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Ludovica RADIF- Saggistica breve. L’Aristofane del “Colosso” di Goldoni

 

 

L’inaspettato      Saggistica breve



L’ARISTOFANE DEL “COLOSSO” DI GOLDONI

La critica, in genere,   ha ‘misteriosamente’ sorvolato su una perla di letteratura

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Nelle biografie letterarie relative al commediografo Goldoni compare, di solito, un cenno a un’opera perduta, che segue nell’ordine cronologico la performance di enfant prodige dei 9 anni: il Colosso.

Nell’ampia voce a lui dedicata da Corrado Pavolini sull’Enciclopedia dello Spettacolo (vol. V, pp. 1425-46), per esempio, si dice che “Il Collegio l’espulse per una satira audace” (p. 1426); Gennaro Perrotta sulla stessa Enciclopedia s.v. Aristofane (pp. 859-78) se ne occupa a proposito della fortuna di Aristofane in Italia in quel tempo, quando dubita che il commediografo settecentesco lo abbia effettivamente letto, dal momento che la testimonianza relativa al periodo di soggiorno a Rimini pare in contraddizione con alcune sue affermazioni riferite nella prefazione al VII tomo, così concludendo: “Ma certamente la commedia goldoniana non ha nulla a che fare con quella di A.[ristofane]” (p. 872).

Nel complesso, la critica ha preferito sorvolare su questa primizia letteraria, disgraziatamente perduta, mentre un approfondimento in merito permette forse di ricostruirne in parte la sagoma e l’indole come di un unicum all’interno della produzione goldoniana e, al contempo, come di una straordinaria espressione aristofanea nel Settecento.

Di questa sorta di satira ci fornisce qualche notizia l’autore in persona, che ce ne spiega i motivi per averla scritta così come i motivi per averla distrutta. Ma dobbiamo anzitutto tenere conto dei motivi per cui ce ne parla: chi parla è uno scrittore affermato che si pente di un lavoro giovanile nato in una circostanza, possiamo dire, goliardica e poi sconfinato amaramente in una situazione umiliante di frustrazione e rinuncia.

Quindi, come ben sintetizzato da Lucia Strappini nella voce relativa al commediografo (Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 57, pp. 581-92), in tal caso a condizionare il racconto, oltre ai consueti meccanismi di finzione che abitualmente intervengono in una stesura di genere autobiografico come i Mémoires, è anche l’intento dichiarato già nel titolo “pour servir à l’histoire de sa vie et de son théâtre”. L’esperienza giovanile, in questo senso, non avendo avuto seguito alcuno, né variato in qualche modo lo stile comico italiano nel corso dell’importante  riforma, non rientrava propriamente nel programma dei Mémoires. Ma ecco che, se non va riitenuta tappa obbligata nel percorso, ci appare ancor più interessante, anzi interpretabile al contrario come un episodio minore o addirittura un caso di archiviazione di un fattaccio da cancellare, quasi non fosse bastata allo scopo la distruzione dello scritto.

È trascorso molto tempo tra quando la scrisse e quando ne riferisce: per averne un’idea, basti considerare il fatto che il ragazzo all’epoca incuriosito verso i classici non era in grado di leggere Molière nell’originale, mentre l’uomo che ne relaziona nei Mémoires sta scrivendo proprio in francese. Ma il ricordo è ancora molto vivo e acceso; frammenti utili a ricostruire l’episodio sono rintracciabili qua e là anche negli “Inviti al lettore” e nelle prefazioni ai tomi dell’edizione Pasquali delle commedie.

Un accenno è presente nella prefazione al tomo V (pp. I.634-38), in particolare (p. 635) dove si parla di una “ragazzata” che lo ha fatto precipitare e di cui prova ancora “rossore”, oltre a rimproverarsi per la “giovanile condotta”. Egli afferma che, all’ingresso nel collegio Ghislieri[1] riusciva a fare facilmente amicizie per la sua allegria, la giovane età, ma soprattutto per “il genio comico, che non poteva stare celato” (p. 644). Racconta inoltre che nel tempo delle vacanze, invece di dedicarsi agli studi di ambito legale, preferiva dedicarsi alla lettura delle commedie, tra cui il Machiavelli, la Mandragola, che “divora” e rilegge piu volte, ritenendola superiore alle altre che aveva letto (di Cicognini e Fagiuoli) e riconoscendovi “arte” “critica” e “sapore”. Ma è in particolare al terzo anno di Collegio (pp. 650-1) che va collocato il brutto episodio, che egli riprende “per far conoscere che il genio comico non arriverà mai a farmi tanto di bene,
quanto in quell’occasione mi ha fatto di male”. Che cosa era successo?

Pare che, data la possibilità di uscire dal collegio, i ragazzi usassero frequentare le case delle famiglie del luogo, risultando addirittura preferiti dalle ragazze rispetto ai loro concittadini, ma quando tornava il tempo del rientro in collegio le fanciulle si accontentassero dei compaesani, cosa che naturalmente li faceva irritare. Così succedeva anche che le donne decidessero invece si rifiutarsi ai collegiali, come in effetti capitò Goldoni, colpevole di essersi dimenticato di scrivere a una donna per poi rivendicarne i favori a tempo debito, quando era ormai interessata a un Pavese.

