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Vincenzo SANFILIPPO- Anni oscuri a Berlino (“Cabaret” Comp. della Rancia.Teatro Brancaccio, Roma)

 

Lo spettatore accorto*

 

ANNI OSCURI A BERLINO

CABARET, musical della Compagnia della Rancia

“Cabaret” di Masteroff inaugura la stagione del Teatro Brancaccio di Roma- Messinscena dalla Compagnia della Rancia

Con ALTEA RUSSO, MICHELE REZZULLO, VALENTINA GULLACE, ALESSANDRO DI GIULIO, ILARIA SUSS, NADIA SCHERANI, MARTA BELLONI, ANDREA VERZICCO, GIANNI PILLA.   Regia e adattamento SAVERIO MARCONI. Traduzione MICHELE RENZULLO, scene GABRIELE MORESCHI costumi CARLA ACCORAMBONI, coreografie GILLIAN BRUCE, supervisione musicale MARCO IACOMELLI, direzione musicale RICCARDO DI PAOLA, disegno luci VALERIO TIBERI, disegno fonico ENRICO PORCELLI. Produzione  esecutiva MICHELE RENZULLO.   Nella foto in alto: G.P. Ingrassia e S. Marconi

 

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Sinossi:  Il giovane romanziere americano Cliff (Mauro Simone) è a Berlino in cerca di ispirazione e, in quel locale elusivo di regole il Kit Kat Klub, incontra Sally Bowles (Giulia Ottonello) che fa la cantante in quel locale, aspettando la sua grande occasione. S’innamora di Cliff e scopre che l’uomo non solo è incerto sui suoi sentimenti, ma nemmeno  è sicuro sulla sua “normalità”. La ragazza non si arrende e lo seduce, così tra i due inizia una relazione sessualmente turbinosa, ma altrettanto burrascosa. Altri risvolti della trama si intrecciano alle storie  parallele di altri personaggi come  Valentina Gullace (Fräulein Kost), e narrano della complicata storia d’amore dell’anziana affittuaria Fräulein Schneider ( Altea Russo) e del suo vecchio spasimante ebreo Herr Schultz (Michele Renzullo) un fruttivendolo,  a cui è vietato contrare nozze in quanto ebreo. Sullo sfondo l’aria pesante, le molestie sociali, la perdita dei diritti civili, la selezione raziale della popolazione,  causata dalle leggi antisemite dell’avvento del Nazismo  con i suoi  Feder- marescialli capitanati dalla follia del dittatore che in nome di una falsa ideologia, li trasformerà in orridi aguzzini.

Commento Il codice espressivo del  “Cabaret”  utilizzato dal regista Saverio Marconi, direttore e fondatore della compagnia della Rancia, è quello di essere  un musical “rivelatore” in quanto racconta la vicenda dell’integrazione  intrisa come metafora  nel Capolavoro musicale di Masteroff. Questo nuovo allestimento, adesso al teatro  Brancaccio, amplifica la tensione e la follia che pervade il testo originale, per smascherare la crudeltà e le barbarie dei tempi moderni.

Marconi mette in scena, innanzi tutto,   il glamour del grande teatro musicale , le significazioni delle partiture, Il canto ritmico con i prolungamenti espressivi, la recitazione spigolosa, caricata e sovrabbondante,  le coreografie intrise di pantomime satiriche, i costumi sensualmente discinti, le caricature del dolore e della nostalgia, e al contempo l’ humour impalpabile e ironico,  i simboli avviluppanti del grottesco come abisso del ridicolo,    gli scorci di cinismo con tutta la gamma del riso, le sfumature  intrise di stupidaggine, le imbecillità che spingono insensibilmente l’intelligenza fino all’orlo della pazzia reso dalla magia del cromatismo dell’ illuminotecnica  evidenziandone le ombre scenografiche.

Il regista attinge al cabaret tedesco di Weimar, negli anni venti/trenta, fu quel periodo  una grande, confusa e spesso inconsapevole riserva di idee, di gesti, di talenti, di volti e di voci destinate a portare una misura nuova e più viva ad altre occasioni di  arte e di spettacolo; con l’arrivo del sonoro vennero girati i Film musicali  che influenzarono i musical teatrali.

