Angelo PIZZUTO- Quel (tanto) di Ripley che è in noi (“Primo piano sull’Autore”)

 

Anche questo contributo di Angelo Pizzuto è tratto dal catalogo della recente rassegna “Primo piano sull’Autore”, dedicata all’opera di Liliana Cavani

 

QUEL (TANTO) DI RIPLEY CHE E’ IN NOI

Locandina Il gioco di Ripley

La Cavani e la più originale fra le trasposizioni filmiche del romanzo della Highsmith

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Nella filmografia di Liliana Cavani, indubbiamente variegata ma di costante coerenza esegetica (la sua ricerca della ‘sacralità nel profano’ e viceversa; la certezza che ogni relazione tra umani  implica  insani esercizio di potere e subalternità) esiste un’opera, tra le meno indagate, che si distingue –a me pare- per una forte analogia, affinità elettive e caratteriali fra la regista modenese e la quasi contigua, magistrale (mercuriale) scrittrice statunitense – Patricia Highsmith- da cui è tratto quel “Gioco di Ripley” ( 2002),  che disseppellisce, più di ogni analisi strutturale o meta-linguistica, quella specie di  male oscuro che alligna oltre la linea d’ombra  del “doversi destreggiare fra le cattiverie del mondo” –  già palesi (pur se astratte, indefinite, metafisiche) negli avvertimenti di Joseph Cotten (zio Charlie) alla nipote Teresa Wright in “L’ombra del dubbio” di Hitchcock del 1943.

Riflettiamo: chi è  Mr. Ripley secondo la Cavani? Uno schivo, elegante, crudele  trafficante in opere d’arte che  crede di avere concluso l’affare della sua vita.  In seguito al quale si è ritirato in una palladiana  villa in Veneto in compagnia di donna (un tempo compagna d’ musicista), adesso moglie e complice a tempo pieno (ma sincopato nei ‘tempi morti’). In villa, Ripley (grumosamente interpretato da John Malcovich) è raggiunto  ex braccio destro che chiede aiuto per eliminare, in Germania, alcuni (potentissimi) rivali di etnia slava. Qui la vicenda si annoda:  Ripley non vuole entrare in gioco in prima persona bensì  mettere alla prova la sostanziale onestà  (quasi la bontà d’animo)  di un corniciaio locale di cui ha conquistato la fiducia. Sicuro  che costui,   ammalato di leucemia  e assillato dall’idea di morire lasciando in miseria la propria famiglia,   cederà dinanzi alla prospettiva di forti guadagni, Ripley sarà capace di   trasformare   in killer l’ignaro artigiano, quindi (scommettendo su se stesso) advenire ad un ‘affare su commissione mediante …la commissione’ di un crimine a chi più ne era mentalmente alieno.

Va detto subito (qualcuno lo ricorderà) che su analogo soggetto s’erano già cimentati due registi diametralmente opposti per stile e facoltà evocative: Anthony Minghella e Winm Wenders.   Nel 1999, “Il talento di Mr. Ripley”- più  romanzesco, struggente, ‘maudit’, dispendioso in locations- aveva consentito al prematuramente  scomparso autore de Il paziente inglese”  di mettere a confronto i temi della improbabilità e della inattendibilità di qualsiasi ‘apparire ed apparenza’: lasciando serpeggiare in Ripley una sorta di Zelig trasformista, avido,  psicotico (interpretato con le debite ambiguità fisiognomiche da un giovane Matt Damon) . Il quale, “mettendo la sordina alla propria incompiuta omosessualità” (Morandini)  accetta, pur da efferato giramondo e omicida seriale, di sprofondare nella voragine di una solitudine ‘inconfessabile’ e senza ritorno: isolato e ammutolito tra prostrazione e nebuloso rimorso (pastellate e  di prim’ordine le sequenze del film ambientate nella Roma degli anni cinquanta)