L’episodio sembra quasi un pettegolezzo, ma la sua rilevanza risiede nelle conseguenze letterarie; la vanità offesa suggerisce un accordo tra collegiali e, sulle prime, orchestra una vendetta diretta, poi, essendo stato sventato il colpo (e il giovane Goldoni essendo tenuto sequestrato in collegio), è al quel punto che tre pulsioni interiori inziano a ribollirgli dentro, “collera” “puntiglio” e “falsa
meditazione”, le quali “riscaldaro la fantasia”, mentre il
genio comico si apprestava a lavorare a suo danno.

Ora, negli autori classici aveva letto dei tre generi di commedia, antica mezzana moderna, e la prima era, dice, “una cosa informe, tratta per altro da fatti veri, e con nomi veri di persone assai conosciute, che noi diremmo piuttosto presentemente: una satira dialogata”.Tra le forme stilistiche utili a vendicare l’onta subita sceglie proprio la comicità aristofanea.

Ci domandiamo, come già altri hanno fatto, se il Goldoni avesse realmente letto Aristofane[2]: i critici avevano notato, come si accennava, una contraddizione in termini, tra quando racconta di aver letto una raccolta di poeti e quando nella premessa alla commedia “La famiglia dell’antiquario”, ammette:

ed io sono molto contento di trovarmi colà in un fascio con Plauto, con Terenzio, con Aristofane e con cent’altri ch’io non ho letto, siccome letti non li averà né tampoco quel medesimo che li ha citati (II p. 885).

Ora vale forse la pena considerare alcuni fattori per i quali propendiamo a pensare che abbia letto qualcosa del commediografo greco. Anzitutto il fatto che più volte torni sull’argomento, anche se brevemente e quasi per liquidarlo in breve; ciò fa pensare che un impatto significativo ci deve essere stato al punto da richiamarlo più volte, e al tempo stesso non così approfondito da poterne riferire abbondantemente. In effetti, la lettura effettuata di una raccolta di poeti antichi permette di immaginare un’antologia in traduzione italiana (poco dopo, infatti, lamenta il fatto di non poter leggere Molière, che, invece, era scritto nell’originale francese).

Qualcosa di Aristofane deve aver letto se, come vedremo poco più oltre, afferma di aver desiderato scrivere secondo il gusto di Aristofane, come a dire con quell’imprinting, la cifra distintiva complessiva che caratterizza una sua opera.

A suo dire, la distanza fra il suo lavoro e quello dell’antica commedia era quantificabile in termini di energia e di tempo. In effetti, se noi consideriamo la situazione contingente, vediamo che abbondavano gli spunti comici e la sua abilità stilistica, ma mancava una trama vera e propria; quello che si presenta in scena è un utopia, anche se mascherata sootto i veli dell’ironia, la bellezza. Ma se noi mettiamo a confronto il modello dell’atellana arcaica cui dice di rifarsi e la commedia antica della quale non si sente all’altezza, vediamo che forse ci sono più numerose somiglianze con la seconda tipologia di commedia rispetto alle farse.

Vediamo dunque come l’autore presenta la genesi del Colosso analizzando le varie frasi:

J’avois imaginé de composer une Comédie

[I.57]

Qui abbiamo una testimonianza molto interessante dal momento che normalmente la prima vera commedia è considerata del 1737 il Mòmolo cortesan; signfica appunto che in lui c’era un’intenzione iniziale di un’opera di maggior impegno e di più compiuta fattezza.

dans le goût d’Aristophane

[I.57]

Così nei Mémoires (I, XIII) lo scrittore dice di voler comporre secondo il gusto dell’autore della commedia antica; il termine “gusto”, sicuramente meno tecnico rispetto a “schema”, “tradizione” ci porta più che allo stile o alla forma alle preferenze tipologiche di ispirazione e simpatia.  Ma immediatamente dopo si corregge dicendo che,

Je ne me connossois pas assez de force pour y réussir

[I.57]

Questa ammissione ci fa capire come l’autore avvertisse l’elevatezza e la serietà di impegno che una simile emulazione avrebbe richiesto. Si rendeva conto che farsi seguace del gusto del comico antico significava spendere molte energie, forse anche una preparazione culturale sulla commedia antica che non aveva ancora avuto modo di compiere.

d’ailleurs le tems ne m’auroit pas servi

[I.57]

Non soltanto, ma l’operazione richiede anche un tempo che la situazione non permette; infatti l’intento dei suoi amici era quello di rispondere “a caldo all’offesa ricevuta”; egli allora ripiega sul genere dell’Atellana

et je composai une Atellane

[I.57]

che egli ritiene una sorta di contenitore di facezie e burle.

genre de Comédies informes (chez les Romains)

qui ne contenoient que des plaisanteries et des satyres

[I.57]