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La Sala del teatro Brancaccio la sera della prima è strapiena. Sul palcoscenico la grande scritta luminosa CABARET suscita l’applauso corale della platea,  in quanto  i  suoi caratteri tipografici identificano la locandina cinematografica del famosissimo, omonimo film in technicolor del 1972 di Bob Fosse che consacrò Liza Minnelli come un’autentica star e icona del film musicale. Pertanto, quando a volte accenniamo all’influenza del cinema nel teatro contemporaneo sembra scontato parlare di  remake cine/ teatrali.

Ma questa terza edizione di Cabaret  – afferma il regista – è un lavoro scaturito con la saggezza della maturità, in quanto il “sottotesto” celato in Cabaret contiene e affronta la metafora dell’epurazione  nel periodo delle famigerate “leggi razziali antisemite”.

E questo spettacolo rivelatore affronta la vicenda dell’integrazione amplificando la tensione e la follia che pervadono il testo originale, per smascherare la crudeltà e la barbarie dei tempi moderni.

L’ambientazione, un grande tendone rosso che prende l’intera lunghezza  del palcoscenico, metafora di un mondo di avanspettacolo economicamente precario quanto trasgressivo, è quella del Kit Kat Klub, nella Berlino dei primi anni Trenta, prima dell’ascesa del  III Reich. A gestirlo uno stravagante maestro di cerimonie Giampiero Ingrassia che come un personaggio brechtiano, vestito con un frac zingaresco, sfoggia  una eccentrica eleganza che dà molto nell’occhio. Con toni da raffinato intrattenitore,  introduce i vari quadri scenici,  con gli strumenti della satira intrisa di allusioni a sfondo sessuale. Nel suo tergiversare  è ambiguo, folle, malvagio, volutamente enfatico, ma con sfumature sorprendenti che  il pubblico intuisce, capisce e applaude.

Mentre simultaneamente avvengono le varie scene dialogate,  cantate e “sgambettate” delle soubrette  in rutilanti atteggiamenti e pose osé, con  fondoschiena  e gambe  protesi in quel  ritmo frenetico.  E sulle labbra un sorriso espressivo, ammiccante. Anche gli occhi bistrati esaltano  lo sguardo libertino che non indugia in pleonastici descrittivismi, ritmati con una geometrica cadenza musicale.  Sono metafore  compositive, di posizioni “compenetranti” in trasparenza dal grande tendaggio, simili a  sequenze filmiche, aprono  e chiudono le posture del “rapporto”,  segmentando gli edonistici compiacimenti in quadri scenici, quasi  fosse una sperimentazione tra pentagramma musicale e “posizioni”, variegate sulle estetiche direttrici dell’eros.

Un risvolto psicologico di sublimazione di vita e delle sue passioni, intrise di sensuale  creatività come trasgressioni condotte da soubrette,  attori , pittori, scrittori, musicisti,  per superare le loro pressioni quotidiane.  Tale umanità era  considerata dal nazismo   gentaglia che produceva  “Arte degenerata”, di cui musica, pittura, letteratura d’impianto espressionista, era una reazione creaturale, anche gioiosa,  di ribellione, al fanatismo  di repressione imperante in quegli anni.

 

Ne è testimone Christopher Isherwood, nei suoi racconti autobiografici editi con il titolo “Addio a Berlino” allora capitale della giovane Repubblica di Weimar, dove lo scrittore fu attratto dalla  meritata reputazione di libertà sessuale (e omosessuale) che c’era in quegli ambienti. Qui lavorò come insegnante privato mentre scriveva la commedia I Am a Camera e al musical, da cui  ne fu tratto Cabaret,  con le musiche  espressioniste di John Kander e le liriche di  Fred Ebb che accendono la sensibilità in cui le donne e uomini sono l’incarnazione della sensualità.

Le partiture musicali  di Kander vantano una colonna sonora straordinaria, entrata nel patrimonio dei musical grazie a brani intramontabili: Mein Herr, Money Money, Maybe This Time, e Life is a cabaret, interpretati in questa nuova edizione dalla strepitosa voce di Giulia Ottonello, la cui  presenza scenica esalta la teatralità immediata di un’espressione verbale  dove la vanità  del personaggio interpretato acquista  segni di straordinaria potenza espressiva.

 

*Vincenzo Sanfilippo. Artista interdisciplinare di teatro e arte contemporanea.