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Vincenzo SANFILIPPO- Il mio nome è livore (uno spettatolo di Anna Cantagallo. Sala Teatro Gp2, Roma)

 

Lo spettatore accorto



IL MIO NOME E’ LIVORE

Testo teatrale di Anna Cantagallo è ispirato a La vita dei Cesari di Svetonio; inoltre al bel testo di Anthony Barrett Livia la first lady dell’impero, e a Robert Graves, Io Claudio.

con Simonetta Rosella, regia di Nicola Caccavelli, aiuto regia Matteo Rosario Lombardi    Sala Teatro Gp2, Vicolo del Grottino, 3b Roma

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Il valore egemonico, celato o palese,  delle matrone romane nella storia di Roma è ben chiaro in questo spettacolo di Anna Cantagallo, in quanto  attraverso un monologante psicodramma tra ricordo e oblio viene evidenziata la  personalità  di una imperatrice,  Livia  Drusilla, divisa tra i desideri del cuore e il dovere egemonico di stato della neo-aristocrazia  augustea,  uno dei periodi più importanti della storia  dinastica dell’impero romano,  in cui il ruolo della matrona- Imperatrice   viene amplificato nel linguaggio del potere di Augusto.

L’autrice pone con chiarezza questo tema di egemonia al femminile trattandolo  come “ frazionata  scheggia di memoria  storica”,  cosciente che  i pericoli  di rappresentare un tal personaggio, con criteri di demonizzazione e al contempo di riabilitazione, sono molteplici perché  quando si affrontano  temi  storici si può incorrere in  qualche “modalità di manipolazione”, e  sappiamo di come le egemonie  della Storia passata non differiscono di molto dalle egemonie contemporanee. L’argomento trattato, anche  se  è frutto di puntigliosa documentazione, ha presupposto nella riscrittura scenica la rivisitazione e   la “ reinvenzione” dei codici della rappresentazione, riassumibili tra i valori, la storia e le esigenze autoriali d’un teatro pedagogico.

L’ambiente  scenografico  della suggestiva cripta Borromeo, dove è ubicata la Sala teatro gp2, rievoca  l’atmosfera ovattata del  ninfeo semi- sotterraneo   della  storica villa suburbana di Livia Drusilla,  ubicata su un’altura che domina il Tevere presso l’attuale Prima Porta a Roma. Al centro del  palco, unico elemento scenico  la  cathedra, sedia di parata, simboleggiante  la potestà imperiale. L’azione scenica, costruita dall’impalpabile regia di Nicola Caccavelli è condotta come “mitografia iconologica”, realizzata dall’attrice  Simonetta Rosella con atteggiamento statuario alla ricerca di un soliloquio pieno di ombre allusive che accompagnano il “disfacimento” dopo una vita di onori. Un serrato monologo che prende lo spunto dall’unico momento di debolezza di Livia: una influenza che tarda a risolversi (episodio vero). L’attrice nel ruolo dell’imperatrice ormai anziana ancora bella nei lineamenti e nel portamento  di una vestale,  è abbigliata nel suo castigato abito di matrona con il capo coperto. Da tempo ormai vedova di Augusto è rimasta sola nella sua villa suburbana.  Anche il figlio Tiberio succeduto ad Augusto  è a Roma, immerso nelle incombenze gravose della stabilizzazione del proprio potere. Soprattutto impegnato a selezionare, dal dominio dei congiurati eversori, un Senato addomesticato e “addestrato” come  organo rappresentativo, decisionale e di rendiconto consuntivo delle «Istituzioni territoriali dell’impero».

I ricordi lontani di Livia restituiscono un sapiente ritratto della vita di corte poiché  rivivono con freschezza l’incontro con  Ottaviano, quello che diverrà il suo secondo marito, in un  lungo rapporto matrimoniale. Tra  le righe epifaniche  dell’interprete  emergono soprattutto melanconici svelamenti agiografici simili a  lacerazioni che separano il suo corpo sdoppiato di madre e di matrona: Livia desidera la visita  dell’amatissimo  figlio Tiberio che presume non verrà a trovarla. Nel suo confessarsi entrano anche molti altri elementi, riferiti con pacato ma signorile livore: c’è il rapporto con la tragedia, c’è lo scontro, certamente influente, tra una concezione materna e femminile della vita contrapposta  al modello maschile incarnato  sia dal potere  effettivo di  Cesare Augusto, sia dal Senato.

Il suo fluido ripensare, ben espresso dall’interprete, scopre lentamente la sua identità dislocata  da una memoria evanescente e ingannevole, la sola tuttavia in grado di giustificare e lasciar intendere  vicende sconcertanti riguardo  premature  morti, quasi  delle disgrazie, accaduti a figli e nipoti di Augusto, delle quali Lei sembra assumersi moralmente la responsabilità.

Ma dietro Lei, massima rappresentante della virtù romana, si celano le radici ancestrali della donna di potere che aspira di perpetuare il disegno dinastico sul figlio Tiberio.

Perciò il succo di questo succinto monologo riassume  un momento storico in cui la restaurazione della Repubblica  dà luogo a un’epoca evidenziata da accadimenti, storicamente poco chiari, che imperano e governano il malessere collettivo della “virtù romana” …  Ad uno ad uno, Marcello, Gaio, Lucio, Germanico, tutti eredi diretti designati al trono, caddero in circostanze assai sospette. E tutte queste morti non fecero altro che spianare la strada all’elezione di Tiberio, figlio naturale di Livia, ma non figlio di Ottaviano Augusto.

Il testo e l’allestimento pongono delle questioni riguardo Livia Drusilla, e quale fu il suo ruolo sociale nella storia. Certamente fu una donna molto scaltra, mai troppo visibile e soccorritrice. Sarà Lei a suggerire a Ottaviano importanti riforme nel nome della pace sociale, ma eliminando al contempo gli aspiranti al potere imperiale. Lei lo aveva deciso da tempo: solo Tiberio, il suo primogenito sarebbe stato incoronato imperatore di Roma. La scena si conclude con l’ultimo desiderio della donna, già insignita del titolo di Augusta: diventare una dea per sfuggire al castigo che avrebbe meritato per le sue empietà.

Convinti e prolungati applausi alla brava interprete, all’autrice e al regista.