Ora questo riferimento all’atellana, genere primitivo di rappresentazione teatrale (originario presso gli Osci di Atella) in cui alcune maschere di tipi fissi davano l’occasione agli attori di improvvisare sulla base di scarni canovacci, sembra essere più un’affermazione di modestia che una vera scelta di stile. Per quel poco che possiamo dedurre della trama del Colosso non pare davvero in linea con la forma antica dell’atellana, se non nel senso di una poco pretenziosa burla licenziosa, in struttura imperfetta a canovaccio su cui gli attori in maschera potevano condurre con tratti di estemporaneità improvvisando la loro performance. Queste caratteristiche peraltro non sono lontane dalla tipologia teatrale in uso al tempo, quella della commedia dell’arte. Al contrario, ci appare tipicamente aristofanea l’audacia di citare per nome e cognome le donne che si volevano porre in ridicolo. Prova di una maggiore vicinanza con la tradizione comica antica rispetto all’improvvisazione dell’Atellana appare il nome stesso con cui poco oltre la definisce:

Un guizzo di comicità aristofanea si può riconoscere nell’idea stessa dell’accostamento patchwork delle varie parti di bellezza, un meccanismo comico presente per esempio nell’idea del personaggio Fidippide (Nubes 60), un monstrum sotto il profilo linguistico, visto che risulta essere la combinazione improvvisata di due nomi, l’uno gradito al padre (Feidon) e l’altro in –ippo, gradito alla moglie del protagonista Strepsiade.

Tra le immagini impiegate nelle commedie di Aristofane non priva di suggestione rispetto al Colosso del Goldoni rimane la gigantesca statua della Pace che Aristofane immagina tenuta prigioniera nell’omonima commedia. In particolare nel momento in cui viene condotta (820) fuori da Trigeo in compagna di Opora e di Teoria, due personificazioni del benessere, dato dall’abbondanza di frutti; allora, come è nello spirito della commedia antica specie nei versi che preparando lo scioglimento della vicenda verso il banchetto festante finale, si mettono in evidenza elementi anche un po’ piccanti della bellezza femminile: in questo caso si dice al servo (850) di preparare una tinozza d’acqua calda e il letto nuziale e maliziosamente si scherza su ciò di cui abitualmente ella si ciba fra gli immortali, non risparmiando naturalmente complimenti (860) alle sue forme fisiche.

Analogamente anche di Teoria si pone in risalto la bellezza fisica, fino a condurla davanti ai consiglieri, pritani, incitandoli addirittura a competere fra di loro nel possederla (v. 909).

Proprio questa scena suggerisce una certa affinità con l’immagine del Colosso della bellezza proposto da Goldoni con una serie di personaggi di rilievo, medici, professori, che si permettono di disquisire intorno alla bellezza delle varie parti della statua.

Anche il ritratto delle male femmine (Pace 980) , quelle che si sporgono per involgiare i passanti e poi si ritraggono quando sono oggetto di intreresse; questo particolare fa venire in mente le donne pavesi, che hanno giocato a nascondino con Goldoni stesso e altri collegiali, in quali per primi si erano allontanati e poi pretendevano di rientrare a pieno titolo nelle loro grazie.

Le titre de mon Atellane étoit le Colosse

[I.57]

Quanto al titolo, secondo l’attenta analisi condotta da F. Fido[3] sui titoli delle commedie, dovremmo aggiungerlo all’hapax che egli ritrova come caso unico di “oggetto”, ossia “il ventaglio”, un genere prediletto invece, per esempio, da Pirandello (p. 19).

Il titolo che ci viene riferito, come in qualche modo a tramandarlo ai posteri, viene poi spiegato immediatamente dopo in una sintetica trama, anzitutto rivelata principalmente nella sua componente scenografica di un’enorme statua[4] della Bellezza. La scelta corrisponde singolarmente allo stato emotivo post adolescenziale, nel quale si vorrebbe realmente poter collezionare in un’unica bellezza caratteristiche amabili riscontrate in più persone.

E allora un totem che concentri tutte le migliori forme femminili si dessero nella città di Pavia può ben rapprentare un’ipotesi di gusto aristofaneo. Come se nella Pace di Aristofane ci si limitasse a osservare la statua tano agognata e dimenticata dagli uomini che le preferiscono la Guerra, senza costruire una struttura che preveda il viaggio di Trigeo in groppa allo scarabeo stercorario.

La descrizione avviata riesce a restituirci, pur nella sua reticenza, la vivacità della resa plastica. Occhi, bocca gola, sottratti di qua e di là alle loro legittime proprietarie, per dare lustro a questo monstrum raccogliticcio.

Pour donner la perfection à la statue colossale de la Beauté dans toutes ses proportions, Je prenois les yeux de Mademoiselle une telle, la bouche de Mademoiselle cell-cí, la gorge de Mademoiselle cette autre, etc.

Quanto è cambiato Goldoni si può notare dal particolare che ora non svela i nomi.

