cinema, dell’immagine, la sua potenza assoluta, divina. Di conseguenza Panahi sottolinea la necessità di discernimento che sappia fare uso, anche materialistico e dialettico, di quello sguardo morale, necessario nell’agire del cinema, evocato per primo da Roberto Rossellini. E certamente lo splendido e freddo finale del film, con la cinepresa-occhio tragicamente distrutta dai poliziotti, in una sequenza genialmente prolungata in campo lungo alla Antonioni, sintetizza al meglio i motivi di un film che parla di cinema ma si occupa di libertà.