Script & Books

Ugo G. CARUSO- La testimonianza. Come (perchè) ricordo Nando Gazzolo (quella sua aria british…)

 

La testimonianza*



COME (PERCHE’) RICORDO NANDO GAZZOLO

Foto attuale di Nando Gazzolo

Quella sua aria british che amavamo tanto

****

Inesorabilmente, anno dopo anno, scompaiono uno ad uno i volti familiari della televisione che abbiamo amato e da cui la mia generazione come quella immediatamente precedente e quella di poco seguente, è stata formata. Anche quelle successive potranno dire che lo schermo domestico è stato per loro molto importante. È così infatti ma in tutt’altro senso e all’insegna di modelli di segno opposto.
Se n’è andato da poco pure Nando Gazzolo e lo stato d’animo diffuso che ha accompagnato la notizia della sua morte era palesamente intriso di nostalgia per quella televisione, quel teatro, quel mondo nel suo insieme irrimediabilmente “perdido”. La nostalgia, pur comprensibile e leggittima ad una certa età, può però risultare stucchevole. Viene da pensare all’umanissimo stato d’animo di chi vede nella dipartita di personaggi pubblici l’accorciarsi dei suoi giorni, lo scadere inesorabile del proprio tempo. È così, perchè negarlo?

Eppure o forse maggiormente per chi come me, per passione ancor più che per ragioni professionali, continua a frequentare assiduamente varie forme di spettacolo, il senso di mancanza, di vuoto, si avverte in modo lancinante. E non perchè non esistano anche oggi autori, artisti o spettacoli validi ed interessanti ma perchè essi non costituiscono più il patrimonio comune di una volta e non incidono più sulla realtà come prima. Diciamo che ne rimangono piuttosto ai margini, salvo poche eccezioni, limitandosi ad un ruolo ornamentale nella nostra esistenza. Nella maggior parte dei casi gli spettatori non se ne nutrono, ne fruiscono, se ne servono per trascorrere una serata più o meno piacevole. All’appello poi mancano le nuove generazioni, fatte le debite, sparute eccezioni, attratte o piuttosto distratte da altre cose che non voglio qui qualificare. E il fenomeno direi è piuttosto drammatico, con buona pace di chi prevedo facilmente mi taccerà di passatismo e catastrofismo per tacitare una sua sottile e profonda angoscia di genitore o di semplice adulto a riguardo. Poichè il fenomeno è macroscopico ed innegabile.

Cosa dice ad un giovane di oggi ad esempio il nome di Nando Gazzolo come quello di altri attori e attrici coeve che l’hanno preceduto, da Enrico Maria Salerno a Giancarlo Sbragia, da Tino Buazzelli ad Ivo Garrani, da Raoul Grassilli a Renato De Carmine, da Giulio Bosetti a Luigi Vannucchi, da Corrado Pani ad Aldo Giuffrè, da Anna Miserocchi ad Anna Proclemer, da Rossella Falk a Lucilla Morlacchi, da Mila Vannucci a Valeria Moriconi, da Edmonda Aldini ad Ileana Ghione e di tanti altri ancora? Poco, o più probabilmente nulla. Il legame con il passato, non soltanto per quanto riguarda la cultura o lo spettacolo, è stato tranciato piuttosto di netto. A tanti non pare nulla di grave. Come avrete capito, personalmente sono di tutt’altro parere e dunque parecchio pessimista a riguardo. Forse anche la morte di un attore tra quelli che più ammiravo e che resta legato ad alcuni dei momenti più felici della televisione nazionale, acuisce il mio stato d’animo. Non starò qui a ripetere quel che tutti hanno scritto sulle sue origini savonesi, sull’essere doppio figlio ma anche fratello e padre d’arte, sui suoi esordi con Gandusio, sul successo con “Antonio e Cleopatra” che lo lanciò nel 1951 o sull’Amleto di Gassman e Squarzina che nel ’54 ne ribadì il talento, nè tantomeno sull’intensa attività di doppiatore per cui prestò la sua voce inimitabile, calda, profonda, suadente, a popolarissimi divi dello schermo. Ci sono invece diverse cose che nessuno ha ricordato e a cui mi sembra giusto dare la precedenza.

Di persona Nando Gazzolo, era piuttosto identico a come appariva nel piccolo schermo. Mi chiedevo se a suo tempo fosse stato scelto per certi ruoli per via della sua tipologia fisica, la personalità, ecc. oppure se quei personaggi cui aveva aderito così credibilmente avessero finito nel tempo per rimodellarlo, si fossero insomma un pò impadroniti di lui. A partire da quel William Dobbin così incerto e intempestivo nel dichiararsi ad Emmy Sedley (Ilaria Occhini) in “La fiera della vanità” nella versione di Majano (cui  tempo addietro dedicammo una divertente ed inconsueta maratona telesaudadista di Capodanno!) al contrario del dinamico e positivo Andrej Stolz in “Oblomov”, costante sprone per l’abulico amico (Alberto Lionello). Anche il suo Sherlock Holmes ricreato da Guglielmo Morandi, inevitabilmente meno algido e superomistico di quello consegnatoci da tanti attori britannici del grande e piccolo schermo, è sì flemmatico come richiede il canone fissato da Conan Doyle, ma dietro quella compostezza fa intravedere un dubbio pervicace, un’inquietudine costante ed erosiva.