Apparentemente, si tratta quindi di una sorta di catalogo di pregi di queste signorine che vengono esplicitamente chiamate in causa per le loro qualità fisiche; ma ecco che un’aggiunta maliziosa inizia a configurarci l’andazzo piuttosto goliardico che estetico della rappresentazione statuaria.

aucune partie du corps n’étoit oubliée

Si coglie immediatamente la natura piccante e maliziosa dello scritto che indirettamente rivelava al pubblico anche i trascorsi dell’autore con queste signorine di cui conosceva particolari fisici.

Si aggiungeva alla carica satirica un elemento che potremmo definire “corale”, nella presenza intorno di figure varie che intervenivano per criticare e contestare tali scelte, mettendo probabilmente in ridicolo queste celebrate bellezze:

mais les Artistes et les Amateurs avoient des avis différens, ils trouvoient des défauts partout

[I.57]

Ne viene chiarito lo scopo in questi termini:

C’étoit une satyre qui devoit blesser la délicatesse de plusieurs familles honnêtes et respectables, et j’eus le malheur de la rendre intéressante par des sailles piquantes, et par des traits de cette vis comica qui avoit chez moi.

[I.58]

Anche quando si autoritrae in termini di malheur per la sua capacità di condire le scene col sale delle facezie e con tratti piccanti, si compiace indirettamente della sua vis comica, di quella riuscita che lo rendeva piacevole e solleticante. Parte della burla doveva risiedere nella schiera dei giudici che intervenivano a sentenziare il loro punto di vista a proposito dei primati di bellezza. Le tipologie di coloro che esprimono il loro parere sono indicative, come i medici, che hanno abitualmente a che fare con il corpo, oppure gli artisti che lo ritraggono; ai affiancano alla schiera dei giudici alcuni “giudici” per così dire “privati”, e cioè gli innamorati, anch’essi interessati ai tratti fisici delle signorine.

Anche in questo caso, la luce sinistra da cui proviene la dichiarazione di fascino non impedisce al lettore di cogliere una certa soddisfazione nell’autore: anche i furbi sembrano apprezzare e farsene portavoce; scopo ne è il fiutato divertimento e forse anche la possibilità in quel modo di dare sfogo alla covata invidia. Persino gli indifferenti trovano l’occasione gustosa per divertirsi, anche se il loro bagaglio culturale tradizionale impedisce loro poi di apprezzare oltre all’opera l’autore che l’ha così composta. Quelli che invece gridano vendetta sono le vittime degli strali della penna sarcastica.

Dunque la finalità era di colpire non soltanto le singole protagoniste di tali storie sentimentali ma anche in generale la mentalità borghese della cittadina con la sua onorabilità. Lo scrittore qui ripensa a una qualità gradevole di questa satira:

beaucoup de naturel, et pas assez de prudence -e poi allo zelo con cui ne fu decisa anche l’immediata circolazione e diffusione.

Mes quatre ennemis trouverent mons ouvrage charmant; ils firent venir un jeune homme qui en fit deux copies en un jour, les fourbes s’en emparerent, et les firent courir dans les cercles et dans les cafés; je ne devois pas être nommé ; les sermens me furent réitérés, ils tirent parole; mon nom ne fut pas pronincé, mais…

[I.58]

Goldoni racconta di come alla fine gli amici-nemici lo avessero tradito,  rivelando la paternità dell’opera attraverso un sotterfugio, ossia ponendo vicino alla commedia una quartina con il suo nome, come se fosse stato egli stesso a vantarsene sfacciatamente. Secondo atteggiamento ipocrita alla grande e divertente novità si unisce il rimprovero nei riguardi dell’autore.

L’Atellane faisoit la nouvelle du jour; les indifférens s’amusoient de l’ouvrage, et condamnoient l’Auteur; douze familles crioient vengeance, on en vouloit à ma vie.

La situazione precipita e dodici famiglie gridano vendetta, insultando i compagni e volendo morto Goldoni; l’arcivescovo stesso e il marchese Ghislieri si spendono in sua difesa ma inutilmente, finché egli avverte tutto intorno come se stesse complottando contro di lui in una solitudine esistenziale.

Lo stato di depressione cui viene condotto da tale esperimento si spiega proprio in termini di delusione dagli amici e di umiliazione perché in fondo la satira era una ragazzata. Luigi Carrer nel vecchio saggio[5] su vita e opere di C.G non manca di sottolineare la componente dell’”invidia” e della “malignità” dei colleghi per l’affetto con cui egli si trovava accolto, e inoltre anche la capacità che a volte hanno i malvagi nel volgere al male propensioni da cui una persona potrebbe trarre vantaggi “volgere a profitto proprio le doti più pregevoli della persona cui vuol nuocere”[6] L’autore vede in quello che è successo un segno utile per inquadrare quella speciale voce interiore che dettava al Goldoni di occuparsi di teatro. Probabilmente sentiva in sé anche la rabbia per essere escluso dallo studio, dalla carriera avviata lì al collegio Ghislieri, solo per aver esercitato un proprio talento letterario, che era stato apprezzato come divertente e riconosciuto come efficace. È insieme l’amara constatazione che la libertà di cui godevano gli antichi non è più lecita nei tempi mutati.

