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Angelo PIZZUTO- Più misogino che dissociato (Jeckill in una drastica ‘rilettura’ teatrale di E.Esposito)

 

Teatro      Il mestiere del critico



PIU’ MISOGINO CHE DISSOCIATO

JEKILL & HYDE - regia Saro Minardi

“Jeckill & Hyde” (da Stevenson) – Di Eliana Esposito. Regia: Saro Minardi   Aiuto Regia: Gabriella Caltabiano   Scenografia Salvo Manciagli. Costumi: Cool Lalla. Assistente scenografo: Gabriele Pizzuto,  Art designer: Antonio Zagare. Con:  Giuseppe Carbone, Raffaella Esposito,Emanuele Puglia, Salvo Musumeci,   Carmela Sanfilippo, Fiorenza Barbagallo, Giampaolo Costantino, Giada Caponetti,  Riccardo Coppa, Edoardo Monteforte. Catania, Teatro del Canovaccio-

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Con quest’inusitata, drastica rilettura del breve romanzo di Stevenson si  completa la sfaccettata, eterogenea, prolifica stagione del  Teatro del Canovaccio di Catania, che assegna a questo stringato  ma accogliente spazio scenico di Catania il ruolo di maggior polo del teatro di ricerca per quanto attiene la Sicilia orientale.

E parimenti, “Bravissima come un uomo” (per citare un’espressione cara e provocatoria dell’indimenticata Franca Rame), eclettica nei   suoi mille interessi letterari e drammaturgici, anche Eliana Esposito firma con “Jeckill  & Hyde” uno dei suoi testi più articolati e complessi,  a conferma delle  doti ‘speleologiche’  del repertorio classico rimaneggiato (anzi rivoluzionato) con gli strumenti  -tipici e congrui- dell’ingegno adattato alla esiguità dei mezzi a disposizione: sia dal punto di vista economico,sia dal punto di vista del ‘locus’ ove recitare (che in questo caso si ‘moltiplica’ per effetti di ingegnosità prospettica, adattabili ad  ogni genere di palcoscenico).

Sappiamo  che la tesi di fondo dell’opera stevensoniana è sempre stata la discussa, allarmante ‘relatività’ del confine tra bene e male: da intendersi in tutta la sua labilità storica, etica, estetica, antropologica. Concetto  oggettivamente scomodo per ogni genere di distinzione manichea  tra ‘beneficio’ e ‘maleficio’ della condizione e dell’agire umano.   A supporto, invece, di uno  “sdoppiamento” che investe la radice profonda (per tanti versi imperscrutabile) della condivisa esistenza–la sua stessa coscienza-non arginabile entro i vecchi bastioni della religiosità penitente, del pentimento espiativo, della confessione e della redenzione ‘per grazia ricevuta’.  Di fatto:  l ‘io diviso’ e il ‘pensiero debole’ che ne conseguono (Svevo e Joyce ne espressero il magistero più alto) prosciolglierebbero  l’essere umano dalla ‘gogna primordiale’ del suo agire in balìa di entità (maligne o benevole)ad esso trascendenti, come nelle tragedie sofoclee. Inversamente proporzionali alla crescita e sedimentazione storica di concetti filosofici quali il ‘libero arbitrio’ e la cognizione dell’inconscio.

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Nell’ipotesi drammaturgica dello spettacolo, e in un’era  non lontana , abietta, ma contigua agli universi  ‘allucinati’ di Bradbury e Dick (con additivi degni  del famigerato prof. Moebius, teorico dell’omonima sindrome ‘attestante’ l’inferiorità del femmineo),  Jeckill  è  ancora lo scienziato di genio  che vuole superare, spregiudicatamente,  ogni  limite e valico della “discriminate naturale”. Qui attinente una sorta di  profanazione onanistica che mira alla  riproduzione mediante ‘evitato accoppiamento con donna’. Ovvero: In una società di uomini soli (temo convinti di essere semidei)  si vuole ‘spodestare’ la  donna della  funzione riproduttiva (cui  il destino  l’ha quasi  ‘condannata’) , mediante un esperimento  di partenogenesi   cui   Jekill offre il suo genio e la sua implicita misoginia: qui  incoraggiato da tal ministro  Carrew  che tratta  la sua Lady come vezzeggiato  cane da compagnia (pensate, per caso, al Dudù di Berlusconi? Esatto).

Se non fosse  che, dalla mente sconvolta del medico,  sortisse furibondo  una sorta  di emisfero sommerso e  femminile,   vindice  della  di ‘quella  parte di Hyde che ha di  nome  Virginia’. La quale, oltre a compiere efferati crimini (per angoli, anfratti di città relegati in un tempo neo-medievale e  dark-ipotetico)   mette a punto   un piano di rivolta contro il potere maschilista, supportata da altre complici ‘nate donne’ e fiere di esserlo “ esseri pensanti e capaci e reagenti”. Se  non ancora lobotomizzate, come in un famoso romanzo di Ira Levin (“La fabbricca delle mogli”).

Non privo di una sua segreta ironia ma  brulicante  una  sinuosa  forma di allarmismo genetico, “Jeckill & Hyde” è –grazie alla cronometrica regia di Minardi- un apologo scorrevole, ‘leggibile’ e per nulla cerebrale (nella  palese  filosofia che stigmatizza la riduzione dei ‘generi’ a meri oggetti di mercificazione) , sorretto da un cast attorale di collaudata sintonia, guidato da Raffaella Esposito e Giuseppe Carbone (corpi contraddittori e ‘anime in pena’  complementari). Ed in ruoli di funzionalità dialettica  Emanuele Puglia   (il mefistofelico  Carew) , Salvo Musumeci (il Prof. Utterson), Carmela Sanfilippo (la ribelle Simone De Claire), Fiorenza Barbagallo (la furba Emma Maria Stevens). In ruoli  di complemento si affermano Giampaolo Costantino  (uomo in procinto di farsi macchina), Giada Caponetti, Edoardo Monteforte, Riccardo Coppa.  Mentre lo spettacolo merita una circuitazione più allargata della sua isola natìa.