Danilo AMIONE- La felicità è tutta da cercare (Diversa opinione. Note su un film di A. De Robilant)


Diversa opinione


LA FELICITA’ E’ TUTTA DA CERCARE

Appunti su “Mauro c’ha da fare”, un film di Alessandro Di Robilant

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Mauro ha 31 anni, due lauree ed è disoccupato. Come dire neanche il minimo cui si possa aspirare nella vita, ed il massimo per chi vuole farci un film. Sì perché per il suo ritorno nelle sale, a sei anni dall’efficace neo-neorealista “Marpiccolo”, il regista piemontese Alessandro Di Robilant, coadiuvato nello script da Alessandro Marinaro, sceglie un soggetto pienamente coincidente con il concetto stesso di cinema. Se  è vero, infatti, che la settima arte è racconto del reale veicolato da sintesi di spazio e tempo, la vicenda di Mauro si insedia proprio dentro questo paradigma semiotico. Un disoccupato vive sempre dentro un tempo vuoto, che deve riempire necessariamente. Ciò si amplifica a dismisura se egli è anche intellettualmente molto ricco e ancora più se egli è  giovane e dunque con energie da spendere e non controllabili. Mauro si trova così ad occupare il proprio tempo invadendo lo spazio di chi gli sta intorno non bastandogli più il proprio. A farne le spese saranno i familiari, la fidanzata, l’amico di una vita, la cameriera, il sindaco del paese in cui vive,e persino un direttore di banca.

Il tutto in un crescendo paradossale e ossessivo, e per questo esilarante nei toni, che fanno del protagonista Mauro Magazzino il degno erede del Michele Apicella di morettiana memoria. Anche in questo caso, dunque, il protagonista del film di Di Robilant riempie un ennesimo spazio, quello lasciato vuoto dall’alter ego del regista romano, oramai collocato dal suo autore in un doloroso dimenticatoio(non è un caso che gli ultimi tre film di Moretti parlano solo di morte).Dunque, quella di Mauro, interpretato da uno straordinario Carlo Ferreri qui al suo esordio da protagonista, è una vicenda che rimette in campo un non riconciliato, un irriducibile della sopravvivenza ostinato nel non darla vinta a nessuno. Un personaggio coraggioso nella sua ossessività e maniacalità, dal peso specifico certamente universale, in questo aiutato da una mimica alla Buster Keaton, anche se la sua storia  si svolge nel sud Italia (il film è girato e ambientato per intero nel catanese). Mauro si dibatte all’interno di un nucleo familiare piccolo borghese frustrato (peraltro la famiglia è una delle costanti di tutto il cinema di Di Robilant) che per la prima volta si rende conto che gli studi e i relativi sacrifici di tutti non garantiscono più niente (e la madre è anche e significativamente un’insegnante).

Il progressivo prendere possesso della casa accompagnato dal suo sax che ne sottolinea l’incipiente solipsismo, gli sguardi contemplativi che dalla sua finestra egli lancia antonionianamente sul mondo e le “vessazioni” cui sottopone la malcapitata domestica, sono tutti sintomi di un malessere esistenziale in cui Mauro finisce per precipitare. La sua fidanzata, Laura, interpretata da una strepitosa Evelyn Famà, anch’essa disoccupata stanca e sfiduciata, lo molla per un attempato e laido impiegato “valutatore” del Nord, finendo per esaurire le sue velleità di carriera stracca su un divano in attesa di un figlio. Il piccolo  paese in cui Mauro vive è metafora del mondo di tutti. Ed è questo mondo indifferente a tutto che Mauro vuole punire più che cambiare. Dal sindaco che non si occupa dei suoi concittadini, simbolo di un potere autoreferenziale e fine a se stesso, privo di spinte ideali e perciò inutile, al direttore di banca che si ostina a non concedere il mutuo a una giovane coppia con figlio e senza lavoro. Mauro ha una laurea in economia ed una in filosofia, due visioni del mondo in apparenza lontane ma in realtà fortemente complementari. Lo sguardo con cui egli guarda il mondo è perciò completo e consapevole. Ed è questo che lo mette contro tutti, come testimoniato dalla interviste metacinematografiche e ironiche che Di Robilant, parafrasando genialmente I’Allen di “Prendi  i soldi e scappa”, mette in campo.

Alla fine la passione di Mauro per i piselli, dunque  per la natura, elemento metastorico capace a volte di regalare felicità, quella che egli pensava di avere perso per sempre, diventa sintomatica di una chiusura definitiva ma salvifica con la realtà che lo circonda. Così dopo aver provato a lavorare in una officina di Torino (luoghi certamente simbolici, anche se qualcuno tende oggi a dimenticarsene) costrettovi dal padre ormai disperato, Mauro realizzerà il sogno della sua vita, coltivare piselli in Canada, grazie al  lascito di una zia lì residente. Come dire, solo i sogni non muoiono mai, soprattutto al cinema(Capra docet)!.Finale geniale riassuntivo di un film che ci tiene ben saldi sulla terra mentre vi voliamo sopra. Insomma Di Robilant ha costruito un film che in altri tempi si sarebbe definito “materialista dialettico”, con la sola variante, che va a suo merito, di averci sollevato un pò il morale facendoci anche ridere. Evidentemente la lezione di Chaplin a qualcuno, fortunatamente, ancora arriva. Al punto da regalargli , ad oggi, l’opera più riuscita della sua carriera.

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