Altrettanto prismatici i suoi personaggi, che lo fanno oscillare d quelli “positivi” ai loro opposti attraverso una scala di grigi che pochi attori hanno nella loro dotazione. Peccato non averlo visto ne “La sciarpa” da Durbridge del ’63, colpevolmente andato perduto per motivi mai chiariti ma restano “Questa sera parla Mark Twain”, “I Buddenbrock”, “Ritratto di signora”, “Corruzione al Palazzo di giustizia”, “Albert e l’uomo nero”, ” L’ultimo aereo per Venezia” e tanti altri. Purtroppo la nostra televisione dalla cultura teatrale ha ereditato pure la “volatilità” e infatti ho potuto constatare che assurdamente non esiste una voce completa ed attendibile della sua attività professionale, specie quella televisiva. Basandosi su siti approssimativi la maggior parte dei coccodrillisti ha dimostrasto come al solito la propria estraneità agli argomenti trattati, mascherata da toni commossi. Nessuno ha citato, ad esempio, tante commedie andate in onda nei celebri venerdì della prosa e neppure l’indimenticabile western musicale “Non cantare, spara” diretto nel 1968 dal più eclettico dei registi Rai, quel Daniele D’Anza che firmò così uno dei capolavori della nostra tivvù, ideale componente di uno straordinario trittico musicale, assieme al precedente “Il Giornalino di Giamburrasca” di Lina Wertmuller e al successivo “Bambole non c’è una lira” di Antonello Falqui.

Tratto da un’idea di Leo Chiosso, il musical modellato sui formidabili Cetra, schierava un cast davvero mai visto prima di attori “drammatici” in situazioni farsesche o in veri e propri numeri di canto e di ballo. E così accanto a veterani del genere come Tino Scotti, Isabella Biagini, Cittorio Congia o Valeria Fabrizi, troviamo inediti comediennes quali Aroldo Tieri, Renzo Palmer, Luigi Vannucchi e per l’appunto anche Nando Gazzolo. L’anno dopo, sull’onda di una moda che partita dall’inopinato successo nelle charts americane del 45 giri Mcarthur Park cantata o per meglio dire recitata dall’attore inglese Richard Harris, andava diffendondosi anche tra le voci più pregiate del nostro teatro, anche Nando Gazzolo incise con discreto successo discografico “Di notte”, versione italiana del tedesco “Nicht”. Ma a guadagnargli una platea enorme e composita furono i cicli di caroselli ripetuti per circa un decennio al servizio dello stesso prodotto, l’Amaretto di Saronno. Qui, pur tra molte variazioni nel corso degli anni, l’attore interpretò una quantità di liriche che fecero entrare pur nello spazio di pochi istanti la poesia, Petrarca o Alfieri, Leopardi o Montale nella vita di molti italiani, come era avvenuto vari anni prima con Albertazzi per la Barilla. Vorrei concludere con un ricordo personale, anzi due.

La prima al Quirino di “Francesco e il re”, la pièce scritta dal commediografo mio concittadino, il cosentino Vincenzo Ziccarelli, che lo vedeva in scena contrapposto al bravo Salvatore Puntillo nel ruolo del santo nativo di Paola. Era l’ottobre del ’77 ed io, poco più che ventenne, facendomi coraggio, mi avvicinai a fine spettacolo per complimentarmi ma in realtà posi le basi per monopolizzarlo più tardi, a cena, alla Taverna Flavia – dove ci spostammo in compagnia di una rumorosa ed allegra combriccola di cosentini, capeggiata da Giorgio Manacorda, romano ma a quel tempo indimenticato assessore alla cultura della capoluogo bruzio – per ripercorrere la sua attività sul piccolo schermo. Trovai conferma alla mia impressione sulla congenialità di una partner come Ileana Ghione, compagna di tanti lavori (nessuno ha ricordato nei giorni scorsi “La moglie ideale”, la commedia di Marco Praga diretta nel ’69 dal solito D’Anza che lo vedeva protagonista accanto all’attrice torinese e a Gastone Moschin e Ferruccio De Ceresa).

E anche sul partner maschile,  Gianni Bonagura, attore alquanto dimenticato al pari di molti suoi colleghi, ma tecnicissimo e perfetto Dr. Watson, molto più di una semplice spalla, nella mini serie di Sherlock Holmes del 1968. Allora non avrei immaginato che nel 1999 mi sarei ritrovato a parlarne con lo stesso Gazzolo conducendo una serata ospitata dalla rassegna “Giallo Estate” svoltasi nella magnifica Terrazza Cederna con vista sui Fori Imperiali. Rievocammo proprio quello Sherlock Holmes di casa nostra ma io cercai di richiamare la sua memoria ad altri remoti sconfinamenti nelle contrade del giallo, già in un episodio del Tenente Sheridan nel 1960 e poi, come detto, con “La sciarpa”, diretto dallo stesso Morandi nel ’63. Si disse stupito per i tanti ruoli “british” o in alternativa germanici che gli venivano offerti e convenne che forse era proprio Michael Caine tra gli attori da lui doppiati quello che più gli somigliava per temperamento, con quel suo fare sornione e apparentemente calmo.

A fine serata, in privato, quando gli rammentai il nostro incontro di 22 anni prima al Quirino si dimostrò ancora legato a quell’esperienza e sorpreso che io ne fossi stato testimone. Infine, mi salutò affettuosamente dicendosi grato a me e agli organizzatori di avergli consentito di rivivere quei momenti importanti della sua vita professionale. Mi diede chiaramente l’idea di un uomo stanco, spossato, precocemente logorato a poco più di settant’anni da una salute malcerta. Ma pure di un uomo che per intima adesione ad uno standard di stile, per nessun motivo al mondo avrebbe rinunciato a concedersi al pubblico e a congedarsi meno che impeccabilmente da esso.

*  Ugo G. Caruso è fondatore del Movimento Telesaudadista