Il Colosso di Goldoni e Le Maschere del Machiavelli

Come si è detto, abbiamo una testimonianza di particolare apprezzamento da parte del Goldoni per la commedia di Machiavelli; infatti
pare che nelle vacanze estive, invece che occuparsi di studiare si metteva a leggere alcune commedie e trova soprattutto avvincente, tanto da divorarla e rileggerla più volte, la Mandragola; “La divorai la prima volta, la rilessi più volte, e non poteva saziarmi di leggerla” [I.644], specie per tre qualità che nomina, ossia “arte” “critica” e “sapore”. Per avere un’idea dell’impatto che questa commedia sapeva suscitare, basti la lettera di Giovanni Manetti in data 28 febbraio 1526 a Machiavelli a proposito della rappresentazione della Mandragola:

Per adempire el desiderio di V. S. de l’intendere del recitare de la sua Comedia de Calimaco, fo intendere a V. S. quella eser stata recitata con tanto ordine e buon modo, che un’altra compagnia di gentilomeni che a concorrenzia de la vostra in quella sera medesima etiam con spesa grande ferno recitar li Menecmi di Plauto vulgari, la qual, per comedia antica, è bella e fu recitata da asai boni recitanti, niente di meno fu tenuta una cosa morta rispetto alla vostra ([1]).

Una singolare corrispondenza di intenti e di destino lega la disavventura del Goldoni con quella delle Maschere[7] di Machiavelli. Si tratta per entrambi di un’esperienza giovanile di una ripresa di Aristofane, ma attualizzato in un nuovo contesto; nel caso del Goldoni, uno dei primi lavori.

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Ecco quel che ne sappiamo dalle parole del Ricci:

Et di più compose ad instantia di Messer Marcello Virgilio et ad imitatione delle Nebule et altre commedie di Aristofane un ragionamento a foggia di commedia et in atto recitabile, et lo intitolò Le Maschere, che l’originale si ritruova appresso di me fragmentato et non perfetto et tanto mal concio, che io non l’ho copiato, sìccome ho fatto di altre cose sue, discorsi et lettere non stampate; per che sotto nomi finti va lacerando et mal trattando molti di quelli cittadini che nel 1504 vivevano.

La nota è breve, ma scritta da persona coscienziosa, che motiva le proprie decisioni, e riunisce così nella sintesi molti dati. Mentre per un esame delle singole frasi e un tentativo di ricostruzione della perduta commedie rinvio al mio Le Maschere di Machiavelli (Imperia, Ennepilibri, 2010), mi limito qui a fornire qualche nota essenziale utile a istituire il parallelo con Goldoni.

Dietro suggerimento dell’amico colto Marcello Virgili e imitando le Nuvole principalmente e poi anche altre commedie di Aristofane compose un atto unico dialogico intitolato Le Maschere, di cui il nipote possiede una copia manoscritta non compiuta e malconcia, che non si sente di ricopiare perché sotto falsi nomi colpisce persone viventi nel 1504.

Anzitutto, l’invito dall’esterno: nel caso del Machiavelli, come sappiamo dal nipote Giuliano de’Ricci, unico testimone di tale testo, era stato l’amico Marcello Virgili a invitarlo a un componimento di ispirazione aristofanea; nel caso di Goldoni, sono i compagni del collegio a spronarlo a una vendetta armata di penna, dal momento che quella di ordine fisico era stata scoperta anzitempo. Un ritorno ad Aristofane dunque, indotto da amici, i quali intuiscono le capacità drammaturgiche e satiriche presenti nello scrittore (cfr., “il genio comico, che non poteva stare celato” [I.644] ). Peraltro anche il Machiavelli si intuisce dal suo carteggio con amici quanto fosse un leader e un movente di riso ([2]).

Anche per Machiavelli la satira è un’arma, è l’arte di dire male, che nel tempo impara a dissimulare meglio sotto la maschera dell’asino dell’omonimo poemetto.

È per entrambi un atto sociale, un grido sincero, qualcosa che poi la sopraggiunta maturità dimenticherà cedendo il passo alla prudenza (prologo Clizia):

Volendo, adunque, questo nostro autore dilettare e fare in qualche parte gli spettatori ridere, non inducendo in questa sua commedia persone sciocche, ed essendosi rimasto di dire male, è stato necessitato ricorrere alle persone innamorate ed alli accidenti che nello amore nascano. Dove se fia alcuna cosa non onesta, sarà in modo detta che queste donne potranno sanza arrossire ascoltarla.

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Qualcosa pure di incompiuto, per l’uno un ragionamento recitabile e non una vera e propria commedia, per l’altro una soluzione rimediata rispetto al piano primitivo.

Entrambi, consapevoli fino a un certo punto della portata reazionaria del loro scritto, avvertono la necessità di coprire il proprio testo: il politico cinquecentesco decide di assegnare finti nomi ai suoi personaggi; il drammaturgo settecentesco consegna apografo il manoscritto e vieta ai compagni di aggiungere il suo nome, sperando in questo modo di mantenere l’anonimato. Gli amici lo tradfiscono, e pongono a fianco un suo sonetto firmato, come fosse un atto di plateale ammissione di paternità dell’opera. Comunque, il ragionamento recitabile del Machiavelli non risultava meglio coperto, se il nipote, a distanza di generazioni, indovina immediatamente l’identità celata sotto i nomina ficta dei personaggi (sotto nomi finti).

