Script & Books

Ugo G.CARUSO- La memoria. La grande bellezza di Anita

 

 

La memoria


 

LA GRANDE BELLEZZA DI ANITA

Anita Ekberg morta, addio all’attrice resa indimenticabile da Federico Fellini

Un ricordo personale della Ekberg, carnale ‘luce del nord’

****

C’è da restare increduli di fronte alla morte di Anita Ekberg. Francamente, si sarebbe portati a pensare che una donna così fosse immortale, come una dea. Radiosa di una luce del nord fredda e pulita,carnale e imponente al punto da intimidire. Come per un sesto senso ne avvertii la presenza alle  spalle un pomeriggio dei primi anni ottanta in Via del Corso. Mi fermai all’altezza di Via della Croce e le cedetti il passo restando ad ammirare il suo incedere maestoso. Subito dopo però, pentito, la superai per poterne rimirare il decolletè ubertoso, mitico (e mitologico per via dei peplum girati in gioventù). Da cinquantenne, quale era allora, appariva appesantita nella figura ed indurita nei lineamenti, come certe dive hollywoodiane dal cocktail facile. Ma come per altri esuli nel mondo dello spettacolo e dell’arte – penso al jazzista Tony Scott incontrato tante volte, al poeta Gregory Corso (che una notte del ’76 ho addirittura soc-Corso, dopo il pestaggio di due pusher nei pressi di Campo de’ Fiori), all’attore Lou Castel e a tanti altri, forse allo stesso Orson Welles, se l’avessi incrociato – va detto che Roma non è il luogo migliore per percorrere il proprio viale del tramonto. Come il marziano di Flaiano si finisce per non essere presi sul serio, per essere spogliati di ogni aura gloriosa e infine per un eccesso di confidenza, finanche, talvolta, coll’essere dileggiati. Cosa sarebbe l’Anitona senza l’intuizione felliniana? Se, mettiamo, non avesse indossato quell’abito da prete risalendo di corsa le scale del Cupolone, simbolo erotico inarrivabile per un cattolico dall’erotismo represso e fustigato da secoli di cultura del peccato?

E infatti dopo La dolce vita e Le tentazioni del dottor Antonio in cui è il sogno erotico quali altri ruoli ha interpetato  in Italia? Solo insulsi e immemorabili filmetti commerciali prima di tornare ad essere se stessa in “Intervista” ancora sotto la direzione di Fellini? Una mammiferona modello 103 (ad occhio direi anche più) in stile Buscaglione, come nel carosello della birra che fecero insieme. Non sarebbe stato meglio tornarsene ad Hollywood? Chissà che oltre al ruolo di appetitosa biondona qualche regista tipo Elia Kazan, Sidney Lumet o Delbert Mann non ne avrebbe tirato fuori nella maturità un personaggio femmile finemente tratteggiato come accadde alla Loren con Scola in “Una giornata particolare”? Tempo fa lei stessa confidò la sua lunga relazione con l’Avvocato. Ai ruoli professionali probabilmente preferì quello privato di bambolona dell’uomo più potente d’Italia. Confesso la mia delusione. Sarà pure questo uno stereotipo, ma da una svedese mi sarei atteso, diciamo, una maggiore autonomia. Non dico un’evoluzione professionale alla Mai Zetterling ma comunque una diversa coscienza del proprio ruolo di donna. Il nostro panorama cinematografico del tempo è zeppo infatti di procaci stelline che hanno messo in cassaforte la carriera sposando produttori e registi che le facevano sentire più “protette”.