Del 1977 è invece “L’amico americano” di Wim Wenders  (film poco amato dalla Highsmisth), ove Ripley (pietra miliare nella carriera di Dennis Hopper) è un “tormentato e alcolizzato” esistenzialista allo sbando e preda di una ‘cupio dissolvi’ che  amerà spartire con chi meno lo meriterebbe (Bruno Ganz, ‘deuteragonista’ sofferto e sublime), secondo i canoni di un (unanimemente riconosciuto) ‘thriller dell’anima’, che affonda nel romanzo “Ripley’s game” (1974)  incurante di ciò che racconta, ma fatalmente attratto dal suo ‘spleen’ di  malessere, malinconia e (quasi) ‘religioso’ sentimento di predestinazione e condivisione (coatta) di un ben visibile  baratro spirituale. Affine- azzarderei- più  all’humus del protestantesimo che a quello del ‘polar’, del ‘noir’ tipici della letteratura nel Novencento- liddove il ‘cuore nero’ dell’amicizia tradita coincide –annotava Wenders- con “l’enigma stesso della vita”

Con la  Cavani siamo invece, e in apparenza, ad un lavoro di alto professionismo applicato ad uno specifico genere cinematografico, a metà fra il ‘mistery’ e il giallo psicologica (il ‘non chi è stato?ma il ‘come’ e il ‘perché’qualcosa si dipana) . Non basta. Se l’ambientazione (valorizzata dalle asciutte tonalità fotografiche di Alfio Contini ) è sobria ma suggestiva, il film sembra adagiarsi (rilevava Roberto Nepoti) “su uno strano, languido miscuglio” (incompiuto o seducente?, n.d.r.)   di sottile  violenza (in crescendo) e  allusioni ad un ‘infortunio’ della psiche, ad una mortifera coazione a ripetere che non sai bene se addebitare al ‘peso del mondo’ (Hanke) o all’innato (irrazionale) sadismo di Ripley.

Del resto come stupirsi che sia proprio Liliana Cavani a interrogarsi su quale sia il confine “Al di là del bene e del male”oltre cui  la vita umana irradia se stessa di nichilismo e totale smarrimento di senso? Chiamandoli per convenzione:  fuga da ogni sestante etico\morale, lucida perdizione, punto di non ritorno (nell’accezione che spesso ricorre nel cinema di Polanki)

Convenendo dunque con quanto scriveva Fabio Ferzatti, ovvero “ponendo l’accento sulla trionfante amoralità di Ripley, dandy e assassino.. …la Cavani   invita a nozza  John Malkovich. Il  suo criminale parvenu, con villa del Palladio e amante clavicembalista, ha i guizzi gelidi del  torbido fascino super-omistico che cercheremmo invano nel film di  Minghella”  O  nel grottesco, esorbitante  di Hannibal di Hopkins e del “Silenzio degli innocenti” che è un ulteriore  esteta, discepolo  del crimine  (degenerato) che ha in Ripley il suo capostipite   “ Alla scoperta, in extremis, della  rischiosa arte del delitto” –  chiave di una scarnificata, sofisticata riflessione sulla fatale attrazione  di ciò che classifichiamo atro, amorale, ‘negativo’-  filtrato da una lieve dose  di  crepuscolare ironia,  “non per questo meno amara e violenta”. Così come Liliana Cavani narrò di se stessa e del mondo sin dai clamori\bagliori di “Portiere di notte”.

Ps- Omissione cui porre riparo. Nei giorni in cui si festeggiano gli ottant’anni di Alain  Deloin, ci sovviene che giusto i primo film che lo impose all’attenzione della critica europea , “Delitto in pieno sole” (1960) diretto dal grande René Clement, è anch’esso una libera derivazione dal romanzo della Highsmit
Nel ruolo di Mr. Ripley, Delon -ben sintetizza Mauro Gervasini- Delon “è un concentrato di trattenuta ambiguità, sa recitare più con i silenzi che con le battute, servito da una regia funzionale alla sua misteriosa psicologia”.   Ed è tutto.

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