Le due opere colgono nel segno: i personaggi machiavelliani sono ancora scottanti al tempo del nipote, mentre le famiglie che vengono messe alla berlina da Goldoni si sentono istantaneamente colpite e dileggiate, al punto da intimare all’autore l’esilio. In questo senso possiamo dire che abbiano portato fino in fondo, alle estreme conseguenze, l’arte di dire male e di pronunciarlo apertamente per nome e cognome. L’unica avvertenza che adopera il Goldoni è quella di non apporre il proprio nome, quindi un po’ il contrario del politico fiorentino, e direi maggiormente in linea con l’antica commedia.

Entrambi gli scrittori abdicano di fronte al primo progetto, nel senso che il Machiavelli scrive qualcosa in atto recitabile, ma poi, probabilmente per le difficoltà politiche contingenti, deve rinunciare a una rappresentazione, e, a quanto ci risulta, non fa parola di questa sua commedia, né gli amici ne parlano. Goldoni addirittura, umiliato, bacchettato e punito per questa che egli definisce una “ragazzata” in prima persona, trovandosi fra le mani una copia del lavoro la fa a pezzettini.

“Et credo anco non lo volere copiare” diceva il nipote di Machiavelli lasciandoci nell’incertezza di non aver bruciato il lavoro, ma semplicemente di non averlo trasmesso ai posteri. E questo soprattutto perché incaricato dall’Indice di censurare le opere ritenute pericolose.

Anche per il nipote di Machiavelli si tratta di una sorta di confessione, di apertura e chiusura di un caso letterario che si presentava al pubblico, e immediata censura conseguente. Il nipote glissava sulla fine inferta al manoscritto, ma quel credo indicava una decisione difficile; il motivo di tale tentennamento pare risiedere nella bellezza dell’opera, che non si lascia dimenticare. Anche il Goldoni, mentre ne prende le distanze ce la fa apprezzare.

Nel caso di Goldoni è un impeto di rabbia che lo coglie nel momento in cui deve allontanarsi dal Collegio, sentendosi addosso non soltanto i rimproveri appena ricevuti in Pavia, ma anche quelli che lo attenderanno da parte dei famigliari, quello che lo determina a distruggere la copia. Non sappiamo invece che fine abbiano fatto le copie anonime goldoniane in circolazione nei caffé…

Eppure, qualcosa mi fa pensare che non fosse (forse giustamente) del tutto pentito di questa sua “bravata” letteraria, per il fatto che ne parla e il modo in cui ne parla ce la rende viva, ce la resituisce nelle linee essenziali come un frammento vivacissimo di satira attualizzata.

Questo esperimento giovanile deve infatti a mio parere essere considerato in tutto il suo peso per lo scrittore che lo ha composto. Se infatti nei Mémoires afferma, dopo tanti anni e tante soddisfazioni sulla scena, che il successo derivato dalle commedie di una vita è inferiore per intensità al male prodotto da quella sola opera, indica senza mezzi termini quanto gli sia bruciata dentro quell’antica scottatura. Anzitutto perché interviene in un momento in cui l’animo è ancora molto vulnerabile e muove appena i primi passi in un ambiente che sente congeniale e vuole provare a frequentare in prima persona. Egli trova in quel momento un’occasione per mettere alla prova un talento che già amici gli riconoscono. In una situazione di rifiuto delle donne di Pavia ai collegiali la penna si rivela un’arma sottile ed efficace per vendicare l’orgoglio ferito.

Ma ecco che coloro che dovevano con lui attuale la scherzosa beffa contro le signorine, in realtà, giocano forse il peggior scherzo a danno dell’amico, rivelando la paternità di quel libello satirico. In un paradossale contrappasso diretto, lui che aveva voluto onomastì comodein le donne, viene beffato per nome e cognome nel senso che viene apertamente scaricata su di lui la responsabilità del pubblico dileggio.

L’Aristofane ripreso dai due commediografi è il vero Aristofane, quello che mette alla berlina personaggi viventi e osa chiamarli per nome di fronte al pubblico che li riconosce o vi si riconosce. È l’Aristofane che la tradizione latina celebra come fortunato per poter agire con quella licenza che altre epoche hanno visto censurare. In un certo senso ritroviamo con Pavia anche un richiamo alle farse pavesi del quattrocento: Pavia, città nota per le scuole e per i fermenti culturali, era stata luogo particolarmente fervido di attività teatrale; una testimonianza assai interessante è costituita dalle farse pavesi, anch’esse caratterizzate da quella sboccatezza e libertà sociale, quale può assicurarsi in presenza di un pubblico ristretto come quello accademico-studentesco (pensiamo allo Ianus sacerdos, in cui la beffa a un sacerdote pederasta, sembra un pretesto per divertimento e goliardica sfrenatezza verbale).