Comunque, non è il caso di dare giudizi. Semmai mi piace immaginare un tardivo ritorno in patria. Chissà che un Ingmar Bergman, grande direttore d’attrici, non riuscisse a liberarla dalle vesti della diva rivelatesi un vero abito di contenzione e a ridisegnarle un ruolo che in extremis la cooptasse nel suo magico gineceo drammaturgico accanto a  connazionali più talentuose come Eva Dahlbeck, Harriet Andersson, Maj Britt Nilsson, Ingrid Thulin, Bibi Andersson? Da Fellini a Bergman: questo sarebbe stato il finale più auspicabile per una grande biografia. Ma la Ekberg ha preferito restare nella terra che l’aveva eletta a mito. A differenza delle sue colleghe italiane va detto però che l’Anitona non deve aver tratto grandi e durevoli vantaggi dal suo lungo e segreto rapporto con Gianni Agnelli. Negli ultimi anni pare fosse malandata in salute e in difficoltà economica. E poi, per finire, le sue esequie non hanno neppure richiamato folle di ammiratori grati e commossi.

E’ la conferma a quanto scrivevo prima. Roma deve moltissimo al mito della dolce vita, sebbene fasullo quanto un tempio romano di cartapesta in quei “sandaloni” della cosiddetta Hollywood sul Tevere. Rimasi fatalmente abbagliato anch’io da quel Luna Park quando nel settembre del ’63 vidi per la prima volta la Capitale risiedendo con i miei genitori in Via Lombardia, proprio alle spalle di Via Veneto. Ma le feste sulle terrazze dei palazzi dell’aristocrazia nera, i night club esotici, gli scandali, i paparazzi, gli stripteases nei ristoranti, i balleti rosa, la cafè society e tutto il resto era roba per pochi, anzi pochissimi.  A differenza di Parigi, Londra o Berlino, la Città Eterna rimaneva un grande agglomerato terziario condizionato da secoli di dominio papalino e reso provinciale da un ventennio di autarchia fascista. Lo capii più tardi quando vi andai a vivere, a metà degli anni settanta, vagheggiando di ripercorrere le orme di Flaiano, Brancati, Patti, Bigiaretti, De Feo, del conterraneo Talarico. Ma era già tutto finito, spazzato via dal ’68.

Quel mondo aveva chiuso per sempre e neanche tanto in bellezza con “i coca party del Number One”. Era stato poco più di un trucco, un effetto speciale, una festa esclusiva con gli “amici americani” prolungatasi per un quindicennio ma che non si sarebbe più replicata negli anni a venire. Non aveva cambiato il modo di vivere dei romani, meno quelli direttamente interessati. Manuel Puig, allora studente al Csc, racconta che in centro la maggior parte delle osterie chiudeva alle dieci e per i vicoli regnava solo l’odore di pasta e fagioli. I racconti di parenti, amici di famiglia, artigiani, baristi, esercenti confermano fino agli anni cinquanta l’immagine di un grosso borgo dove ancora di domenica le famiglie dei ministeriali gustavano il gelato nei caffè di Piazza Esedra mentre i ceti più popolari facevano la fila da Fassi al Palazzo del ghiaccio per un cono o una coppetta da consumare per le strade dell’Esquilino.

E d’altronde sono scene che la letteratura e il cinema ci hanno trasmesso tante volte, come le processioni al Divino Amore, i tuffi nel Tevere, le trattorie a mezza porzione per la bohéme di P.zza del Popolo, i posteggiatori nei ristoranti di Trastevere, le coppiette in carrozella al Gianicolo, i fagottari della domenica diretti con ogni mezzo ad Ostia sulla Via del Mare. Da allora Roma non è riuscita a reinventarsi, a ritornare al centro dell’attenzione, a rinnovare il suo fascino e si è ridotta a vivere di rendita sui clichè di Vacanze romane e Arrivederci Roma. L’immagine di Anita Ekberg che invita Marcello ad immergersi nella Fontana di Trevi coincide con l’apogeo di un’epoca. Ma al di là dei poster che riproducono la scena, facili da trovare nelle bancarelle del centro o in qualche pizzeria cafona accanto a quelli di Sordi, Totti e Papa Francesco, Roma non ha saputo serbarle fino in fondo la sua gratitudine, forse non capendo che quei fasti lontani non torneranno più. E infatti, in tono con l’atmosfera capitolina, la Fontana di Trevi appare eternamente transennata e incerottata.