Script & Books

Agata MOTTA- Lavoro sporco (“Contrazioni” di Mike Bartlett. Teatro Libero di Palermo)

 

Il mestiere del critico


 

LAVORO SPORCO

Una scena dello spettacolo

La reificazione della persona in “Contrazioni” di Mike Bartlett al Teatro Libero di Palermo

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Cosa si contrae in un essere umano fatto oggetto di vessazioni incomprensibili ma assolutamente necessarie in una logica lavorativa superiore e perversa? Si raggrinziscono i sentimenti, le emozioni, il cuore, la psiche, in un processo di igienizzazione totale, di rinascita in una ‘nuova pelle’ funzionale e del tutto impermeabile alle emozioni. Al Teatro Libero di Palermo, Luca Mazzone porta in scena, in questi giorni,  Contrazioni di Mike Bartlett, giovane autore inglese di successo, che si muove con disinvoltura tra teatro, radio e televisione, mantenendo un inconfondibile stile anglosassone fatto di scavo grottesco e lucido portato alle estreme conseguenze, fatto di indagini che vanno dritte alla meta, senza deviazioni e dispersioni, senza distrazioni.

Scostandosi un po’ dalle strettoie di contesti culturali troppo legati al suo territorio, Bartlett guarda al mondo del lavoro e alle sue caratteristiche più moderne e sconcertanti: il senso avvilente di continua precarietà che porta a rinunce sempre più grandi pur di conservare il proprio posto in azienda e, a seguire, il processo di spoliazione della sfera privata a favore dell’efficienza e dell’inserimento in un ingranaggio che si autoalimenta gettando via gli scarti, le scorie del suo processo d lavorazione, anche se queste scorie risultano impregnate di sogni spenti e di sangue pulsante.

Attualissimo, pertanto, questo testo del 2008, che mette il dito in una piaga che qui da noi, forse quanto e più che in Gran Bretagna, catalizza l’attenzione e la disperazione di quanti, con l’assenza o con l’iper.presenza di un lavoro snaturante, devono fare quotidianamente i conti. E fa bene il giovane Mazzone a proporlo, perché il tema non lascia indifferenti e fa riflettere e perché la scrittura dell’autore, nella bella traduzione di Monica Capuani, mantiene alta la tensione e l’attenzione.

Il regista propone un allestimento spoglio, una porzione di ufficio con grande scrivania a segnare la distanza tra il capo e la sottoposta, e fredde poltroncine in pelle e acciaio, una ovviamente più grande dell’altra.

Viviana Lombardo (la manager) e Silvia Scuderi (la sottoposta) conducono con destrezza un seduttivo incrocio di volontà, un efferato gioco di potere, un duello con vittima predestinata. Viviana Lombardo, nell’algida eleganza di un tailleur grigio, è tanto asciutta quanto insinuante, sfodera un gergo aziendale che rasenta la comicità nell’uso dei superlativi assoluti (tutto deve rientrare, anche linguisticamente, nella categoria dell’ottimo), ingessata nella logica aziendale cui è votata, pronuncia le frasi più atroci con assoluta nonchalance, se la si toccasse con le dita si avvertirebbe il gelo della sua anima forse in pena, come in forse sono le lacrime per un momento intraviste dell’impiegata.

Silvia Scuderi, dapprima discreta e riluttante, poi sfrontata, poi ancora delirante e infine finalmente serena ed inquadrata con l’aiutino dello psichiatra aziendale, è l’impiegata modello che si sgretola a poco a poco sotto la potenza plagiatrice di una divinità bifronte (Il Denaro e il Lavoro: l’uno non può esistere senza l’altro, l’uno si nutre dell’altro). Proprio perché dotata inizialmente di una propria umanissima capacità di giudizio, di una normalissima voglia di riservatezza, viene stritolata nelle spire di una multinazionale che non esita a ricorrere al ricatto (ambiguamente posto, quasi larvato) pur di raggiungere i propri obiettivi di efficienza e produttività.

Al pubblico la manager porge per lo più il profilo – più impersonale e neutro – mentre l’impiegata alterna più posture – è ovviamente più esposta e fragile – e non è un caso se quegli stessi volti esplodono frontalmente in primissimi piani e dettagli nei bei video di Pietro Vaglica, che scandiscono il passare dei mesi insieme con il buio e gli stacchi obbligatori in uno spettacolo che si dispiega in quattordici quadri, quasi una via crucis del lento processo di asservimento all’azienda.

Ma ai video Mazzone affida, con un’intuizione preziosa e di grande impatto, un’altra funzione, come un messaggio in bottiglia, come un periodo ipotetico di terzo tipo: in essi il gelo della relazione si scioglie, compaiono intermittenti “stati di comprensione reciproca” non realizzata; nelle immagini guizzano l’angoscia, la sofferenza, l’assurdità innalzata a normalità,  condizioni esistenziali impresse nei volti contratti e nei piccoli gesti non compiuti, negli sguardi dolenti, nelle righe di un Contratto/Legge Suprema, nella riproposta straniata di fotogrammi precedenti.

Il tutto avviene nell’alternanza di bianco e nero e colori, si realizza con la piena padronanza dei piani di ripresa e con un commento musicale, brevissimo e perfetto, condensato nei pochi agghiaccianti passaggi di un brano strumentale degli American Dollar,  scelto, frammentato e riprodotto dallo stesso regista.

In una società votata al lavoro, inteso non come mezzo ma come fine, non può esserci posto per la vita privata e per le sue piccole grandi gioie, specie per una donna – inutile sottolinearlo- che tenta la scalata sociale e personale del successo lavorativo.

L’amore e la maternità sono catalogati come incidenti di percorso e, proprio nella negazione dell’ultima, si raggiunge il culmine del processo demolitorio, il più doloroso e inquietante, ed entrambe le interpreti ne restituiscono in pieno l’orrore.