Il vivevano mette in luce il taglio di attualità, attualità pullulante nell’affresco scenico ideato nel Colosso; fondamentale anche la dimensione sociale della città: Cittadini viene espressamente detto dal Ricci, e analogamente le donne di Pavia sono il bersaglio della satira goldoniana: non soltanto i protagonisti sono della città, ma anche il pubblico delle dodici famiglie, e l’orizzonte di diffusione più esteso, quello dei caffé cittadini…; dunque la nuova Atene Firenze e la nuova Atene Pavia.

Anche Giuliano de’ Ricci si arresta al “credo non lo volere copiare”, cioè non dice apertamente “distruggo”. Un certo imbarazzo coglie chi censura di fronte a una cosa bella, anche se irta di pericolosità. È significativa quella specie di confessione aperta al suo lettore e insieme di autocensura, per cui, mentre sta motivando la non trascrizione attribuendola al cattivo stato di conservazione del manoscritto, rivela invece il vero motivo determinante per lui. Il credo così premesso alla rivelazione in sordina attenua o, forse, rafforza, nell’eloquente imbarazzo stilistico, una volontà più forte di una mera contingenza. Se dunque le condizioni del manoscritto non erano così disperate da non poterne ricopiare le parti leggibili, era sufficiente ammettere di non volere copiarlo comunque, mentre il credo sembra rinviare a una decisione sofferta. E “sofferta”, l’opera probabilmente gli era piaciuta e indubbiamente meritava, ed egli avrebbe voluto trascriverla se le condizioni – e qui si intende la realtà socio–politica del tempo – non gli avessero totalmente sconsigliato un’operazione del genere.

Ci si domanda: e se avesse realmente composto una commedia  di gusto aristofaneo come sarebbero andate le cose? Propenderei per credere che l’effetto sortito sarebbe stato analogo; forse maggior tempo dedicato alla composizione avrebbe legato maggiormente l’autore, attenuando il suo rossore al ricordo.

Conclusioni

Durante gli anni giovanili della vita di Carlo Goldoni, prima che si definisca in lui quello stile innovativo capace di determinare la svolta notevolissima nella storia della produzione drammatica italiana, è testimoniato una sorta di inciampo, al tempo stesso biografico e letterario, nel senso che le due dimensioni si confondono e si riflettono a vicenda.  Nella sua mente è già ben chiara la vena comica, il genio che gli amici e anche i nemici gli riconoscono; in lui si fa prepotente il desiderio di leggere commedie, e non appena gli viene offerta un’opportunità la sa cogliere con entusiastica avidità (basti pensare per contrasto al rimpianto di non poter leggere Molière).

I ricordi non sono freschi, e quindi non è così sorprendente che si possano registrare delle incongruenze fra quanto dice di aver letto e quanto ammette poi di conoscere, ma quello che si fa sentire dal lettore dei Memoires è la propensione verso i maestri del teatro classico, come pure l’impegno per andare al di là delle prime impressioni, e infine la scoperta di un senso più vero e realistico oltre la trama lineare dei drammi.   Ma mentre a proposito del Machiavelli egli nomina espressamente la Mandragola, denunciandone la carica attrattiva, dei classici latini non parla se non di una raccolta; forse anche per il comico greco si trattava di una collezione di brani, sufficiente a fornirne una fisionomia approssimativa, rintracciabile a livello di icona espressiva nel termine “gusto”.   Il caso di Aristofane è però unico, e come tale forse un po’ trascurato dalla critica, nel senso che si configura come isolato, distante dalla produzione per cui si distinguerà il commediografo.

Eppure, dopo un primo senso di inadeguatezza o parziale incompatibilità, l’elemento apprezzato da Goldoni nella commedia antica è la capacità di cogliere il reale, qualcosa di tipico dei ritratti “smascherati” presenti nelle battute dei drammi greci (riferimenti sarcastici a personaggi di attualità politica, o altrimenti noti per vizi e difetti) piuttosto che delle figure un po’ stereotipe e caricaturali di plautina o terenziana memoria. Ed è esattamente l’attinenza al sociale, al personale, alla realtà, viva nel’abbozzo di trama del Colosso, a farci risalire al primo desiderio del poeta di ispirarsi al gusto aristofaneo. L’intenzione non avrebbe poi avuto seguito in una costruzione drammatica impegnata, fatta di scansione di parti assegnate a personaggi e coro, per motivi indipendenti dalla volontà, per una mancanza di energia e di tempo: la situazione e le motivazioni occasionali erano tali da far prediligere una forma più immediata e scanzonata.

La prospettiva disincantata di una beffa maschilista in maschera, che mentre pone su un immaginario piedistallo (il colosso, appunto) le bellezze cittadine, approfitta per far dire a un coro improvvisato di pseudo-esperti di forme giudizi irritanti o quanto meno tali da mettere in concorrenza le une con le altre, non è lontana dall’episodio delle Tesmoforiazuse, in cui il parente di Euripide, mentre si propone come donna in assemblea, enumera le nefandezze delle donne, che il tragediografo anzi avrebbe pudicamente velato (Thesm. vv. 466 ss.). Ma la vera trama aristofanea è da riconoscersi nella vicenda tutta, nel suo evolversi e amaramente ritorcersi sull’autore. Aristofane, emblema di chi può dire male fino in fondo e dirlo direttamente in faccia ai suoi nemici, ritorna nel Goldoni ragazzino che, tradìto dai compagni, si ritrova affibbiata la paternità di un libello satirico che ridicolizza parti del corpo delle ragazze della Pavia dell’epoca, di famiglie nobili, dunque anche gelose della loro reputazione; le parti ostentate e descritte erano per il pubblico indirettamente la prova della disponiblità delle donne, di una confidenza intercorsa con i ragazzi del collegio Ghisleri, anche la prova di amori clandestini.

La presenza tra le dileggiate di una nipote di una persona importante del collegio è segno parlante della capillarità del documento, che veramente andava a colpire la crema delle figure illustri, proprio quelle in cui il giovane compositore confidava per la propria futura carriera professionale. L’Aristofane fuori dal tempo della liceità è quello che nella storia sporadicamente tenta di risorgere nelle forme riviste di una  possibile rinascita, ma regolarmente trova non indifferenza bensì censura. Viene accettato nel primo istante del divertimento, quando la vivacità, l’estro, colpiscono l’immaginazione insieme alla carica di novità di cui sono portatori, ma poi, quando la battuta scende nell’animo del lettore e nella società di cui è parte, allora la multa libertas si vede immediatamente tarpare le ali. Gli scritti che hanno fatto ridere di gusto e anche sorridere in un ghigno malizioso, parodiare la cultura, sono d’un tratto inaccettati e bloccati al vaglio della storia. L’autore in prima persona non se la sente di proporre a viso scoperto qualcosa di tanto scottante da portarlo davanti a un giudice severo che lo condannerà senza appello all’esilio.

Machiavelli e Goldoni, in due epoche lontane tra loro ma in uno spirito simile di ripresa della libertà satirica di cui Aristofane è tradizionale simbolo, hanno tentato entrambi da giovani, quando lo spirito è maggiormente attratto dalle idealità e il coraggio è più spavaldo, non senza prendere qualche precauzione, un loro Aristofane in abbozzo con personaggi tratti dalla loro attualità, in sintonia con il pubblico appartenente al medesimo orizzonte. Ma chi legge condanna e ne impedisce la rappresentazione, mettendo a repentaglio addirittura la vita professionale (nel caso di Machiavelli, le sue opere rischiavano di essere condannate all’oblio per via dell’Indice; nel caso del Goldoni, la sua formazione al collegio e la carriera che ne derivava). Tuttavia il feroce accanimento che perseguita coloro che, rifacendosi alla libertà degli antichi scrittori di satire, osano “maltrattare” in forma comica i nemici contemporanei, pare arrestarsi un passo prima dell’oblio.

La commedia antica quando si lancia in punta di piedi in un terreno nuovolascia un’impronta inconfondibile, appena accennata eppure prepotente e viva, che, come nel caso del nipote Giuliano de’ Ricci, o dell’autore in fase di ritrattazione, parla nel suo silenzio, anche per bocca di coloro che l’hanno taciuta.

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Abstrac

In the Mémoires of Goldoni we read of a distant but still burning memory of a time when, as a young student at the Collegio Ghislieri at Pavia, during a
dispute between some students and some young women, he attempted to compose a satire that ‘tasted of Aristophanes’, though for extraneous reasons, such as lack of time, he later changed it to an ‘Atellan’ farce.  His ‘Colosso’ – which resulted in his expulsion from the college – was destroyed, but in fact, from what we can
gather from the information supplied by the author himself, it was an
interesting example of a reprise of Aristophanes:  it featured an outsize
statue on which were reproduced, for the public’s amusement, portions of the
bodies of women whom they could easily recognize …

[1] II 417-8 [417].



[1] Carlo Goldoni, Tutte le opere, cur. Giuseppe Ortolani (voll. 14), Milano 1935-56, I.643-55.

[2] Per esempio ne parla L. Carrer Vita di Carlo Goldoni 1824, pp. 24-5.

[3] F. Fido, Le inquietudini di Goldoni. Saggi e letture, Genova 1995, specialmente nel capitolo dedicato al peritesto dei titoli, pp. 11-21.

[4] Giuseppe Bonghi (si consulti la sua biografia disponibile online) ha pensato alla statua della Minerva che sorgeva a Pavia della Minerva di Emilio Monti.

[5] L. Carrer Saggi su la vita e su le opere di Carlo Goldoni, Venezia 1824.

[6] Carrer Saggi, cit., p. 22

[7] Per quest’opera perduta del Machiavelli, mi permetto di rinviare al mio recente lavoro Le Maschere di Machiavelli, Imperia, Ennepilibri 2010, nel quale mi avvalgo delle parole tramandate nella testimonianza di Giuliano de’ Ricci per dedurre una possibile trama.